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Viaggio nell’anoressia di una ventenne

Immagine di copertina

Sick Sad Blue è il racconto visuale di Chiara, una giovane ragazza malata di anoressia. Lorenzo Sassi ha intervistato per TPI l'autrice del progetto, Federica Sasso, giovane fotografa.

Ci sono lavori fotografici la cui potenza estetica fa sorgere una vecchia questione, quella della “riproducibilità”. Non dico le pose dei soggetti, la singolarità della circostanza entro cui è calato l’evento immortalato, o altre questioni sollevate da quel saggio di Benjamin del ’36; parlo piuttosto della percezione e dell’impossibilità che essa possa essere la stessa nelle mani di un altro artista.

Ci sono lavori fotografici, infatti, la cui potenza espressiva trascende l’evento; è tutto nelle mani del fotografo, nelle mani della sua sensibilità umana, non artistica; la cui riproducibilità è inconcepibile. Ci sono lavori fotografici, quindi, che una volta toccati con mano, osservati, contemplati, lasciano l’amaro in bocca, un amaro così desiderabile da volerne ancora, nonostante sia così fastidiosamente amaro.

Uno di questi lavori è Sick Sad Blue. Ho fatto due chiacchiere con Federica Sasso, l’autrice, per sapere cosa c’è dietro quello che vediamo quando “leggiamo” il suo racconto visuale. L’ho incontrata al Festival fotografico di Lodi.

Il Festival della Fotografia Etica di Lodi è uno sguardo sul mondo. Festival riconosciuto a livello internazionale e unico nel suo genere in Italia, ha come obbiettivo l’idea di sensibilizzare le persone, attraverso la fotografia, circa tematiche ambientali, antropologiche e sociali. È il tentativo, dunque, di arrivare a tematizzare specifici contenuti mediante la fotografia.

Quest’anno si è tenuto dal 7 al 29 ottobre (tutti i weekend). Attraverso la visione, l’immagine, la totale immediatezza di un resoconto fattuale, il Festival si pone nella condizione di poter permettere l’accesso alla sensibilità sia del fotografo, sia degli oggetti/soggetti immortalati.

Tra gli autori presenti quest’anno c’è anche Federica. Il suo lavoro, Sick Sad Blue, incorniciato dal Premio Voglino, è il racconto visuale di Chiara, una giovane ragazza malata di anoressia.

Ho iniziato a domandarle del principio, dell’origine dell’avvicinamento alla fotografia. Federica mi dice che ha “iniziato fotografando” la sorella, poi l’iscrizione “all’istituto Italiano di Fotografia e da lì un anno di scholarship a Fabrica”, anno in cui si è dedicata sia a “Sick Sad Blue che ad un progetto sulla post-adolescenza”.

Proprio in quel periodo, nel 2015, mentre stava lavorando a quel progetto sulla post-adolescenza, conosce Chiara.

“Fin dall’inizio ho sentito un canale aperto con Chiara, un canale profondo che è anche la sua sofferenza. Ho sentito che fosse bella, inteso non solo fisicamente. Ciò che mi ha attratto è la sua incredibile sensibilità. L’anoressia stessa è risultato, in parte, di questa iper-sensibilità. La fragilità e la dolcezza”.

Quando poi, a ottobre dello stesso anno, tramite Instagram, viene a sapere che Chiara è ricoverata in psichiatria, decide di lavorare a qualcosa su di lei, con lei. L’idea “non è stata quella di farne un progetto ma di seguire Chiara in un percorso, di starle accanto insomma”.

Federica si ritrova così scissa all’interno: da una parte la fotografa, dall’altra la persona. Di fronte a lei le idiosincrasie di Chiara, la sua persona tout court e l’idea che Chiara ha di sé. Il lavoro è strutturato su più livelli narrativi: da una parte le fotografie di Federica, dall’altra gli screenshot del profilo di Chiara.

Siamo dentro e fuori di lei, all’interno di un gioco prospettico formidabile che ci permette di capire, non solo Chiara in sé, quanto piuttosto la “distanza” che si crea nell’osservazione dell’altro. Per Federica il problema era “complesso, ovviamente. Non è semplice trovarsi di fronte a quel genere di corpo femminile. In più, ho sempre temuto di essere vista e percepita come mezzo di conferma della sua immagine ideale, per via delle mie fotografie di moda. Ma non potevo andarmene, lasciarla sola. E la fotografia è stato un mezzo per intessere una forma di comunicazione alternativa. Interagire e sentire”.

L’idea delle varie prospettive narrative è nata all’improvviso. Federica sapeva bene di non potersi basare solo sul suo “punto di vista, parziale. Dovevo cercare di comprendere il suo”.

E questo tentativo è riuscito. Noi siamo dentro quella circostanza, assaporiamo distrattamente e poi profondamente ogni emozione del soggetto. E questo, credo, è tutto dovuto all’approccio della Sasso: “È il mio modo di vedere. Spontaneo e sincero. Cerco di trasmettere quello che sento, sempre. Quello che ho percepito in quel momento. Senza maschere”.

Mi dice che ogni immagine pubblicata da Chiara era un “grido”. Un tentativo di prossimità all’altro, al mondo. In alcune immagini si riesce a comprendere “la fragilità di Chiara come persona, in altri la forza e la grandezza della sua malattia”. Sotto un certo punto di vista, mi dice Federica, è come “se fosse nata l’inconsapevole rappresentazione del dolore che stava dentro Chiara”.

Oggi, in parte grazie al rapporto che si è creato tra loro, è in atto “un processo di guarigione” vero e proprio. Per Chiara, del resto, il contatto con Federica e il lavoro “è stato un passaggio, una scoperta”.

Anche se “non sempre” si è sentita a proprio agio di fronte allo sguardo della fotografia. Chiara mi dice che il lavoro di Federica “è stato onesto e rispettoso della realtà dei fatti. Il lavoro è stato discreto, delicato e leggero. Ha trattato il tutto con molta delicatezza”. Ed essendo ad un Festival di Fotografia Etica non poteva essere diversamente, credo.

Quando ho chiesto a Chiara quanto della Chiara che conosceva ci fosse in quel lavoro, non mi ha voluto rispondere. Forse è meglio così, è meglio non saperlo.

Non perché la risposta possa essere spaventosa, inaspettata o banale. È meglio non saperlo perché lì si ferma il mio lavoro di indagine giornalistica e, di fatto, si ferma il lavoro di Federica.

C’è un confine, etico suppongo, oltre il quale non serve andare, si finisce all’interno di una realtà inafferrabile, anche per la fotografia. I concetti, le categorie e i mezzi che ci servono come “griglia sul mondo” diventano inutilizzabili.

Forse è meglio così, è sufficiente la sensibilità, la percezione dell’umano. Quell’Io che si cerca di violare, forse, è meglio lasciarlo inviolato. Sick Sad Blue, prodotto da Fabrica, è attualmente sold out.

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