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Di Babele in Babele

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La storia della scrittura araba nell'incontro con la stampa a caratteri mobili

È luogo comune pensare che i musulmani non vollero la stampa a caratteri mobili per motivi di tipo religioso. La cosa è esatta e sbagliata allo stesso tempo. Se è storicamente documentata l’avversione di regnanti, dotti musulmani e scribi di corte dal ‘500 all’800 verso quella sorta di atomizzazione dell’oggetto-libro, dell’oggetto-pagina e dell’oggetto-parola che l’introduzione dei caratteri mobili introduceva, è anche accertata – e lo studio della Decotype, una società olandese che dal 1985 si occupa di “computer-aided typography” lo documenta con accuratezza – la quasi-irriducibilità di un tipo di scrittura come quello arabo, che resiste al rigore dei sistemi di riproduzione meccanica.

Per rendere nella sua pienezza le mille articolazioni dell’arte scrittoria elaborata nei primi secoli dell’islam ci vuole un computer, uno strumento del ‘900 che – oltre a mettere in sequenza segni grafici – è capace di disporre a piacimento forme cangianti che, per di più, saltano su e giù come in uno spartito.

Ma i computer e i personal computer nascono altrove, nel mondo anglofono, un luogo dove è possibile racchiudere l’universo della scrittura in una griglia di 256 caratteri, l’ASCII (American Standard Code for Information Interchange). E se noi, come i francesi, gli spagnoli, i polacchi e tanti altri ancora, abbiamo avuto negli ultimi decenni il nostro bel da fare per mettere accenti acuti, dieresi, circonflessi, lettere barrate e tutto il resto sulle nostre parole, introducendo tavole di decodifica sempre più specifiche fino ad arrivare a uno standard unico, Unicode, gli arabi – e tutti gli altri che usano quella scrittura – si sono dovuti industriare molto di più. Esempio: tuttora, e forse l’andamento è in crescita, sui computer si scrive in arabish, cioè con un sistema di trascrizione – esplosivo e innovativo sotto molti aspetti – che usa caratteri latini. Chiunque abbia avuto a che fare con computer e scrittura araba negli ultimi trent’anni, sa davvero cosa significa scontrarsi contro l’assenza degli standard e l’incompatibilità delle decodifiche: fino a qualche tempo fa trasportare un testo da PC a Mac o viceversa poteva significare notti insonni fatte di click inutili e rebus ansiogeni.

Il problema non è definitivamente risolto, probabilmente non lo sarà mai, ma è in questo vespaio che si è andato a collocare il progetto Decotype che nasce, bisogna dirlo, in Europa, cioè il luogo che continua a essere, nonostante tutto, il rifugio dei filologi. Il lavoro si svolge nell’arco di trent’anni con un obiettivo: restituire il maltolto alla scrittura araba ovvero ridarle ciò di cui era stata privata già da molto prima dell’era digitale, nell’800, quando fa la sua apparizione il “Corano del Cairo”, la prima “vera” opera stampata con caratteri mobili (c’erano stati diversi precedenti, specialmente nel mondo ottomano, ma non ebbero un seguito organico). Quel corano fu un buon lavoro, ricordano gli autori de La scrittura araba e il progetto Decotype (Stefania Cantù e Paolo Daniele Corda, Sedizioni, febbraio 2013, pp. 194, 24 euro), è tuttora un ottimo standard, ma da quell’esperienza si procedette su una linea di progressiva semplificazione in ragione di una distruttiva “standardizzazione” (peraltro utile a promuovere, è bene ricordarlo, la diffusione dei primi quotidiani). Decotype, dunque, riavvolge il nastro, rivede il processo che ha portato la scrittura araba dai deschi dei copisti di Damasco e Baghdad alle pagine web, ne rileva i salti, le incongruenze e recupera tutto il possibile, restituendo in larga parte a quel sistema espressivo le sue potenzialità. Infine fabbrica un software che però, purtroppo, rimane confinato nelle prigioni di Microsoft.

Chi ama la storia della stampa non può fare a meno di avere e amare un libro che narra queste vicende “esotiche”. Chi studia l’arabo l’apprezzerà perché mette insieme, e mette in ordine, la serie di temi che ruotano intorno alla scrittura araba, alla sua storia fatta di forme che evolvono insieme a significati, alla sua arte fatta di astrazione e dettagli. Non meno appassionante, però, è il racconto dell’avventura vissuta da un buon numero di ricercatori e operatori culturali particolarmente testardi che non si sono arresi, nei decenni, alla reductio di ciò che pensiamo essere “la scrittura” a un solo sistema, quello latino, trovando l’algoritmo che rende giustizia alle regole del bel scrivere arabo-islamico, fissate secoli e secoli fa e disattese – o meglio umiliate e sfregiate – quando fu il momento di costruire la prima lynotype in caratteri arabi. Con loro scopriamo l’armonia che scorre fra le linee, il pentagramma sul quale strutture che ancora non sono lettere si dispongono, giocando fra loro, in un’orchestra di tratti che già, di per sé, preconizza un’ipertesto.

Il tutto, ovviamente, corredato da bellissime illustrazioni: buona lettura e buona visione, quindi.

(Stefania Cantù e Paolo Daniele Corda, La scrittura araba e il progetto Decotype, Sedizioni, febbraio 2013, pp. 194, 24 euro)

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