C’era una volta Lamu
Era un paradiso turistico. Oggi è una war zone
“A causa della situazione di insicurezza nella Contea di Lamu, io David Mwole Kimaiyo, in qualità di capo della Polizia e in base a quanto previsto dal Public Order Act, dichiaro operativo il coprifuoco in tutta la Contea per un mese, a partire dal 20 luglio, dalle sei e trenta del pomeriggio alle sei e trenta del mattino. Durante tale periodo di tempo ogni individuo è tenuto a rimanere in casa salvo autorizzazione scritta rilasciata dal County Commander”.
Un’ordinanza che richiama alla mente scenari di guerra. Siamo nella regione Nord Orientale del Kenya, dove si trova l’arcipelago di Lamu, uno dei posti turistici più esclusivi e incantevoli del mondo. Nella regione da un mese a questa parte si susseguono attacchi e raid notturni a villaggi e proprietà, che hanno causato quasi cento morti e migliaia di sfollati.
L’ordine è arrivato nel tardo pomeriggio di ieri, poche ore dopo un’altra direttiva che vietava invece la circolazione di tutti i veicoli, pubblici e privati, dal tramonto all’alba lungo la strada che da Garsen va a Lamu. È l’unica strada che percorre la fascia costiera verso nord. Centoventi chilometri di sterrato, che costeggiano la vastissima foresta di Boni, dove trovano rifugio alcuni dei miliziani autori dei raid delle scorse settimane. E che si sono resi protagonisti, venerdi notte, dell’ennesimo attacco. Sette persone, tra cui quattro poliziotti, sono rimaste uccise in un’imboscata a un autobus della compagnia Tahmeed (una delle principali), che da Mombasa era diretto a Lamu, nei pressi di Witu.
Wilson Muthama era al suo primo viaggio come autista della Tahmeed. Due uomini armati a bordo strada lo hanno prima costretto a fare inversione, poi lo hanno sgozzato. Quindi hanno cominciato a sparare verso i finestrini del bus, mentre i passeggeri si nascondevano sotto i sedili. Poi hanno fermato tre macchine che sopraggiungevano derubandone i passeggeri. Quando è sopraggiunto un mezzo della polizia, altri miliziani sono spuntati dal bosco e hanno aperto il fuoco.
Una strada da sempre pericolosa. Qui in passato scorrazzavano bande armate, ma negli ultimi anni la situazione si era stabilizzata. Nonostante ciò, da tempo è prassi che uno o due militari salgano sui bus come scorta. E accompagnino poi i passeggeri anche sul barcone che dal molo di Mokowe li traghetta fino al porticciolo di Lamu, per contrastare eventuali intenti criminali e azioni di pirateria.
L’isola è stata negli anni metà di celebrità del calibro di Carolina di Monaco e Mick Jagger. Lo scorso anno qui passeggiava con la sua famiglia l’ex presidente del Barcellona Laporta. “Oggi, con la stagione turistica alle porte, è una città fantasma” dice il manager di un famoso hotel dell’isola. In realtà tutti gli attacchi sono avvenuti sulla terraferma.
Lamu ha nel suo dna una profonda cultura di ospitalità e tolleranza. Una popolazione pacifica e accogliente, una civiltà, quella swahili, influenzata dall’apertura ai commerci marittimi e dagli influssi arabi. Inoltre è una piccola isola, senza auto. Ci si muove in barca, a piedi o a bordo di asini, di cui l’isola abbonda. È difficile quindi che qui possano infiltrarsi componenti violente, senza che gli elders del posto e la popolazione ne siano consapevoli.
Però la prossimità geografica alla Somalia la rende esposta a incursioni fondamentaliste e a un processo di radicalizzazione islamica che ha investito l’intera costa orientale dell’Africa. E che trova in Mombasa il centro di tale fenomeno. Lamu è inoltre un hub logistico perfetto per l’ingresso di elementi radicali dalla Somalia. Entrare con un dhow in Kenya è più semplice che passare dai seppur porosi confini terrestri.
Sull’isola c’è soltanto una chiesa cattolica. Con un controverso discorso il Governatore aveva chiesto che venisse chiusa, perchè “Lamu è un’isola islamica”. Alla messa domenicale assistevano in media cinquecento persone, domenica scorsa ce n’erano soltanto una trentina. Sull’isola sono apparsi (come in altre parti del Kenya) volantini che “invitano” i residenti non islamici ad andare via.
Diversi negozi hanno chiuso e molta gente è scappata. “Non ritorno a Lamu, ho paura” racconta Babu, pescatore. “Provo a lavorare qui a Malindi, e se anche qui le cose dovessero andare male perchè non ci sono turisti scenderò fino a Zanzibar”.
Il coprifuoco indetto è la misura più incisiva adottata finora per far fronte alla degenerazione del quadro sicurezza lungo la costa kenyota. In realtà una sorta di coprifuoco tacito era già in vigore, e non solo a Lamu e dintorni. Anche a Malindi, Kilifi, Mtwapa la notte le strade sono deserte. I rastrellamenti dell’esercito sono sempre più frequenti, e chi viene trovato per strada senza documento d’identità viene immediatamente fermato e portato in stazione.
Kimayo ha anche specificato che le aree adiacenti alla foresta di Boni sono da considerarsi “no-go-zone”, e i residenti che vi circoleranno saranno considerati sospetti e arrestati. I mezzi di trasporto pubblici che inoltre viaggeranno durante il giorno dovranno essere scortati.
Le forze di sicurezza, che hanno lanciato una vasta operazione antiterrorismo nella zona e cercano di fare terra bruciata attorno ai miliziani, si sono rivelate finora assolutamente inadeguate nella gestione della crisi, nonostante il consistente dispiegamento di uomini e mezzi. Negligenza, paura, impreparazione e carenza di equipaggiamenti, ma anche una cronica corruzione e il coinvolgimento di ex militari nella preparazione degli attacchi: questo insieme di fattori ha contribuito al fallimento delle operazioni di Polizia ed Esercito.
I recenti attacchi hanno alimentato le tensioni e le divisioni presenti sulla costa, dove il fondamentalismo islamico, i conflitti tribali e le dispute relative alle proprietà terriere formano un cocktail esplosivo.
L’attacco di venerdi notte è stato rivendicato da al-Shabaab. Il movimento somalo si è attribuito la paternità di tutti i recenti attacchi nei villaggi della Contea. Tuttavia le differenti modalità di attacco e gli obiettivi presi di mira (commandos armati e raid nei villaggi anziché collocamento di ordigni, uccisioni mirate e distruzione di proprietà pubbliche, attacco a villaggi di tribù colpevoli di aver “rubato la terra” alle tribù indigene) inducono a ipotizzare la commistione di più elementi.
L’amministrazione Kenyatta continua a puntare il dito contro network criminali e politici locali, che tenterebbero di destabilizzare il Paese per favorire l’ascesa al potere del leader dell’opposizione Raila Odinga, e in particolare contro il Mombasa Republican Council (MRC), movimento separatista che rivendica l’autonomia della fascia costiera da Nairobi e lamenta l’emarginazione vissuta dalla comunità islamica nel Paese.
L’attacco di Mpeketoni dello scorso giugno, in cui morirono circa sessanta persone, si è rivelata essere una campagna di “pulizia etnica” nei confronti dei kikuyu (tribù del Presidente Kenyatta), stanziatisi in un’area rivendicata dagli integralisti islamici e da tribù in lotta per la terra e lo sfruttamento delle sue risorse. L’area di Lamu è da anni al centro di problemi per il “land grabbing”. I settlement schemes adottati dal Governo negli anni hanno favoritol’afflusso nell’area di gente proveniente dalle aree interne delKenya, causando cosi il risentimento della popolazione indigena.
E’ ragionevole ritenere che elementi di al-Shabaab forniscano appoggio logistico e training, e il movimento condivida e incentivi gli attacchi, che hanno chirurgicamente colpito al cuore il Kenya. Tuttavia negli esecutori materiali troverebbero spazio elementi dei clan somali stanziatisi in Kenya o giovani reclutati nel Paese, terreno fertile per la radicalizzazione islamica a causa dell’altissimo tasso di disoccupazione giovanile e dell’emarginazione lamentata dalla comunità islamica. I miliziani hanno un profondo legame con il tessuto sociale locale.
Inoltre la costruzione a Lamu dell’enorme progetto infrastrutturale Lapsset (Lamu Port Southern Sudan-Ethiopia Transport) fa gola imprenditori e politici, e alimenta le tensioni tribali. Peraltro il livello di tensione è alzato dalla scia di omicidi extragiudiziali avvenuti negli ultimi anni nei confronti di leaders religiosi che godevano di forte consenso all’interno della comunità islamica.
Sotto accusa è l’Anti Terrorism Police Unit. L’ondata repressiva nei confronti della popolazione musulmana nel Paese e della diaspora somala ha un effetto boomerang sul quadro sociale interno, poiché spinge giovani, poveri e disoccupati tra le braccia del fondamentalismo anziché favorire il processo di integrazione sociale. Oltre settanta persone sono state finora arrestate, compreso il Governatore di Lamu Issa Timamy, accusato di coinvolgimento in attività terroristiche.
Nel settembre duemilaundici un turista inglese era stato ucciso e la moglie rapita in un attacco nell’incantevole isola di Kiwayu, nella parte settentrionale dell’arcipelago di Lamu. Un mese dopo Marie Diedeu, una donna francese costretta su una sedia a rotelle, era morta nelle mani dei suoi rapitori. Dopo questi episodi Nairobi decise di lanciare l’operazione Linda Nchi (“proteggere la nazione”) schierando le proprie truppe in Somalia per contrastare al-Shabaab e riportare la stabilità nello Jubaland, Somalia meridionale.
Da allora è partita una campagna di attacchi e attentati in territorio kenyota da parte del movimento terrorista somalo, che ha trovato terreno fertile per il reclutamento sulla costa kenyota e all’interno della diaspora somala, e ha registrato il suo apice con l’attacco al centro commerciale Westgate dello scorso settembre.