Così le nostre abitudini alimentari favoriscono la diffusione di pandemie
Nel mondo rischiano di aumentare le malattie infettive che hanno origine nella fauna selvatica. Ciò a causa dell’invasione incessante dell’uomo di terre tropicali incontaminate per nutrire gli animali da allevamento e cacciare gli animali selvatici. Non solo: la deforestazione tropicale e la caccia eccessiva sono anche alla base del riscaldamento globale e dell’estinzione di massa di alcune specie. Pandemie devastanti come quelle dell’Hiv/Aids, dell’Ebola e del Covid-19 – che molto probabilmente hanno avuto origine negli animali selvatici – ci ricordano dunque come il degrado ambientale e le malattie infettive siano interconnesse. Tali pandemie indicano inoltre come ciò che scegliamo di mangiare abbia un impatto determinante sulla nostra salute e su quella del pianeta.
Assieme a un team di ricercatori abbiamo condotto una revisione della letteratura scientifica, pubblicata su eClinicalMedicine – The Lancet, per valutare come il rischio di malattie infettive di origine selvatica, il riscaldamento globale e l’estinzione di massa delle specie siano collegati al sistema alimentare globale. Un secondo obiettivo era identificare azioni concrete che governi, Ong e ciascuno di noi possa intraprendere. Innanzitutto è necessario un cambiamento globale verso diete a basso contenuto di cibi derivati da animali da allevamento, così da porre un freno all’invasione di terre tropicali vergini da parte dell’uomo. In secondo luogo, bisogna limitare drasticamente il consumo di carne selvatica nelle aree urbane dei tropici.
Dieta flexitariana
Man mano che ci si avvicina all’equatore, la biodiversità aumenta. Nei secoli scorsi le regioni tropicali sono state oggetto di uno sviluppo socio-economico limitato, il ché le ha rese particolarmente ricche di fauna selvatica e stock di carbonio. Ma negli ultimi decenni le frontiere agricole sono avanzate rapidamente in queste aree.
L’espansione di pascoli e coltivazioni di mangimi per bestiame nelle foreste tropicali potrebbe aver aumentato i contatti tra animali selvatici, animali domestici e persone, incrementando così la probabilità di trasmissione di enti patogeni dall’uno all’altro. Tale distruzione dell’habitat naturale ha anche un impatto negativo su animali selvatici di gran stazza, che perdono accesso a fonti di cibo e zone per la riproduzione. E questo può favorire l’aumento di specie “generaliste” di roditori, pipistrelli, uccelli e primati che meglio si adattano ai paesaggi modificati dall’uomo: alcune di queste specie sono noti “serbatoi” di malattie infettive nocive agli animali domestici e all’uomo. Negli allevamenti intensivi aumenta poi il rischio che gli animali domestici diventino ospiti intermedi per le malattie trasmesse dagli animali selvatici, spesso amplificando il rischio di contagio dell’uomo.
C’è poi un altro punto da considerare: se la popolazione mondiale continua a crescere e ad adottare diete ricche in cibi derivati dagli animali da allevamento, sarà difficile mantenere il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2 gradi centigradi e rallentare l’estinzione delle specie. Questo perché la produzione di cibi derivati da animali da allevamento ha il più elevato impatto ambientale rispetto a tutti gli alimenti, in termini di utilizzo del suolo e dell’acqua, di emissioni di gas serra e di inquinamento dei sistemi terrestri e acquatici.
Aspettarsi che tutti diventino vegani non è realistico e nemmeno auspicabile. Ma almeno seguire diete flexitariane potrebbe nutrire la crescente popolazione mondiale senza causare un’ulteriore espansione dei terreni agricoli in aree tropicali, e con una riduzione delle emissioni di gas serra. Le diete flexitariane sono composte da quantità elevate di alimenti di origine vegetale (comprese le proteine vegetali come legumi, frutta secca e semi), quantità modeste di pesce, pollame, uova e latticini e quantità minime di carne rossa e lavorata. Assieme alla conversione a un’agricoltura rispettosa dell’ambiente o biologica e alla riduzione di perdite e sprechi alimentari, le diete a basso contenuto di cibi di origine animale sono quindi una componente chiave di un sistema alimentare globale sostenibile. Tale cambiamento nutrizionale apporterebbe anche altri benefici per la salute pubblica, riducendo sovrappeso e obesità, diabete, malattie cardiache e cancro del colon-retto.
Le misure di cui dispongono i governi, la società civile e le imprese per promuovere una riduzione del consumo globale di cibi derivati da animali da allevamento sono illustrate nella Figura 1. I governi tendono a non intervenire con queste misure per timore di una reazione pubblica negativa. Ma i cittadini si aspettano una leadership della politica nell’affrontare una sfida così complessa.
Il consumo di cibi derivati da animali da allevamento e la dipendenza delle popolazioni umane dalle proteine animali differiscono in maniera significativa da regione a regione. Priorità dovrà esser data alla riduzione del consumo eccessivo di questi cibi nei Paesi più ricchi e nelle metropoli in espansione dei Paesi in via di sviluppo. Nelle aree rurali povere dei Paesi in via di sviluppo, la malnutrizione può essere combattuta attraverso programmi per l’orticoltura domestica o attraverso programmi per piccoli allevamenti di bestiame, con un minore impatto ambientale dei primi. Al contrario, le popolazioni che abitano terre inospitali alla coltivazione agricola – come le comunità di pastori nei territori aridi e le comunità di cacciatori-raccoglitori nelle foreste pluviali e nell’Artico – continueranno a dipendere in maniera cospicua dagli animali per la loro nutrizione. Ma va considerato che i bassi impatti ambientali dei loro stili di vita di sussistenza non sono paragonabili a quelli delle popolazioni urbane più dense e abbienti.
Niente selvaggina in città
Negli ultimi trent’anni, nelle foreste tropicali di Africa, Asia e Sud America, c’è stato un forte aumento della caccia per soddisfare la domanda di carne di selvaggina nelle zone urbane limitrofe. Livelli elevati di commercio di carne selvatica possono aumentare il rischio di trasmissione di malattie dagli animali selvatici all’uomo, poiché mettono a dura prova la capacità degli Stati di far rispettare le misure di biosicurezza nei territori di caccia, nei mattatoi, nei mercati alimentari e nei ristoranti.
I divieti di commercio di carne selvatica non hanno effetto, se mancano un’efficiente applicazione della legge da parte dello Stato e campagne durature di sensibilizzazione dei consumatori. Nelle città tropicali i consumatori tendono ad avere forti preferenze per la carne di selvaggina, al punto che potrebbero continuare ad acquistarla nonostante gli aumenti di prezzo indotti dai divieti, dando così vita a mercati neri.
I divieti totali possono avere altri effetti indesiderati. Mentre nella maggior parte delle metropoli tropicali le proteine dei legumi, del pesce e degli animali da allevamento sono reperibili facilmente e a prezzi convenienti, ci sono popolazioni indigene e comunità rurali che dipendono dalla carne di selvaggina per una parte vitale della loro nutrizione e del loro reddito. Il diritto di queste comunità di procurarsi da vivere in maniera sostenibile nei loro territori va salvaguardato. I divieti potrebbero anche spingere il commercio di selvaggina verso canali illegali e non regolamentati, dove viene prestata minore attenzione alle misure di biosicurezza necessarie per prevenire il passaggio di malattie infettive dagli animali selvatici all’uomo. L’ideale è dunque contenere la caccia e il commercio di carne selvatica nei tropici ponendo un freno alla domanda nelle aree urbane, e al contempo promuovere i diritti di caccia e le misure di biosicurezza tra le popolazioni nelle aree remote di sussistenza.
Cambiamento urgente
Nelle comunità rurali i cacciatori, commercianti e macellai che maneggiano carne di selvaggina necessitano di una formazione su misure di biosicurezza che siano poco costose e facili da adottare. Misure di biosicurezza dovrebbero essere adottate anche negli allevamenti, nei mattatoi, nei mercati alimentari e nei ristoranti. Queste misure sono illustrate nella Figura 2.
Altre misure di distanziamento fisico andrebbero poi adottate nelle aziende agricole, nei pascoli e nei mercati di animali. Tra queste vi sono le recinzioni per limitare i contatti tra bovini domestici ed erbivori selvatici, il posizionamento di alberi da frutto che attraggono pipistrelli a distanza dagli allevamenti e la limitazione del numero di animali vivi esposti nei mercati.
La frequenza di malattie infettive che hanno origine negli animali selvatici è elevata e potrebbe essere in aumento. Molto probabilmente questo è un altro segnale del modo in cui il degrado degli ecosistemi sta minando la capacità del Pianeta di sostenere la nostra salute e il nostro benessere. L’abbandono di diete ad alto contenuto di alimenti di origine animale e la riduzione della domanda urbana di carne selvatica nei tropici sono fondamentali per salvaguardare l’ambiente, proteggere le comunità più povere e ridurre il rischio di focolai e pandemie. Ciascuno di noi ha il dovere di agire per evitare che inquinamento, inondazioni, siccità, carestie e epidemie diventino fenomeni sempre più prevalenti.