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E alla fine (ri)vince Orban

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Il voto ungherese, tra crisi economica e derive autoritarie

Viktor Orban senz’altro si appresta a diventare la figura politica più significativa della storia ungherese post-Guerra Fredda.

I risultati delle elezioni di ieri gli hanno conferito un terzo mandato, seppur non consecutivo, al leader di Fidesz che si è aggiudicato il 44.4% dei voti. Si piazza al secondo posto il cartello della sinistra, animato perlopiù dai socialisti del Mszp, col 25.9% mentre gli estremisti di destra di Jobbik superano il 20% confermandosi la terza forza del paese.

A differenza delle legislative di quattro anni fa Orban non ha ottenuto la maggioranza assoluta dei voti, ma nonostante tutto grazie alla nuova legge elettorale varata nel 2012 (che tra le altre cose riduce a 199 il numero di seggi del Parlamento e abolisce il secondo turno di marca “francese” che tanto piaceva al Pd italiano) ha ottenuto un ampio premio di maggioranza che attesta il suo movimento sui 133 seggi. Insomma: la maggioranza dei due terzi per continuare la controversa strada delle riforme costituzionali in salsa magiara può continuare.

La vicenda Orban senz’altro appare complessa. Oggi come oggi tra i commentatori si parla del “paradosso ungherese” come della massima rappresentazione delle contraddizioni dell’Unione Europea. Budapest infatti oggi come oggi se fosse un paese esterno all’Ue non avrebbe i requisiti per chiedere l’ammissione nel club di Bruxelles. Ma essendoci entrata dal 1° maggio del 2004, sotto il governo socialista del magnate Gyurcsany, ormai è troppo difficile cacciarla via.

Orban al tempo stesso si è contraddistinto per una serie di riforme considerate oltranziste soprattutto in materia di diritti civili, giustizia e libertà di stampa. Il suo partito nonostante tutto resta fortemente ancorato al Partito Popolare Europeo e la pattuglia di europarlamentari che Orban spedirà a Strasburgo rafforzeranno l’asse che lotta per il lussemburghese Jean-Claude Juncker alla Presidenza della Commissione Europea.

Considerando che negli ultimi anni molte forze politiche (basti pensare ai Conservatori britannici, al Partito Democratico Civico della Repubblica Ceca o a Legge e Giustizia in Polonia) si sono staccate al popolarismo europeo per dar vita a gruppi meno “euro-positivi” e di marca più conservatrice, il caso di Fidesz appare emblematico. E si spiega solo conoscendo la vicenda di un movimento politico composto da soli giovani (norma statutaria tese ad evitare infiltrazioni tra le proprie file di vecchi esponenti del passato regime) che ebbe un ruolo determinante nel decretare la fine del regime comunista nel 1989 e nell’edificazione della democrazia magiara (concetto da sempre espresso, tra gli altri, dall’ex ministro della difesa italiano Mario Mauro che segnalò come la vicenda di Orban nonostante tutto alimentasse innata fiducia proprio a causa della genesi del suo movimento politico).

In questo quadro la debolezza dei socialisti, che anche in queste elezioni hanno proposto la candidatura di Mesterhazy, non basta per cogliere i motivi di un successo elettorale di queste dimensioni.

La triste verità è che di fronte ad uno scenario di profonda crisi, esemplificato dalla vicenda ellenica, il caso ungherese per quanto grave assume connotati di serie B per il sistema mediatico europeo. E di conseguenza il cittadino medio ungherese, cogliendo tra l’altro nelle parole del suo primo ministro connotato nazionalisti ed autarchici, vede in Viktor Orban come l’argine per non far diventare Budapest (tutt’altro che un’economia competitiva: tristissima i cartelli “vendesi” su Andrassi ut…) una novella Atene.

Non sarà il massimo della democraticità. E anzi appare un’evoluzione in salsa europea della democrazia formale dai tratti sostanzialmente autoritari (modello Putin). Ma ricalca lo spirito euroscettico del tempo e frena i rischi di una depressione economica. Basandosi sul culto dell’economia interna, nazionale e sullo scetticismo nei confronti di qualsiasi tendenza proveniente dall’esterno.

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