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Come gli smartphone influenzano la nostra mente e perché dovremmo iniziare a preoccuparci

Immagine di copertina
Credit: Afp/Getty

Alcuni tecnici ed ex dipendenti di aziende come Google, Twitter e Facebook hanno avvertito gli utenti sugli effetti delle proprie invenzioni e su come queste abbiano creato un mondo di continue distrazioni che influenzano la nostra concentrazione

Lo smartphone è ormai sempre più presente nella vita di molte persone ed è utilizzato tanto come strumento di lavoro quanto di svago, fornendo ai propri utenti indubbi vantaggi pratici. Eppure alcune ricerche scientifiche avvertono sui possibili effetti di assuefazione causati da questa tecnologia, da cui il cervello può appunto diventare dipendente, indebolendosi nelle proprie funzioni cognitive. Alcuni tecnici che hanno creato questi dispositivi mettono in guardia sulle possibili implicazioni sociali di questi effetti, come limiti alla libertà di scelta delle persone.

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Gli effetti sulla salute

Secondo i dati forniti dalla stessa azienda Apple nel 2016, un utente medio in possesso di un iPhone, lo sblocca e utilizza almeno 80 volte al giorno. Questo significa che mediamente chi possiede questi dispositivi ha guardato il proprio smartphone almeno 30mila volte nell’ultimo anno.

Uno studio del 2016 ha poi rivelato che l’utente medio tocca il proprio dispositivo almeno 2.617 volte al giorno, il che significa passare almeno 145 minuti, quasi due ore e mezza della propria giornata, attaccati allo smartphone.

È evidente che ormai il telefono sia diventato uno strumento da cui è sempre più difficile separarsi, rappresentando un vero e proprio factotum: insegnante, segretario o addirittura psicologo. Tramite un annuncio di lavoro infatti, la Apple ha rivelato come i propri utenti usino sempre più il software Siri come una specie di terapeuta personale.

Questo rapporto, secondo alcune ricerche e diversi tecnici ed ex dipendenti di aziende come Google, Twitter e Facebook, porta a sviluppare una vera e propria dipendenza. Un fenomeno che ha effetto sulla mente degli utenti e rischia di ridurne le capacità intellettive.

La tecnologia contribuisce alla cosiddetta “attenzione parziale continua”, un comportamento che espone le persone al rischio di non riuscire più a concentrarsi, con potenziali effetti negativi sulla vita degli individui e sulla società.

Un recente studio, pubblicato da un team di ricercatori statunitensi delle università della California e del Texas sulla rivista Journal of the Association for Consumer Research, afferma che la semplice presenza di uno smartphone danneggia la capacità cognitiva dell’utente, anche quando il dispositivo è spento.

Il problema è che gli effetti psicologici dell’uso di questi strumenti influenzano profondamente il sistema politico e la società. Questa tesi è sostenuta da alcuni tecnici che hanno contribuito al successo di alcuni social network come Facebook, a sua volta una delle maggiori attrattive per gli utenti degli smartphone.

Secondo uno studio del 2017 infatti il 30 per cento di tutto il tempo passato online dagli utenti di internet riguarda proprio i social. In particolare, gli adolescenti spendono almeno nove ore al giorno su queste piattaforme e il 60 per cento di tutto questo traffico online proviene da dispositivi mobili.

In media, ogni giorno, le persone passano almeno 40 minuti su YouTube, 35 minuti su Facebook, 25 minuti su Snapchat, 15 minuti su Instagram e un minuto su Twitter. Questi dati sono così impressionanti da aver indotto alcuni dipendenti ed ex dipendenti delle maggiori aziende digitali degli Stati Uniti a rivedere la propria opinione sugli effetti dei social network sulla vita delle persone e sulla società.

Tra questi ci sono Justin Rosenstein, ex dipendente di Facebook e creatore del famoso pulsante “Like”, Leah Pearlman, product manager della stessa azienda di Menlo Park, Tristan Harris, ex dipendente di Google, James Williams, ex manager della stessa azienda di Mountain View e Loren Brichter, il designer che ha progettato la funzione di aggiornamento di Twitter.

Gli effetti sulla società

Intervistati dal quotidiano britannico The Guardian, questi tecnici hanno tutti avvertito gli utenti riguardo le distorsioni che il modello di business basato sulla pubblicità offerto dai social network, unito ai loro effetti psicologici sulle persone, possono avere sulla società in generale.

“Il motivo per cui credo sia particolarmente importante per noi parlare di questo problema è che potremmo essere l’ultima generazione a ricordare com’era la vita prima di tutto questo”, ha detto Rosenstein al Guardian.

La maggior parte dei tecnici citati infatti ha tra i 30 e i 40 anni e fa parte dell’ultima fascia di popolazione giovane in grado di ricordarsi di un tempo in cui i telefonini non esistevano.

Alcune di queste persone hanno deciso di limitare il proprio utilizzo dei social network: Rosenstein per esempio ha deciso di non usare più Reddit né Snapchat e di diminuire la propria presenza su Facebook, azienda dove lavorava e al cui successo ha contribuito.

La stessa Leah Pearlman, che lavora ancora per Menlo Park, ha scelto di assumere un social media manager che monitori il suo profilo Facebook per evitare di entrarvi e di restarne dipendente.

Diversi di questi tecnici hanno poi rivelato di avere intenzione di crescere i propri figli lontani da queste tecnologie. Alcuni di loro infatti hanno scelto di iscriverli in scuole esclusive della Silicon Valley (dove ha sede la maggior parte delle più grandi aziende digitali del mondo) in cui sono vietati sia gli smartphone che i tablet.

L’utilizzo che fanno gli adolescenti di questi dispositivi per accedere ad applicazioni come Snapchat e Instagram può infatti essere pericoloso come l’abuso di alcol e droghe. Nel giugno 2017, Mandy Saligari, psicoterapeuta del Regno Unito e fondatrice della clinica privata Harley Street di Londra, che si occupa di riabilitazione dalle dipendenze, ha infatti lanciato l’allarme sulla quantità di tempo trascorso dagli adolescenti con tablet e smartphone.

“Ribadisco sempre alle persone che quando stanno dando ai loro figli un tablet o un telefono, è come se gli stessero somministrando un grammo di cocaina o offrendo una bottiglia di vino”, ha spiegato Saligari. “Se le dipendenze vengono intercettate in tempo si può insegnare ai bambini come autoregolarsi e come utilizzare il proprio tempo libero”.

Questa possibile dipendenza però, oltre a portare con sé una forte diminuzione della capacità di restare concentrati, rappresentando un potenziale danno per le abilità cognitive degli individui, mette a rischio anche la libertà delle scelte operate dalle persone, non solo nel campo dei consumi, ma anche in politica.

Mettendo in relazione questa dipendenza dai social network, la mancanza di concentrazione degli individui e terremoti politici come il referendum sulla Brexit e l’elezione di Donald Trump, queste persone sostengono che gli operatori digitali hanno completamente capovolto il sistema politico e, se non si interviene, potrebbero rendere la democrazia come la conosciamo finora qualcosa di obsoleto.

Il rapporto tra gli effetti negativi delle tecnologie e la libertà di scelta è stato approfondito in particolare dall’opera di Nir Eyal, un 39enne consulente dell’industria del settore tecnologico che insegna alle aziende come manipolare le persone e le loro scelte attraverso campagne di marketing.

Nel suo libro Hooked: How to Build Habit-Forming Products, Eyal spiega i sottili trucchi che possono essere usati per far sì che le persone sviluppino abitudini che possano agire come “trigger” psicologici. Nel mondo digitale, questo è un messaggio pubblicitario personalizzato che viene inviato a una determinata serie di utenti, in cerca di qualcosa su una specifica pagina internet.

“Le tecnologie che utilizziamo sono diventate delle compulsioni, se non dipendenze vere e proprie”, scrive Eyal nel suo libro. “È l’impulso di controllare una notifica o un messaggio che ci spinge a visitare YouTube, Facebook o Twitter per qualche minuto, soltanto per poi trovarsi a ricontrollare il proprio profilo qualche ora dopo”.

“Niente di tutto questo accade per caso”, scrive Eyal. “Tutto è esattamente come lo hanno voluto i programmatori”. La soluzione offerta dal consulente 39enne è quella di ricordarsi sempre che sono gli utenti ad avere il controllo delle proprie azioni e non la tecnologia che utilizzano.

Ma è davvero così? L’ex ingegnere di Google Tristan Harris, diventato una voce critica del mondo dei social network, afferma che la mente umana può essere “ingannata” da queste piattaforme. “Siamo tutti bloccati all’interno di questo sistema”, dice Harris. “Le nostre menti possono essere ingannate e le nostre scelte non sono così libere come pensiamo”.

Secondo l’ex dipendente di Google infatti, i miliardi di persone che sono presenti sui social network hanno poca scelta se utilizzare o meno queste tecnologie, ormai onnipresenti.

Laureato all’università di Stanford, Harris è un seguace del professor Fogg, uno psicologo che ha studiato il comportamento degli utenti online e i metodi con cui i programmatori utilizzano il design digitale per influenzare le scelte di consumo delle persone.

L’ingegnere statunitense afferma che l’industria tecnologica manca di qualsiasi forma di etica, ma è invece guidata da società orientate solo al consumismo e da un’economia che definisce “pubblicitaria”.

Le tesi di Harris sono state sposate anche da Roger McNamee, un investitore che ha beneficiato delle proprie scommesse su aziende come Google e Facebook, ma che di fronte alle distorsioni offerte dalle nuove tecnologie è diventato una voce critica nell’ambiente tecnologico.

“Facebook e Google sono gestite da brave persone, le cui strategie, basate su buone intenzioni, hanno portato a terribili conseguenze”, sostiene McNamee. “Il problema è che non c’è niente che le aziende possano fare per affrontare questa situazione e rimediare ai danni se non abbandonano i propri modelli di business basati sulla pubblicità”.

Le aziende digitali infatti, in particolare i motori di ricerca come Google e i social network come Facebook, guadagnano utilizzando le informazioni fornite dai loro utenti riguardo le proprie preferenze.

Ma come è possibile obbligare giganti economici come Google e Facebook ad abbandonare i modelli di business che li hanno trasformati in due tra le aziende più redditizie del pianeta? La soluzione offerta da McNamee è quella di una maggiore regolamentazione delle attività di queste aziende e dell’intero settore.

Eppure lo stesso autore è perfettamente conscio che questa strada non può essere da sola l’unica a risolvere le distorsioni create dal sistema. “L’Unione europea ha recentemente multato Google per oltre due miliardi di dollari per la violazione delle regole sul monopolio, e gli azionisti di Mountain View hanno scrollato le spalle”, sostiene McNamee.

Justin Rosenstein ha proposto un’altra strada. Il creatore del famoso “Like” di Facebook sostiene che parte della soluzione è riconoscere a livello legale la definizione di “pubblicità psicologicamente manipolatoria”.

L’ex dipendente di Facebook infatti ha paragonato l’azione necessaria contro i problemi creati dalle nuove tecnologie a quelle intraprese contro le industrie che inquinano o quelle che producono tabacco o alcolici. “Se ci occupiamo solo della massimizzazione del profitto, finiremo rapidamente alla distopia”, dice Rosenstein, riferendosi a un futuro non desiderabile.

Il rischio causato dalle distorsioni create dalle nuove tecnologie e dai social network è che potrebbero farci perdere la nostra libertà di scelta senza che ce ne rendiamo conto.

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