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Bullismo, molestie, violenza incontrollata: ecco come Instagram è diventato il social dell’odio

Immagine di copertina
Credit: AFP

Dall'utilizzo di strumenti tecnologici disfunzionali all'impiego di moderatori poco qualificati: a dispetto della propaganda, Instagram sta facendo pochissimo per contrastare il fenomeno dell'odio in rete, ed è ormai diventato persino peggio di Facebook

Brandon Farbstein è un ragazzo statunitense che nel 2014, quando si è iscritto a Instagram, aveva 14 anni e frequentava il liceo. Affetto da nanismo, provava quotidianamente a sensibilizzare gli altri su questa condizione, anche attraverso l’uso dei social.

Voleva usare Instagram per dare forza e diffusione al suo messaggio tra i giovani.

La realtà è stata molto diversa. In poco tempo, sul suo profilo, è stato subissato di insulti e molestie di ogni genere. A causa del suo attivismo, è diventato bersaglio di pagine create appositamente per deriderlo con meme e fotomontaggi.

L’onda d’odio si è poi propagata fuori dalla rete, e Brandon ha visto affisse nei corridoi della sua scuola foto che lo irridevano. Al ragazzo non è rimasta altra scelta che abbandonare il liceo e terminare gli studi attraverso dei corsi telematici.

È una storia, tutt’altro che isolata, che mette in luce il lato oscuro, e troppo spesso sottovalutato, di Instagram. Il social, acquistato da Facebook nel 2012, è stato a lungo considerato una sorta di isola felice della rete, all’avanguardia nelle strategie di contrasto all’odio e alle molestie online.

Raramente toccato da scandali e inchieste giornalistiche, lodato dai media internazionali per aver affrontato il problema dell’hate speech meglio di qualsiasi altro social network, Instagram nel corso degli anni è cresciuto moltissimo anche grazie a una reputazione immacolata o quasi.

Una lunga inchiesta di The Atlantic ha però messo in luce come i media abbiano sostanzialmente assecondato la narrazione ufficiale veicolata dal social senza mai scavare a fondo.

Un’analisi più accurata, infatti, permette di vedere come il problema dell’hate speech e delle molestie online su Instagram sia persino più grave rispetto a Facebook, Twitter e agli altri social.

The Atlantic ha raccolto le testimonianze di diversi moderatori di contenuti su Instagram, che sotto la garanzia dell’anonimato hanno spiegato come la distanza tra la propaganda del social e la realtà sia enorme.

“Ci sono dei programmi mirati a ridurre il bullismo e le molestie – ha riferito uno di loro – ma ci lavorano pochissime persone. Sono iniziative pensate solo per migliorare l’immagine della compagnia”.

“Molti miei colleghi moderatori sono ‘vecchi’, conoscono le dinamiche di Instagram peggio degli utenti, sono stati assunti sulla base di competenze verificate molto superficialmente – ha detto un altro – Quando Instagram introduce nuove funzionalità spesso i moderatori non vengono nemmeno avvisati”.

“La compagnia è interessata solo al profitto –  ha rincarato la dose un terzo moderatore – Se uno strumento riduce l’hate speech ma porta a un calo degli utenti sulla piattaforma, viene eliminato”.

Le conseguenze sono nefaste: Riley, un ragazzo americano di 14 anni, dopo aver pubblicato sul social un hashtag pro-LGBT è stato preso d’assalto da troll che sono riusciti addirittura a scovare il suo numero di telefono, chiamandolo senza sosta per giorni e minacciandolo di morte.

Violet Paley, un’attrice che ha accusato l’attore e regista James Franco di molestie sessuali, ha cominciato ad essere taggata in storie come “questa stupida puttana”. Un utente ha offerto una ricompensa di mille dollari a chi gli avesse comunicato il suo indirizzo di casa, un altro ha pubblicato il suo numero di telefono, per poi minacciare anche i suoi amici e conoscenti. L’attrice, preso atto della gravità della situazione, si è rivolta all’FBI.

Minacce e molestie colpiscono tutti: gli influencer, ovviamente, ma anche utenti comuni con poche centinaia di followers.

Diverse star del cinema e della musica hanno abbandonato la piattaforma (non per un’ora, come Fedez): si va dall’attrice di Star Wars Kelly Marie Tran all’attore Pete Davidson, preso di mira dai fan della sua ex fidanzata Ariana Grande dopo che i due si erano lasciati, passando per Khloé Kardashian, ricoperta di commenti razzisti che riguardavano sua figlia di sei mesi.

Il problema principale riscontrato dagli utenti è che le segnalazioni di post che violano le regole del social, nella maggior parte dei casi, cadono nel vuoto.

Le ragioni sono molteplici, e spaziano dall’impiego forse troppo esiguo di personale (in certi casi, come visto, troppo poco formato), all’utilizzo di strumenti tecnologici disfunzionali, fino alle impostazioni sulla privacy, meno complete e dettagliate persino rispetto a quelle di Facebook.

Su Instagram, il profilo è totalmente pubblico o circoscritto ai follower approvati; non ci sono mezze misure, ma questo costringe chi, per ragioni di lavoro o attivismo ha necessità di rendersi in parte visibile, a non poter oscurare in maniera selettiva gli haters.

Su Instagram, inoltre, è facile effettuare ricerche per hashtag o posizione: ciò rende più semplice mobilitare i troll su uno specifico bersaglio, taggandolo in un’immagine o in una storia.

Alla diffusione incontrollata dei contenuti d’odio contribuisce poi la “cultura dei fan”: su Instagram l’account di una celebrità può raccogliere attorno a sé milioni di fan, che possono trasformarsi da un giorno all’altro in frotte di haters.

Come Twitter, Instagram permette di configurare account anonimi: è sufficiente un indirizzo email e si può cominciare a postare.

Gli account falsi vengono usati per seminare odio, ma su Twitter le possibilità di “silenziare” profili sgraditi e/o non verificati sono assai maggiori che su Instagram, dove al contrario non è possibile nascondere commenti di persone che non hanno confermato il loro indirizzo email o che hanno un avatar predefinito (due tratti distintivi dei troll).

Non solo: come analizzato nel reportage di The Atlantic, i troll aggirano facilmente anche il sistema con cui Instagram filtra le parole nei commenti, aggiungendo una lettera o un simbolo.

Un’inchiesta di Business Insider ha rivelato che il nuovo servizio TV di Instagram ha raccomandato agli utenti video che mostrano abusi sessuali su minori e mutilazioni genitali. Contenuti che sono stati rimossi solo dopo aver generato milioni di visualizzazioni.

Un altro reportage, stavolta del Washington Post, ha messo in luce come Instagram non sia riuscita a frenare le vendite di droghe illegali sulla piattaforma.

Kevin Systrom, co-fondatore di Instagram, lo scorso 15 ottobre ha parlato per la prima volta dopo la sua decisione di lasciare Facebook (che ha acquisito Instagram nel 2012).

Systrom ha spiegato che i social network, Facebook in primis, si sono focalizzati eccessivamente sull’intelligenza artificiale per moderare i contenuti, non occupandosi invece di una necessaria opera di “alfabetizzazione digitale” che consenta agli utenti di avere maggior controllo sui ciò che postano.

“Ciò che ho imparato nel corso degli anni – ha detto Systrom –  è che se dai alle persone gli strumenti opportuni, poi quelle persone prendono le decisioni giuste”.

“Molestie e bullismo sono oggi due tra i principali problemi dei social media”, ha concluso.

Instagram è il social che cresce più di tutti, e nel giro di qualche anno potrebbe superare Facebook come numero di iscritti. Da questa piattaforma, quindi, passa buona parte dell’educazione digitale delle nuove generazioni.

I segnali, come visto, per ora non sono incoraggianti.

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