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Arrivederci, signora Thatcher

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Cosa ci lascia la Lady di Ferro. Riflessioni e appunti sparsi

Nel primo capitolo del libro “Monopoli” di Giovanni Floris (Rizzoli,2005, 291 pagine) si parla di un evento della vicenda politica italiana per molti anni tenuto nascosto da gran parte dei media: a seguito della famosa Assemblea di Confindustria di Parma nel 2001 (quella in cui Silvio Berlusconi ottenne il consenso degli industriali guidati da Antonio D’Amato al motto “il vostro programma è il mio programma) si tenne, pare nei pressi di Parma, un incontro tra lo stesso Berlusconi e Margaret Thatcher.

Probabilmente l’ultimo viaggio in Italia della Lady di Ferro, probabilmente uno degli ultimi incontro con un esponente politico di fama internazionale.

Berlusconi, che nel 1994 con la sua rivoluzione liberale e il contributo del duo Martino-Urbani si rifaceva molto all’operato della Thatcher, era desideroso di sentire i preziosi consigli dell’ex primo ministro britannico in merito alle imminenti elezioni politiche italiane.

La Thatcher, che già in alcuni articoli giornalistici precedenti all’incontro aveva difeso Berlusconi, si limitò a dare tre consigli al futuro capo del governo italiano.

Punto primo: “Avanti a tutta forza con i tagli alle imposte”.

Punto secondo: “Non prometta tutto alla volta, distribuisca bene gli impegni di governo”.

Infine, il terzo punto: “Sia very tough coi comunisti”.

La legittimazione di vent’anni di campagne elettorali.

Ma cosa ci lascia la prima donna primo ministro di Gran Bretagna e Irlanda del Nord?

Le Falkland, le tre elezioni vinte di seguito, gli scioperi, il tema delle miniere e gran parte della mediocre cinematografia britannica del periodo?

Probabilmente ci lascia perlopiù una mutazione genetica. E una riflessione.

La mutazione genetica di un partito politico, quello conservatore, che assume connotati euroscettici ponendo su nuovi basi il bipolarismo politico made in United Kingdom. La mutazione di un pensiero politico in grado di diventare egemone di fronte ad un’avanzata costante del settore terziario, alla fine della sbornia sessantottina e di nuove dinamiche che probabilmente parte della socialdemocrazia europea non aveva ancora compreso.

E la riflessione che vede un paese in crisi risollevarsi. Con una scelta politica dura e probabilmente difficile da digerire. Ma forse anche in grado di, tagliando spese e settori improduttivi, dar vita a misure di tipo strutturale quanto mai necessari per quel paese. Forse basilari. E al tempo stesso in grado di resistere, nonostante i suoi connotati impopolari, alla minaccia del voto popolare (anche a causa della debolezza degli avversari).

Riforme considerate così basilari da essere poi declinate in chiave sociale dagli esecutivi laburisti degli anni ’90. Perché dovettero passare anni prima di capire che il campo di gioco era del tutto cambiato.

Se la crisi del 1929 vide il trionfo del keynesismo old style (piano Beveridge, riforma del sistema sanitario del governo Attlee) quella petrolifera del 1973 pose il tema dell’inflazione al centro del dibattito politico. E la figlia del droghiere comprese che stava iniziando il tempo della destra non dirigistica. Il suo tempo.

Riprendendo parte della riflessione gramsciana sull’egemonia, riuscendo a connotare un periodo e un decennio all’insegna di una certa idea di liberalconservatorismo. Stagione terminata nel 2008. Ma che ovviamente non dovrà vedere la nascita del vecchio sistema economico pre-1973.

Dall’altra sponde del fiume, questo la signora Thatcher l’avrebbe capito.

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