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“Il segreto è guardare dallo Spazio: sulla Terra i problemi li vediamo da troppo vicino, e risultano più grandi della realtà”

Immagine di copertina
Paolo Nespoli

Paolo Nespoli – Più di 2.500 anni fa, mentre Talete osservava il cielo per studiare gli astri cadde in un pozzo. Una servetta proveniente dalla Tracia, che assistette alla scena, prese il giro il filosofo. L’aneddoto riportato da Platone, ancora oggi estremamente attuale, ci ricorda quanto noi, uomini comuni, siamo forse troppo presi dalle nostre piccole questioni quotidiane e banali. Quale altra immagine se non quella della risata della servetta trace è capace di descrivere la superficialità e la decadenza culturale della nostra contemporaneità.

Così, mentre in Europa si votava per decidere di muri e di confini, TPI ha intervistato chi nella sua vita i confini li ha superati davvero tutti: l’astronauta Paolo Nespoli.

Il 20 luglio ricorrerà il cinquantesimo anniversario dell’allunaggio. Cos’è cambiato da allora nei voli spaziali?

Negli anni ’60 la motivazione che spingeva gli Stati Uniti a raggiungere la Luna, era una motivazione di carattere strategico: era in atto una sorta di gara fra gli americani e i sovietici per la supremazia scientifico-tecnologica e dove il modello capitalistico veniva contrapposto a quello del comunismo.

A quel tempo, l’astronauta svolgeva un lavoro di frontiera, cioè doveva allargare fisicamente i confini del mondo conosciuto. Oggi sappiamo molto di più dello spazio, abbiamo mezzi più sofisticati, sia nella qualità dei materiali sia in termini di capacità di raccolta e elaborazione dati.

Oggi dietro le missioni spaziali non c’è più una strategia di superiorità strategica di un paese rispetto a un altro: il lavoro che si svolge sulla Stazione Spaziale Internazionale è un lavoro congiunto, di cooperazione di diversi paesi. Le finalità delle missioni spaziali non sono soltanto rivolte alla continua esplorazione dell’universo, ma anche e soprattutto verso la ricerca scientifica per migliorare la vita sulla Terra.

Una volta andare nello spazio significava restarci qualche giorno, oggi ci si vive per mesi. Non è più un lavoro di frontiera, dunque, ma quasi un lavoro di fabbrica, dove dalle 7,30 del mattino fino alle 19,30 di sera si è impegnati costantemente. L’astronauta diventa forza lavoro.

Lo scorso 10 aprile è stata mostrata la prima testimonianza dell’esistenza di un buco nero. Quanto sappiamo oggi dell’universo e qual è la più grande sfida scientifica del ventunesimo secolo?

Questa è una domanda difficile, perché tutte le domande sul futuro si basano su speculazioni, quindi c’è sempre il rischio di prendere una cantonata. Nonostante le nostre conoscenze siano largamente più grandi rispetto a quelle di soli vent’anni fa, come ha già detto qualche filosofo: più conosciamo più comprendiamo di non conoscere.

L’universo è un po’ così: se dovessi fare un paragone, potrei dire che noi oggi conosciamo un granello di sabbia tra tutti i granelli di sabbia di tutte le spiagge di tutto il mondo. Se miracolosamente riuscissimo a raddoppiare la nostra conoscenza, arriveremmo soltanto a conoscere due granelli di sabbia, se la triplicassimo saremmo a tre, ovvero sempre niente.

Penso che la sfida maggiore sia di capire come fare a rapportarci nel modo giusto con l’universo. Infatti, noi lo osserviamo usando misure “umane”, ovvero: chilometri, giorni, anni. Ma se rapportiamo queste misure all’universo, ci accorgiamo che queste sono estremamente piccole, inadatte al lavoro che dobbiamo fare. Sarebbe come cercare di misurare la circonferenza della terra usando un righello di dieci centimetri.

Insomma, mi sembra che la sfida più grande sia quella di trovare il modo di mettersi sullo stesso piano dell’universo, guardarlo a quattr’occhi.

La prima immagine di un buco nero: “È la foto del secolo”
Parafrasando il titolo di un suo libro, è vero che “Dall’alto i problemi sembrano più piccoli”?

Noi dissipiamo buona parte delle nostre energie in piccoli problemi, senza renderci conto che dovremmo classificarli e avere una scala di importanza. Quando siamo però troppo vicini a qualcosa non riusciamo a comprenderne la sua reale entità.

Sulla Terra noi ci soffermiamo sui nostri confini nazionali, regionali, addirittura cittadini, se non a volte proprio sulla nostra casa e il nostro orticello.

Quando poi nello spazio uno si rende conto che sì, i confini “locali” ci sono, ma forse dovremmo iniziare a guardare quello che è il confine universale più importante: l’atmosfera, cioè il confine che ci separa dal resto dell’universo, quello che permette la nostra vita sulla terra. Invece mettiamo questo in secondo piano, intenti come siamo a guardare orizzontalmente.

Questo discorso, come il titolo del libro, è una metafora. Capita che le famiglie si distruggano per problemi futili, semplici. Diamoci un grano di sale in quello che facciamo e stiamo attenti alle nostre priorità.

Lei è stato nello spazio in totale per 313 giorni, 2 ore e 36 minuti. Forse questo è il sogno di ogni bambino, ma passare così tanto tempo in orbita può nascondere anche delle insidie. Si è mai sentito solo in tutto quel tempo?

Fare l’astronauta è un sogno, ma un astronauta oggi non ha la facoltà di decidere se andare sulla Luna o su Marte, e quanto tempo starci. Andare nello spazio oggi è una cosa così speciale che non puoi permetterti di avere preferenze o bisogni personali. È un po’ come voler cercare un gusto di gelato particolare in un posto dove il gelato non c’è. Se eccezionalmente lo trovi, ti fai andar bene il gusto che c’è ringraziando la tua buona sorte! Io non ho deciso di stare quel tempo nello spazio, sono state le circostanze a determinare tutto quel tempo, è quello che la vita mi ha offerto.

Tra l’altro il tempo passato nello spazio dev’essere sfruttato nel miglior modo possibile: noi siamo dei veri e propri “lavoratori spaziali”: i pianificatori a Terra cercano di usare il tempo-astronauta nel miglior modo possibile, ovvero farti lavorare il più possibile. Il che è ovviamente giusto: non siamo in vacanza!

Nella mia esperienza non ho mai avuto momenti in cui mi sono sentito solo, abbandonato o scoraggiato. Forse questa è anche una forma mentale, ma nella Stazione Spaziale è difficile sentirsi soli perché, di fatto, non si è mai soli!

Osservare la Terra da uno degli oblò della Stazione Spaziale Internazionale e aspettare all’incirca quindici minuti, permette di scorgere il passaggio dalla notte al giorno. Quale impressione si riceve nel vedere questo continuo passaggio?

La Stazione viaggia a una velocità di circa 28 000 km/h in orbita attorno alla Terra, quindi circa ogni quaranta – cinquanta minuti c’è un alba e un tramonto. Significa vedere sedici albe e sedici tramonti al giorno. Noi non siamo alla finestra a guardare fuori, perché siamo occupati con il lavoro. Le finestre poi sono poche, di solito chiuse, perché sono un punto meccanico debole nei confronti dell’ambiente ostile esterno: un micro meteorite potrebbe creare danni di non poco conto.

Di solito la sera, alla fine del lavoro, se vuoi puoi passare del tempo nella cupola, il nostro finestrone sul mondo. Quasi ogni giorno ho cercato di passare alla cupola almeno un’ora e mezza a sera, per ammirare il mondo che ti scorre sotto i piedi. In quel lasso di tempo vedi un’alba e un tramonto, quattro stagioni e cinque continenti. È incredibile, è un momento trascendentale. Da un lato vedi la Terra in maniera diversa, e ti rendi conto di essere un terrestre, anche se in quel momento sei fuori dalla terra; dall’altro ne ammiri la bellezza e la fragilità, anche se poi la Terra non è fragile, sono le condizioni che ci permettono di vivere ad essere fragili.

Un’altra cosa che si percepisce maggiormente quando si ritorna a casa, quando sei nuovamente schiavo della gravità, è la sensazione del tuo corpo. Quando galleggi in orbita, guardi fuori o sei soprappensiero, sei soltanto coscienza, la tua anima che fluttua e che pensa, non senti più il tuo corpo.

Negli anni ’80 ha partecipato alle missioni internazionali in Libano, dove ha incontrato Oriana Fallaci. La scrittrice fiorentina si è ispirata a lei per il personaggio di Angelo, protagonista del romanzo “Insciallah”. Ci può dire di più di quell’incontro?

La vita è una serie di coincidenze cercate, volute e non trovate. Il verbo cercare con coincidenze sicuramente non c’entra, ma col senno di poi rifletti su quali sono le coincidenze vere e proprie e le altre.

All’epoca Oriana Fallaci, per un ragazzo, era non dico un idolo ma sicuramente una persona di successo, una giornalista forte. Io sono cresciuto con il suo mito. Le circostanze della vita mi hanno portato ad essere il suo angelo custode in Libano, mentre la scortavo a Beirut nei campi palestinesi.

All’inizio è stato un rapporto strettamente professionale, dopo la missione è nato un rapporto personale. Le ho confessato che ero un suo fan e che uno dei motivi per il quale volevo fare l’astronauta da bambino era perché avevo letto il suo libro “Se il sole muore”. Questa cosa l’aveva inorgoglita e alla fine è stata lei a spronarmi nel perseguire il mio sogno.

Mi ha dato la forza di seguire questo sogno impossibile. Per quanto riguarda il romanzo “Insciallah”, devo premettere che lei è arrivata in Libano molto scettica, dopo aver osservato quello che era accaduto in Vietnam, dove c’era la guerra vera. Dopo lo scetticismo iniziale però si innamorò del nostro contingente.

Noi eravamo quelli sempre presenti nei campi, per dare qualche speranza ai civili. Da qui, nacque la sua idea di scrivere quel romanzo. Moltissimi dei personaggi sono ispirati a persone reali che erano lì in quel momento. Se qualcuno sostiene che il personaggio di Angelo mi assomigli, deve pur sempre ricordare che si tratta di un romanzo, quindi soprattutto un lavoro di fantasia dove i personaggi appartengono interamente all’autore.

Una celebre frase attribuita a Jurij Gagarin, primo uomo ad andare nello spazio, recita: “Non vedo nessuno Dio da quassù”. Pensa che la ricerca scientifica abbia ridotto l’orizzonte della fede? E, in secondo luogo, cosa ricorda in particolare dell’incontro con Papa Francesco?

Noi cerchiamo sempre risposte a problemi insolubili, come accade per esempio con Dio. Esiste un piano? Esiste un perché? A rispondere a queste domande c’è la religione con la fede.

La scienza agisce in maniera del tutto diversa, la scienza deve ricercare. Erroneamente, la gente pensa che andare nello spazio significhi trovare una risposta alla domanda sull’esistenza di Dio. Non è così. Addirittura penso che lo spazio incancrenisca le tue credenze, ovvero se credi in Dio e vai nello spazio e pensi che tutto quello che vedi non possa essere frutto del caso. Se non credi in Dio sei portato a pensare di aver realizzato qualcosa di impossibile e pensi che quando vogliamo possiamo essere noi stessi Dio.

Io sono cresciuto in un ambiente cattolico, molto credente, e ho una formazione da ingegnere. Il mio approccio alla vita è oggi molto ingegneristico, molto razionale, di fatto lascia fuori altre cose che riguardano noi umani e che andrebbero guardate. Quando si parla di teologia, di spiritualità, è logico che uno parli con il Papa.

Nelle due delle tre missioni siamo riusciti a fare un video collegamento con il papa: Benedetto XVI prima e Papa Francesco poi. E al ritorno siamo andati ad incontrali di persona in Vaticano. Alla fine non abbiamo trovato una risposta risolutiva, ma il fatto di averne potuto parlare è stato importante.

Ha vissuto in prima persona l’orrore della guerra e l’esplorazione dell’universo. Il lato peggiore dell’uomo e le sue infinite potenzialità. Se la storia è un percorso costellato dal sangue, con piccole pause di sterminata bellezza, in cosa consiste il senso della nostra esistenza?

Per rispondere a questa domanda dovrei essere un filosofo o teologo, o forse addirittura Dio. Invece sono solo un uomo, ingegnere per giunta; un bambino che è andato nello spazio per realizzare il suo sogno. Devo ringraziare il destino, sempre che esista, per avermi concesso di riuscire a fare quello che desideravo. Ma nonostante a molti possa sembrare che io abbia una risposta su tutto, di fatto resto a bocca chiusa quando cerco di dare una ragione al senso della nostra esistenza.

Guardando noi, esseri umani, mi meraviglio di come da un lato siamo sostanzialmente animali nel nostro vivere, mentre dall’altro abbiamo espressioni di astrazione dell’anima che hanno a che vedere con come percepiamo le cose, con l’arte che produciamo con fantasia e impegno, nei rapporti sociali che abbiamo.

Ma queste ultime cose le facciamo solo quando le nostre esigenze primarie di animali sono soddisfatte: quando abbiamo mangiato, dormito, quando abbiamo un posto dove possiamo stare in pace e tranquillità. Paradossalmente, però, per trovare queste condizioni ideali modifichiamo quello che sta attorno a noi, trasformiamo la natura in un mondo ideale più consono a noi. Per esempio, costruiamo case per avere luoghi protetti, riscaldati e raffreddati a nostro piacimento. Ma le case in natura non ci sono! I cani dormono per terra mentre noi abbiamo bisogno di un materasso per dormire. Insomma, per pensare e filosofare, per guardare oltre ed in alto, per capire il senso della nostra esistenza dobbiamo sottrarci alla natura, crearci un nostro paradiso. Vede che mi sono aggrovigliato da solo? Rifletterò ancora su questo!

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