Perché di fronte alla violenza giriamo dei video invece di intervenire
L'immobilità della folla di fronte alla violenza potrebbe essere una deriva di un fenomeno chiamato "effetto spettatore", amplificato dai social network
Il 22 gennaio 2017 Pateh Sabally, ventiduenne originario del Gambia, annega tra le fredde acque del Canal Grande di Venezia davanti a decine di astanti inerti.
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Il video dell’episodio ha scatentato centinaia di commenti feroci: è ben visibile l’immobile folla di spettatori, e si possono sentire crudeli commenti di scherno.
A Pateh sono stati gettati invano quattro salvagenti, ma nonostante i soccorsi tardassero ad arrivare nessuno ha deciso di gettarsi in acqua per aiutarlo.
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Pochi mesi dopo, il dibattito globale si è incendiato di fronte al video che mostra il personale della United Airlines trascinare violentemente un uomo fuori da un aereo colmo di passeggeri agitati ma immobili.
Non sono casi isolati: in un video del 2016 un uomo percuote una donna nel mezzo di una strada di Philadelphia mentre gli spettatori si limitano a riprendere la scena. L’unico a fare qualcosa è il figlio di due anni, che si lancia in soccorso della madre.
In tutti questi episodi nessuno è intervenuto ma, sempre, ci sono foto e video a documentare la scena. Il che significa che qualcuno, di fronte alla violenza, ha ritenuto che la cosa più sensata o urgente da fare fosse riprendere la scena invece di fermarla.
Secondo questo articolo della Wiley Online Library queste reazioni potrebbero essere causate da un’evoluzione informatica dell’effetto spettatore, fenomeno teorizzato dagli psicologi sociali John Darley e Bibb Latané.
I due studiosi statunitensi si interessarono alla questione dopo che il 13 marzo 1964 la ventinovenne Kitty Genovese venne accoltellata a ripetizione sotto la sua casa di Queens, New York, dopo essere stata lungo inseguita dal suo assalitore.
Le sue grida svegliarono i vicini: qualcuno urlò qualcosa dalla finestra, altri accesero la luce, ma niente di più. Quando le forze dell’ordine furono allertate era già troppo tardi.
L’inerzia di un così ampio gruppo di spettatori fece discutere per mesi ma, come spiegarono Darley e Latané, non era poi così sorprendente.
Per via dell’effetto spettatore, infatti, più persone assistono ad un fatto allarmante meno è probabile che qualcuno intervenga. La responsabilità di agire si distribuisce su tutti i componenti della folla, riducendo il senso di colpa di ognuno.
Trovandoci in una situazione nuova e problematica, infatti, pensiamo spesso di non averla compresa fino in fondo. Quindi ci affidiamo alle reazioni degli altri, ritenendoli più informati o qualificati a valutarla, ignorando che anche loro si stanno appoggiando al gruppo per capire se sia necessario intervenire.
Agire, esporci, può significare metterci in pericolo e rischiare di essere considerati responsabili per eventuali errori. Ci si sente, spesso, nel posto sbagliato al momento sbagliato.
L’inibizione sociale tende a sopraffare l’empatia, la decisione è scomoda e difficile e tutto rallenta. L’iniziale immobilità di ognuno diventa un indizio sociale per tutti gli altri, e s’innesca un circolo vizioso che porta l’intero gruppo all’immobilità.
Oggi lo spettatore può percorrere un’allettante strada intermedia tra l’osservare e l’agire: condividere su internet. Fotografare la scena posticipa la decisione e ci dà l’impressione di aver fatto qualcosa per aiutare la vittima anche se in realtà siamo fermi.
Riprendendo e condividendo il fatto allarmante, scarichiamo il compito di intervenire su chi, tra il vasto pubblico della rete, sia più capace di noi di reagire efficacemente. Abbiamo fatto il nostro dovere, senza esporci. È il compromesso perfetto.
Ma non è detto che funzioni: Mike Boyes scrive per la Wiley Online Library che il 21 marzo 2017 è stato trasmesso live su Facebook il video dello stupro di una quindicenne. Nonostante decine di persone abbiano visualizzato il video, nessuno ha chiamato la polizia.
Le peculiarità delle piattaforme online infatti è che amplificano la portata dell’effetto spettatore: chi assiste fisicamente alla scena si limita a condividerla, e chi la vede su internet non si sente in dovere di agire dato che, potenzialmente, condivide tale responsabilità con migliaia di persone.
Secondo questa ricerca, firmata Dorit Olenik-Shemesh, Tali Heiman e Sigal Eden, il cyberbullismo trae molta della sua forza proprio dall’effetto spettatore. La già ovattata reazione empatica causata dalla mancanza del contatto visivo con la vittima viene ulteriormente bloccata dalla diffusione di responsabilità.
Anche se sembrano non direttamente coinvolti, gli spettatori online possono essere determinanti tanto in positivo quanto in negativo.
Condividere le immagini può placare il senso di colpa, ma è pericoloso pensare che questo basti a cambiare le cose. I fotoreporter sanno che scattare un’immagine molto spesso non è abbastanza.
I progetti dell’organizzazione non profit WITNESS cercano di aiutare le persone a tradurre in azioni concrete ed efficaci la loro condizione di spettatori. Il sito fornisce consigli e istruzioni su come comportarsi eticamente su internet e come utilizzare i video per proteggere i diritti umani.
Non basta registrare, bisogna agire: un video può essere molto utile se viene utilizzato per allertare le autorità e testimoniare, facendo attenzione a non mettere ulteriormente in pericolo la vittima.
Quanto all’effetto spettatore in sé e per sé, lo psicologo Robert Cialdini suggerisce in Le armi della persuasione di isolare con precisione un singolo individuo dalla folla, mettendolo inequivocabilmente nel ruolo di “soccorritore”.
Egli si renderà così conto dell’emergenza e della necessità di essere lui stesso a fare qualcosa per risolverla, sfuggendo alla diffusione di responsabilità. Quindi si attiverà per evitare la condanna sociale ed ottenere il consenso altrui. In questo modo invierà a tutto il gruppo indizi sociali di attività che sbloccheranno il circolo vizioso.