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È davvero la fine

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Quei referendum che rischiano di disintegrare ciò che resta dell'Ucraina

Nel concitato e sorprendente finale del film “Il Giro del Mondo in 80 giorni” (che vinse il Premio Oscar per il miglior film nel 1956), l’ultima frase pronunciata prima dei titoli di coda è “È davvero la fine”.

L’esclamazione è pronunciata da un aristocratico membro del Reform Club dopo che il protagonista Phileas Fogg (interpretato superbamente da David Niven) aveva preso la deprecabile iniziativa di far entrare all’interno del club la Principessa Aouda interpretata da Shirley MacLaine, colpevole di appartenere al genere femminile.

Il fatto poi che il compare di Fogg, Passepartout, avesse trovato a suo volta un mezzo originale per entrare nello stesso club (attraverso una finestra) causando in questo modo la caduta di un prezioso dipinto di epoca vittoriana dalla parete, poteva spingere un frammento del gruppo dirigente londinese a credere che si era in prossimità dell’ineluttabile fine dell’Impero Britannico.

Jules Verne scriveva delle avventure del duo Fogg – Passepartout vent’anni dopo lo scoppio della guerra di Crimea, che presumibilmente vide anche dei membri del celeberrimo Reform Club (allora l’esercito era ancora prerogativa delle classi agiate) combattere contro l’espansionismo dell’allora Impero Russo.

Oggi a meno di due mesi dal referendum di Crimea, che ha votato l’annessione alla Federazione Russa, altre due province ucraine si sono trovate al centro di un plebiscito analogo: la provincia del Donbass (che comprende Donetsk, seconda città del paese) e quella di Luhansk entrambe facenti parte dell’area orientale del paese a forte densità russa.

Senz’altro trattasi di referendum ben più irregolari di quello della Crimea considerando che volutamente l’Osce non ha invitato alcuna delegazione per vigilare sulla correttezza del voto (trattasi del resto di province, e non di repubbliche autonome). Al tempo stesso negli ultimi giorni Vladimir Putin aveva invitato il gruppo dirigente delle due province a soprassedere per mantenere integra ciò che resta dell’Ucraina.

Di fronte a scontri e morti il voto di domenica 11 rischia però di essere la fine di quel complesso mosaico multietnico che risulta tuttora essere lo stato ucraino.

Qualche settimana fa dalle colonne di questo blog e di questa testata ci eravamo permessi di proporre una “finlandizzazione dello stato ucraino”: se intendiamo ragionare secondo canoni realistici (pur sempre applicati alla politica internazionale) non possiamo che prendere atto dell’impraticabilità di un ingresso dell’Ucraina nella Nato.

Al tempo stesso i fenomeni in corso che vedono al centro questi famosi plebisciti sconsigliano una situazione di stallo, a meno che non si voglia dividere il paese di due entità superate. L’idea russa di dare all’Ucraina una struttura federale in questo senso appariva peregrina, soprattutto se anche il blocco “occidentale” si fosse speso per la causa. Un’Ucraina neutrale e in grado di mantenere rapporti economici con Mosca senza allontanarsi dalla situazione esistente, sarebbe stata una dignitosa exit strategy.

Ma da giorni non sentiamo nessun discorso di lungo periodo sulla vicenda. E tutta la diplomazia internazionale si limita a dichiarare illegittimi i due referendum chiedendo a gran voce “una nuova conferenza di Ginevra”. Ignari che la prima conferenza di Ginevra è fallita proprio perché desiderosa di guardare solo nel breve periodo cercando di mettere una toppa all’offensiva delle truppe filo-Kiev ed ai loro scontri coi miliziani filo-russi foraggiati da Mosca.

Se si continua a ragionare secondo criteri da “ordine pubblico” e non geopolitici, l’entità statale ucraina rischierà di diventare qualcosa nella migliore delle ipotesi sotto dipendenza putiniana. Nella peggiore del tutto inesistente.

Tocca capire, e devono dircelo gli Stati Uniti in primis, se per l’Ucraina “È davvero la fine”. E agire di conseguenza.

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