E se avesse vinto Morsi?
La complessa partita egiziana come se fosse un film
Immaginatevi la scena. Come se fosse un film. Ragionate come uno sceneggiatore della Paramount Pictures davanti al presidente della vostra casa di produzione.
Il Cairo, tarda sera di un mercoledì d’estate. Insomma, notti d’oriente. Palazzo Presidenziale di Heliopolis. Ad un certo punto si aprono i grandi portoni del palazzo. Entrano i militari. Chiedono del presidente (in maniera più o mono cortese, su questo confrontatevi col vostro produttore). Il Presidente della Repubblica non può che prendere atto dello strapotere dei militari in questa situazione. Si consegna. I militari nominano il presidente dell’Alta Corte Capo dello Stato ad interim e sospendono la Costituzione.
In una scena così banale e così “filmica” sorgono subito alcune caratteristiche di base. In primo luogo quello dei poteri che si contendono il campo: da una parte i militari che romanticamente irrompono nei palazzi del potere, come tutti i film del genere con Rodolfo Valentino che vola sui tappeti volanti (prima dei vari rifacimenti Disney). Dall’altra un presidente che governava e che viene deposto.
Non è tanto un discorso di opinabilità. Qui non si intende valutare chi è dalla parte del torto e chi no. La cosa che più ci interessa analizzare che in un soggetto come questo i protagonisti sono due. Indipendentemente da chi farà la parte del buono e chi quella del cattivo.
Questa tendenza è quella che rischia di delinearsi dell’Egitto post-Morsi. In un quadro non necessariamente a favore delle istanze di piazze Tahrir. Che poi sono quelle che hanno spinto a raccogliere le 22 milioni di firme per le dimissioni del Presidente della Repubblica.
Se inquadriamo la politica egiziana nell’ottica di un continuum tra laicità e islamismo, il fronte dei militari con questo suo gesto (contro la deriva islamista) ha assunto una centralità politica maggiore in grado di farlo tornare ai fasti del potere mubarakiano. Mentre la Fratellanza Mussulmana, da sempre radicata nel paese, oltre a continuare a rappresentare le istanze islamiste da questa sera ha dalla sua la rivendicazione di una forza politica estromessa in maniera anti-democratica.
Come se i soggetti centrali (esercito e fratellanza) tendessero a polarizzare lo schema di gioco. A loro favore. E a scapito delle altre due ali estreme: i salafiti, sul fronte islamista, e quello di Piazza Tahrir sul fronte laico.
Col paradosso che, mentre i manifestanti si rifacevano a maggiori standard di democraticità, ora il popolo che è sceso in piazza contro Morsi sostiene un’iniziativa dell’esercito del tutto antidemocratica. Mentre la personalità e la forza politica considerata meno in grado di rappresentare quelle istanze di democrazia nate due anni, dopo i candidati vicini ai militari, ora possono rivendicare la loro “paternità democratica”.
Il tutto in un quadro di “latitanza statunitense” che rende Washington, nel bel mezzo dello scandalo Datagate, impossibilitata a cambiare referente scacchiere egiziano.
Una situazione esplosiva che rischia, nella migliore delle ipotesi, di portarci allo status quo pre-mubarakiano. E che nella peggiore ci delinea tinte da guerra civile.