Dimissioni e rimpasti di facciata
Riesplode la rabbia nelle strade egiziane
Punto e a capo. Per l’ennesima volta il primo ministro egiziano esce di scena. Tutto da rifare, sembra il messaggio arrivato dalle dimissioni del premier ad interim Hazem al-Bablawy. Leggendo la lista – ancora provvisoria – dei nuovi ministri ci si trova però davanti a un rimpasto. Se Beblawy è uscito di scena, 20 dei suoi 31 giocatori non hanno appeso le scarpette al chiodo.
Gattopardi
Il compito di mettere nero su bianco i nomi del nuovo team è stato affidato dal presidente ad interim Adly al-Mansour all’ex ministro delle politiche abitative, Ibrahim Mehleb, uomo al vertice di una delle principali compagnie di costruzione del Nord Africa, anche membro dell’ex Partito Nazionale Democratico di Hosni Mubarak. Tra i ministri confermati troviamo quello degli interni, Mohamed Ibrahim, l’uomo che molti difensori dei diritti umani vorrebbero vedere uscire di scena. Secondo gli attivisti, Ibrahim, che lo scorso settembre è sopravvissuto a un attentato, avrebbe le mani sporche di sangue a causa delle pratiche repressive con le quali da mesi cerca di contenere il dissenso.
Secondo i primi analisti, l’ultimo colpo di scena firmato da Beblawy doveva spianare – ulteriormente – la strada al general Abdel Fattah el Sisi, ministro della difesa e uomo al vertice del Consiglio supremo delle forze armate, Scaf, che da mesi tiene il paese con il fiato sospeso circa la sua candidatura alle prossime presidenziali. Qualora volesse correre la gara elettorale nella quale partirebbe con un netto vantaggio sui pochissimi pronti a sfidarlo, Sisi dovrebbe spogliarsi dell’uniforme militare. Un esodo di gruppo poteva dare meno nell’occhio. Ciononostante, anche se in settimana dovrebbe essere approvato il decreto elettorale per dare il via alla competizione, per il generale non sarebbe ancora giunta l’ora di indossare abiti civili e anche la casella Difesa del nuovo governo dovrebbe essere riempita dal suo nome.
Luna calante
Nonostante la Sisi mania dilagante, la luna di miele tra il generale e i più giovani rivoluzionari sembra calante. Per capirlo è bastato camminare davanti ai seggi in occasione del referendum costituzionale dello scorso gennaio. A nutrire il folto gruppo degli astensionisti sono stati soprattutto gli under 30.
Segnali di insoddisfazione non arrivano solo dai giovani. Nelle ultime tre settimane, un’ondata crescente di scioperi ha toccato diverse località del paese. Il tutto è scoppiato a Mahalla al-Kubra, la città a 60 km dal Cairo che ospita una delle più grandi aziende egiziane del settore tessile. Ancora una volta a insorgere sono gli operai che il 6 aprile 2008 organizzarono il più grande sciopero della storia egiziana, gettando il seme per la nascita di uno dei movimenti giovanili protagonisti della rivoluzione del 2011.
Secondo il secondo pacchetto di stimolo economico annunciato il 10 febbraio, parte dei circa 5 miliardi di dollari in arrivo dovrebbero servire per garantire l’aumento del salario minimo per farlo arrivare a 120 dollari al mese. Questo incremento dovrebbe beneficiare circa un quarto dell’intera forza lavoro, quei cinque milioni di egiziani impiegati nel settore pubblico. Altri lavoratori potrebbero però ricevere bonus. Questo è quello che chiedono gli operai di Mahalla che hanno già ricevuto l’ultima busta paga nella quale non hanno trovato neanche uno spicciolo in più dei loro circa 50 dollari di stipendio.
Dilemma lavoro
A scioperare sono anche molti impiegati dei trasporti pubblici. La scorsa settimana, una trentina di garage cairoti dove i conducenti parcheggiano i loro mezzi non hanno alzato le serrande. Per limitare il malcontento dei passeggeri l’esercito ha deciso di sopperire al disagio mettendo a disposizione più di 1200 mezzi militari.
Nella lista degli scontenti che rifiutano di lavorare si trovano anche postini, operatori ecologici, farmacisti, veterinari e dentisti. Da due settimane, il sindacato dei medici ha iniziato uno sciopero parziale rivendicando un aumento salariale e maggiori investimenti nei servizi sanitari.
A tre anni dallo scoppio della rivoluzione, il cui esito è dipeso anche dalla partecipazione dei movimenti operai, la questione lavoro resta un dilemma. L’aumento esponenziale delle unioni sindacali non ha portato successi significativi.
Pian piano i nodi arrivano al pettine e il crescente malcontento arriva nei campus universitari, arene anche delle manifestazioni antigovernative guidate dagli islamisti. Questo preoccupa non poco i militari che oltre ad aver ulteriormente posticipato l’apertura delle università, hanno permesso il ritorno della polizia tra i banchi di scuola.
Il montare dei malumori è probabilmente una delle variabili che spinge Sisi a temporeggiare. Ragionando sulla sua eventuale corsa alla presidenza, il generale mette al sicuro i vertici militari. Mansour ha infatti firmato un nuovo decreto nel quale stabilisce che d’ora in poi a presiedere lo Scaf non sarà il presidente della Repubblica, ma il ministro della Difesa che deve essere scelto tra i ranghi militari.
Il prossimo raìs rischia quindi di essere, di fatto, un presidente dimezzato. Qualora Sisi non scendesse in campo, resterebbe comunque l’uomo più potente del Paese con tutti gli strumenti per condizionare un presidente di rappresentanza.
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