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Come reagisce il nostro cervello a smart working e didattica a distanza: lo studio

Immagine di copertina
Credit: Pixabay

Come reagisce il nostro cervello a smart working e didattica a distanza: lo studio

Dopo più di un anno di lavoro e lezioni a distanza, moltissime persone hanno notato che alla fine di una giornata trascorsa su Zoom, Teams e altre piattaforme virtuali ci si sente stanchi e svuotati, pur non essendosi mossi da casa. Il fenomeno è così diffuso che è stato coniato un nuovo termine anglosassone per definirlo: Zoom fatigue, o affaticamento da Zoom.

Una delle ragioni di questa stanchezza è il maggior sforzo cognitivo richiesto dalle videochiamate: senza il supporto del linguaggio non verbale, ci dobbiamo impegnare più per capire l’altro, e per farci capire. Questo è solo un esempio, probabilmente il più noto, di come il lavoro e la didattica a distanza influenzino i nostri processi cognitivi.

I ricercatori Riva, Wiederhold e Mantovani, in uno studio pubblicato sulla rivista Cyberpsychology, Behavior and Social Networking, esplorano più a fondo questo tema, usando la neuroscienza per spiegare come smart working e scuola a distanza cambino il modo in cui il nostro cervello vive e interpreta le esperienze di lavoro e apprendimento.

Lo studio si concentra su tre caratteristiche di queste attività e sui processi cognitivi associati ad esse: l’unicità del luogo in cui avvengono, la supervisione da parte di un capo o insegnante e la collaborazione con colleghi o compagni.

L’importanza dello spazio

Una delle scoperte più interessanti della recente neuroscienza evidenza come il senso dello spazio e la memoria siano strettamente collegati tra loro. Esiste infatti una classe di neuroni, chiamati GPS, che proprio come il navigatore della macchina o del cellulare ci permettono di orientarci nello spazio (una scoperta che valse il premio Nobel per la medicina ai coniugi Moser nel 2014).

Questi neuroni svolgono anche una funziona importante nel fissare e richiamare i ricordi. Si è notato infatti che i neuroni GPS cambiano la loro attività a seconda della memoria che cerchiamo di richiamare, in un certo senso segnalando il luogo del ricordo: come tante puntine che su una mappa indicano i luoghi associati a eventi importanti.

Sembra quindi che il nostro cervello registri le informazioni relative a un luogo insieme al ricordo delle esperienze lì avvenute. I luoghi fanno così parte della nostra memoria autobiografica, che svolge un ruolo importante nel definire la nostra identità personale.

In effetti, ci identifichiamo come lavoratori o studenti non solo per le attività che svolgiamo, ma anche perché regolarmente ci rechiamo in ufficio o a scuola, in un determinato spazio che associamo proprio allo svolgimento di quelle attività.

Ma cosa succede quando lavoriamo o studiamo da casa? Uno studio del 2019 ha dimostrato che quando occupiamo un ambiente “molteplice” – ovvero ci troviamo in una stanza, ma allo stesso tempo stiamo anche facendo esperienza di uno spazio digitale sullo schermo del computer – l’unico vero spazio, per i neuroni GPS, è quello in cui possiamo muoverci, non quello virtuale.

In poche parole, per il nostro cervello Zoom e Teams non sono veri luoghi, e quindi il meccanismo che registra la nostra memoria in relazione allo spazio non viene attivato. Dal momento che manca questo passaggio, le esperienze vissute tramite queste piattaforme hanno più difficoltà a solidificarsi come parte della nostra memoria autobiografica.

Il risultato è sentirsi “senza luogo”, sperimentando sulla propria pelle il concetto di placelessness introdotto negli anni ‘70 dal geografo Relph per descrivere la perdita di unicità degli spazi in alcuni paesaggi urbani, dove ogni luogo assomiglia al successivo, senza soluzione di continuità.

Con lavoro e scuola a distanza, l’esperienza di placelessness è legata alla perdita di unicità delle singole riunioni e videochiamate nel corso della giornata, che non si riescono a distinguere tra di loro perché si svolgono tutte nello stesso “non-luogo” – i neuroni GPS, che come abbiamo visto partecipano al processo di distinzione dei ricordi, in questo caso rimangono inattivi.

Inoltre, l’impossibilità di collegare la nostra attività personale a un luogo designato ci fa sentire “meno” studenti e lavoratori (a casa non siamo solo lavoratori ma anche coinquilini, genitori, partner, eccetera), e un’identità professionale indebolita è stata collegata da alcuni studi a un rischio maggiore di stress da lavoro e burnout.

Senza linguaggio non verbale, meno empatia e intuizione

Un’altra caratteristica comune a scuole e uffici è la presenza di un superiore che organizza, guida e infine valuta il nostro lavoro. Il linguaggio non verbale di un capo o insegnante – ad esempio la sua postura, le espressioni del viso e i gesti – ha un impatto importante su lavoratori e studenti. La manifestazione di una certa emozione o sentimento da parte di un capo, infatti, tende a farci sentire allo stesso modo.

Ad esempio, una valutazione positiva accompagnata da una dimostrazione di emozioni negative, come sopracciglia aggrottate, ci fa sentire peggio rispetto a una valutazione negativa accompagnata da sorrisi e cenni di assenso.

Questo “contagio emozionale” da parte del superiore non si limita solo a un individuo, ma a tutti i membri del suo team, e può direttamente influenzare (sia in modo positivo che negativo) il livello di fiducia ed empatia all’interno del gruppo. Lo stesso vale per le azioni di un superiore, che inducono il personale ad adottare comportamenti simili – dare il buon esempio può quindi avere un effetto positivo sulla performance del team.

La neuroscienza spiega questo fenomeno tramite i neuroni specchio, che ne sono i principali responsabili. Quando osserviamo qualcuno svolgere un’attività o manifestare un’emozione, infatti, questi neuroni si attivano come se fossimo noi i protagonisti di queste azioni e sentimenti, invece che semplici spettatori. Grazie ad essi il nostro cervello intuitivamente “copia” ciò che altre persone fanno e provano, spingendoci a comportarci in maniera simile e aiutandoci a identificare meglio le emozioni di qualcun altro, dato che, in una certa misura, le proviamo anche noi.

Come reagiscono i neuroni specchio durante una videochiamata? Normalmente in queste occasioni vediamo solamente il viso del nostro interlocutore, e gran parte del linguaggio non verbale viene perduto. Questo ostacola il processo di “sincronizzazione” dei neuroni specchio, che come abbiamo visto si basa proprio sulla comunicazione non verbale.

Ispirare il proprio team o i propri studenti, infondere fiducia ed empatia nel gruppo, così come dare il buon esempio, diventano quindi compiti più difficili. Questa è anche una delle ragioni per cui sviluppare un legame emotivo tra colleghi e compagni solo tramite videochiamate (anche se sociali e non legata al lavoro da svolgere) risulta meno spontaneo.

Se poi gli interlocutori non attivano il video, non vedremo nemmeno le loro espressioni, rendendo ancora più difficile l’attivazione dei neuroni specchio, e più probabile che sorgano delle incomprensioni. Sarebbe bene quindi lasciare la videocamera attiva, così che gli altri possano vederci, ma al tempo stesso nascondere il proprio riflesso dallo schermo – non solo perché potrebbe distrarci, ma anche perché vedere la manifestazione delle proprie emozioni sul volto le amplifica, rendendole più difficili da controllare.

Oltre a diffondere empatia e fiducia nel gruppo, leader e insegnanti si trovano spesso ad utilizzare l’istinto per prendere decisioni in circostanze che richiedono una risposta immediata, e l’intuizione spesso suggerisce loro se uno studente è preparato o meno, o se una persona è giusta per ricoprire un certo ruolo.

Nel cervello umano sono le cellule fusiformi ad essere responsabili delle nostre intuizioni e istinti, e anche queste, come i neuroni specchio, si basano sulla comunicazione non verbale. Senza accesso a questi segnali, come avviene durante una videochiamata, diventa più difficile prendere decisioni velocemente – si dovrà fare ricorso a un maggiore sforzo cognitivo, che non solo risulta più stancante, ma potrebbe anche aumentare il rischio di errori.

La sincronia “cerebrale”

Le esperienze di scuola e lavoro sono spesso condivise con altre persone, e questa è l’ultima caratteristica studiata da Riva e colleghi. L’affiatamento che sentiamo quando lavoriamo bene insieme a qualcun altro, fianco a fianco, o la perfetta armonia che a volte si crea tra i nostri movimenti e quelli di un’altra persona, si riproducono anche nel cervello.

Le oscillazioni nell’attività elettrica della corteccia cerebrale umana sono responsabili di coordinare le varie azioni del cervello, ma si è notato che quando le nostre azioni sono coordinate con quelle di qualcun altro – ad esempio suonando la stessa sinfonia – le rispettive oscillazioni neuronali si sincronizzano tra di loro. Anzi, questa sincronia non solo accompagna, ma precede l’azione coordinata, e anche se il nesso causale non è ancora certo, si pensa che svolga un ruolo nell’iniziare e mantenere la coordinazione dei movimenti tra persone.

La sincronia è tale che “quando due violoncellisti suonano insieme, gli emisferi destri dei loro cervelli sono più coordinati tra di loro di quanto lo siano l’emisfero destro con il sinistro in ciascun individuo”. Inoltre, due studi sui lavori di gruppo citati da Riva e colleghi hanno dimostrato che una maggiore sincronia tra oscillazioni cerebrali tra partecipanti è associata a una miglior risultato del compito.

La sincronia era in grado di prevedere la riuscita della performance collettiva meglio delle valutazioni fornite dai partecipanti sullo spirito di gruppo, e degli indici che misurano il livello di cooperazione in un team dall’esterno. Uno degli elementi importanti per raggiungere la sincronia è che i partecipanti si concentrino su un obiettivo comune, con la consapevolezza che gli altri stiano facendo altrettanto, creando una circostanza di attenzione “congiunta” o “condivisa” (ad esempio, quando una persona ci indica qualcosa e noi vi rivolgiamo l’attenzione).

Il contatto visivo e lo scambio di sguardi facilitano l’attenzione condivisa, e di conseguenza la sincronia cerebrale e i suoi benefici. Quando partecipiamo a una videochiamata i volti sono visibili, e tuttavia è impossibile guardarsi veramente negli occhi, dal momento che non possiamo contemporaneamente fissare la videocamera e i visi dei nostri interlocutori sullo schermo – o guardiamo dritti in camera, o guardiamo gli altri.

È quindi più difficile che l’attenzione condivisa avvenga in modo fortuito – può comunque succedere, lavorando in gruppo, ma richiede uno sforzo più consapevole, e strategie più complesse e meno intuitive rispetto al semplice scambio di sguardi. A risentirne è la sincronia tra le oscillazioni neuronali, con potenziali conseguenze negative sulla qualità del lavoro svolto, ma anche sulla dedizione, creatività, e capacità di discussione innovativa all’interno del gruppo.

Come superare questi ostacoli e lavorare in modo produttivo a distanza?

I vantaggi del lavoro da casa sono però molteplici, e la maggior parte dei lavoratori, sia in Italia che all’estero, non vogliono rinunciarvi. Lavorare in modo efficiente e produttivo da remoto è possibile, anche se come abbiamo visto richiede un maggior sforzo cognitivo, che si traduce in maggior stanchezza a fine giornata.

Sapere come il cervello vive e interpreta queste esperienze può aiutarci a prevenire e superare alcuni degli ostacoli presentati nello studio di Riva e colleghi.

Del resto, in rete si sono sviluppate delle vere e proprie comunità con un senso di appartenenza molto forte, e si è dimostrato come la partecipazione attiva e uno scambio di idee, informazioni e risorse tra partecipanti possano superare la distanza; soprattutto quando si ha un problema comune da risolvere (come vincere la partita di un videogioco, o una problematica personale condivisa da più persone), e quando si applicano conoscenze specifiche condivise con gli altri partecipanti.

Le stesse piattaforme digitali si stanno evolvendo, ed è probabile che in futuro si trasformino molto di più. Su Teams, ad esempio, esiste un’opzione tramite la quale tutti i volti dei partecipanti vengono visualizzati sullo schermo come se fossero seduti in un’arena, al fine di aumentare la sensazione di trovarsi nello stesso posto.

Il problema della placelessness, però, riguarda soprattutto il fare tutto nello stesso spazio senza spostarsi: stabilire confini precisi nella nostra casa, adibendo uno spazio specifico al lavoro/studio potrebbe rappresentare una soluzione, sempre che sia possibile.

In futuro, la realtà virtuale potrebbe rappresentare un’altra possibilità – di recente è stato infatti dimostrato che questa modalità attiva i neuroni GPS ed è in grado di far provare empatia tra partecipanti, permettendo che si formi una vera e propria relazione tra loro.

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