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Capelli bianchi in gioventù

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Il destino dei nomadi tibetani

Ai tibetani vengono i capelli bianchi in età giovanissima. La ragazzina davanti a me ne ha già diversi che le fanno capolino da sopra le orecchie. Avrà si e no quattordici anni, ma d’altronde neanche lei è in grado di dirmelo con certezza. Viene da una famiglia di nomadi, e i suoi genitori non sanno con precisione in che anno è nata. Quando era più piccola e rivolgeva il quesito a suo padre, il massimo della risposta che riusciva ad ottenere era “Hai la stessa etá di quello yak,” e il problema veniva rapidamente accantonato.

Le piacerebbe diventare medico un domani, per poter aiutare i bisognosi, e nel frattempo studia inglese e adore scrivere poesie. I temi che affronta quando mette i suoi pensieri nero su bianco mi hanno fatto gelare il sangue nelle vene più di una volta. Racconta di lunghi viaggi tra le nevi perenni, braccata dai soldati cinesi e dell’ultimo saluto a una famiglia che non ha mai più rivisto.

Ѐ una giovane donna cresciuta in fretta, forse più per necessità che non per virtù e non posso fare a meno che chiedermi se quei fili d’argento che le si notano intorno alle tempie non abbiano a che fare con la sua lunga fuga.

La storia del Tibet e dei tibetani, come ogni vicenda che si rispetti, ha diverse chiavi di lettura. Una di quelle a cui non ho ancora dedicato l’attenzione che merita, narra di un popolo che per secoli si è chiuso in maniera ermetica agli sviluppi provienti dall’estero e che si ritrova ora fare i conti con un ingresso forzato nel mondo del neoliberismo e del capitalismo.

Nel Tibet del 2014 non c’è più spazio per le migliaia di persone che da centinaia di anni vivono secondo le tradizioni nomadiche. L’economia di sussistenza che caratterizza le loro vite non giova all’economia cinese. Nella logica del capitalismo, chi vive utilizzando le proprie risorse, in armonia con la terra, è un peso morto. Tutti devono consumare – non utilizzare – e spendere e spandere per mantenere in piedi il Leviatano dell’economia nazionale.

Secondo le ultime stime del Centro Tibetano per i Diritti Umani e la Democrazia, organizzazione non governativa con base a McLeod Ganj, in India, entro la fine del 2013 il 90% per cento dei nomadi nella provincia di Qinghai – quella che una volta era la regione più ad Est del Tibet – è stato “rilocato”. A ogni famiglia viene assegnato un lotto di terra, spesso volutamente troppo piccolo per poter allevare un determinato numero di pecore e di yak. Gli ex-nomadi si ritrovano allora costretti ad affittare appezzamenti di terra supplementari concessi a caro prezzo dal governo cinese, che opera in maniera non troppo differente dai latifondisti di una volta.

Ogni anno sempre più nomadi vengono legati alla terra, e a un mucchio di mattoni che il governo cinese vorrebbe fargli chiamare casa. Sia chiaro, questo è solo uno dei molteplici aspetti dell’oppressione cinese, una violenza strutturale, che non ha bisogno dei manganelli per farsi sentire. Si aggiunge a una lista che include violazioni dei diritti umani, torture, assimilazione culturale e marginalizzazione economica.

Ѐ solo quando tutte queste sofferenze si sommano, si mischiano e scivolano l’una contro l’altra fino a rendersi quasi indistinguibili tra di loro, che si può cominciare a comprendere – per quanto in minima parte – la disperazione che spinge una famiglia a mandare il proprio figlio a vivere in esilio, a fargli attraversare un viaggio che potrebbe rivelarsi fatale e ad abbracciarlo un’ultima volta, sapendo in cuor proprio che non lo rivedranno mai più.

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