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Droni e filosofia

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Qual è il futuro della guerra automatizzata?

Uccidere senza poter essere uccisi. È il sogno di ogni soldato, ma anche il sogno di ogni governante che voglia muovere guerra senza dovere affrontare i costi politici che le perdite umane –le proprie, ovviamente– comportano.

Negli Stati Uniti, la cosiddetta “sindrome di Dover” (dal nome della base aerea dove arrivavano le bare dei soldati morti in Vietnam) ha plasmato almeno un cinquantennio di storia: nell’era dell’informazione, quando le immagini di cadaveri straziati e feretri imbandierati vengono continuamente rimbalzate sugli schermi dei cittadini-elettori, ridurre al minimo il numero di soldati morti sul campo è un imperativo. La volontà di minimizzare la quantità di vittime nei propri ranghi è la ratio che spiega i missili balistici, la guerra aerea, e, negli ultimi tempi, il dispiegamento di compagnie militari private che impiegano mercenari stranieri esclusi dal conteggio ufficiale delle morti.

La più recente tappa sul sentiero verso la guerra a costo zero sono i droni: aerei militari comandati a distanza, di cui l’amministrazione Obama fa largo uso per condurre incursioni in aree ritenute sotto il controllo di organizzazioni terroristiche. Casa Bianca e Pentagono li esaltano come armi “precise” e perfino “umanitarie”, ma i droni stanno trasformando il concetto di guerra in un’indiscriminata opera di disinfestazione di esseri umani, e potrebbero mettere a repentaglio la stessa democrazia. Questa, almeno, è la tesi di “Teoria del Drone”, saggio polemico del filosofo francese Grégoire Chamayou pubblicato in Italia da DeriveApprodi.

Chamayou usa sia dati e testimonianze dirette che  strumenti filosofici per mettere a nudo la spietata dottrina che è alla base dell’uso dei droni: quella per cui bisogna preservare le vite americane anche e soprattutto a spese delle vite di chi è etichettato come nemico. Data la semplicità, anche emotiva, con cui i droni permettono di uccidere a distanza, sedendo in una poltrona a migliaia di chilometri dal teatro bellico, la strategia prevalente è quella di non rischiare, e colpire chiunque sembri vagamente sospetto. La guerra dei droni diviene così una realtà videoludica, in cui sparare su bersagli senza volto e quindi, senza umanità.

Le conseguenze della rivoluzione dei droni non coinvolgono solo gli sventurati che hanno imparato a vivere sotto il loro rombo, ma anche i cittadini degli stati che ne fanno uso. Uno stato che può andare alla guerra senza mettere a rischio la sua popolazione non è solo uno stato che può imbarcarsi in ogni sorta di impresa crudele o sconsiderata senza temere troppe resistenze, ma, in prospettiva, è anche uno stato che non ha più bisogno dei suoi cittadini per difendersi. L’automatizzazione della violenza lo renderebbe, così, un Leviatano autosufficiente – e potenzialmente impunito. Le possibili degenerazioni evocate dall’autore, come l’uso di droni sempre più intelligenti e autonomi per funzioni di polizia interna, richiamano scenari distopici alla “Terminator”.

E, di fatto, quello che Chamayou teme, non senza un certo luddismo, è proprio il prevalere della macchina sull’uomo, del robot sul soldato, e, se vogliamo, della perfezione sull’imperfezione. Come si legge negli ultimi capitoli, in un’ipotetica robotizzazione completa degli eserciti, il pericolo non sarebbe una ribellione dei droni: al contrario, il rischio maggiore è che i droni non disobbediscano mai. Perché l’ultima ridotta contro gli orrori della guerra totale è spesso la tendenza, tutta umana, all’insubordinazione.

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