“Io malata di dermatomiosite, rifiutata da tutti i centri di riabilitazione della Sardegna, rischio la paralisi”. La storia di Daniela
Daniela vive in provincia di Sassari e da un anno ha scoperto di essere affetta da sclerodermia sistemica e polimiosite. Ora è ricoverata nella terapia intensiva dell'ospedale di Tempio Pausania, ma ha bisogno di iniziare al più presto la riabilitazione
“Ora respiro in aria ambiente. Non parlo, ma scrivo, muovo le gambe e gli avambracci. La fisioterapia dà i suoi benefici, ma è ancora molto molto poca per potermi rimettere”. Daniela ha 37 anni e la vita a metà. A maggio del 2018 ha iniziato ad avvertire dei dolori muscolari che le impedivano di compiere i gesti più semplici. Salire le scale era diventato un incubo, prendere in braccio Luca, il figlio che oggi ha cinque anni, quasi impossibile.
Quando si è decisa a farsi visitare, a Daniela hanno riferito che forse quei dolori potevano essere conseguenza di uno scarso funzionamento della ghiandola tiroide. Diagnosi errata. Non era quella la malattia che iniziava a divorarla. Solo mesi dopo, a settembre, quando Daniela diventava sempre più debole e i suoi muscoli iniziavano a cedere, si è scoperto che il mostro che l’aveva presa aveva due facce: la sclerodermia sistemica e la polimiosite.
Pronunciare questi due nomi a voce alta farebbe paura a chiunque. Ma non a Daniela. La chiama “liberazione”, lei. Come se dare un nome a un mostro per mesi sconosciuto le facesse trovare la forza per combatterlo.
Da maggio a settembre nessuno era riuscito a capire che cosa stava succedendo al suo corpo, perché stava cambiando sotto il peso di una sofferenza che non aveva nome. Addirittura era finita in sala operatoria per il tunnel carpale.
L’illusione, però, è durata troppo poco: il dolore continuava, così come la crescente difficoltà a muoversi. “Quando ho saputo cosa avevo sono rinata”, scrive. Scrive, Daniela, perché non può parlare, oggi. Ma non è difficile leggere in quelle parole la forza e la determinazione di una donna che non ci sta a farsi travolgere da un destino che non può essere il suo.
“Mi sono detta ‘c’è la malattia, l’affrontiamo’”. Ed è stato questo lo spirito di Daniela sin dal principio. Anche quando le cose sembravano prendere la piega sbagliata: “Fino alla fine di novembre stavo meglio, i dolori erano passati e mi sentivo bene. Poi però piano piano sono andata a peggiorare”.
La vita quotidiana presentava più ostacoli di quanto immaginasse: “Camminavo con sempre più difficoltà, non riuscivo ad alzare bene le braccia, le forze diminuivano sempre di più, il respiro diventava sempre più debole”.
Il ricovero in un centro di riabilitazione diventa necessario. È qui che inizia il vero calvario di Daniela: la ricerca forsennata di un letto in cui essere assistita e portare avanti i cicli di fisioterapia e logopedia. Un letto che a Daniela viene negato.
Intanto il tempo passa e la malattia non dà tregua a Daniela. La pelle si tira, sembra plastificata, e la malattia comporta alterazioni strutturali dell’esofago e dello stomaco, nello stato più avanzato, diventano più rigidi, perdendo la loro naturale elasticità. La componente della polimiosite è la più aggressiva delle due: è una infiammazione dei muscoli. Tra una cellula e l’altra c’è un tessuto che le unisce, il connettivo; la malattia lo aggredisce con una risposta infiammatoria che crea regioni di fibrosi, come delle cicatrici nel muscolo, che piano piano perde la sua struttura e funzione. Trascini i piedi, per reclinare la testa devi dare un colpo di frusta indietro e alla fine ti paralizza.
Il cuore è un muscolo e la polimiosite non lo risparmia. Daniela ha tutti questi segni e sintomi, ma ha cominciato ad assumere una terapia specifica, il Rituximab, quando ancora le compromissioni d’organo non erano manifeste. Invece adesso sembra che la malattia stia avanzando. Ha avuto dei problemi di digestione, oltre a quelli di deglutizione: i muscoli dell’esofago e del collo non hanno forza sufficiente. La riabilitazione servirà a Daniela per fortificare e rieducare la muscolatura perché riprenda la sua funzione naturale e col tempo vedere come procede, se esiste e quale è il recupero e quanto è il danno irreversibile.
Ai primi di settembre il medicinale immunosoppressore conclude il suo effetto e il sistema immunitario di Daniela sarà di nuovo attivo. Ma in quel momento, trattandosi di una malattia autoimmune, probabilmente riprenderà a lavorare anche contro Daniela, perché si tratta di una patologia cronica: ha dei picchi di attività maggiore e dei picchi in cui è latente, quasi dorme. La speranza di Daniela e dei suoi familiari è che continui a darle un periodo di pace per permetterle di iniziare la riabilitazione.
Il problema è che al momento non è disponibile un centro di riabilitazione che sia anche dotato di una unità medica appropriata, di diretto collegamento anche ad una unità di cure intensive, se fosse necessario. Servono un fisiatra, un logopedista, un reumatologo e un anestesista con la strumentazione necessaria.
A spendersi per trovare un centro di riabilitazione per Daniela è Paride, il fratello, che di notte lavora e di giorno passa in rassegna tutte le strutture che potrebbero ospitare la sorella, quelle che dovrebbero essere abilitate alla gestione del codice 56, che corrisponde al tipo di riabilitazione intensiva cui fa riferimento la patologia di Daniela.
“Il codice 56 si caratterizza per interventi di recupero di disabilità importanti, modificabili, che richiedono una sorveglianza medico-infermieristica h24. Gli interventi devono essere di norma di tre ore giornaliere, 6 giorni su 7, e comunque di almeno 18 ore settimanali, salvo casi particolari”, si legge sul sito del Ministero della Salute.
I centri di riabilitazione abilitati al trattamento di casi importanti sono diversi in Sardegna. Paride li cerca e contatta tutti. Li sgrana uno per volta, come fossero grani di un rosario fatto di attese e rimpalli. I giorni passano e Daniela diventa un “caso”, troppo delicato per essere accolto in alcune di quelle strutture che pure dovrebbero trattare il codice 56.
Nel frattempo Paride si attiva anche contattando le istituzioni. È il 10 luglio quando scrive per la prima volta all’assessore alla Sanità Mario Nieddu, chiedendo con urgenza che si trovi una soluzione per Daniela: “Oggi iniziamo una sfida ben più grande di quella contro il sistema sanitario”, scrive Paride, preoccupato per la salute sempre più precaria della sorella.
Dopo 69 giorni, Daniela viene trasferita dal reparto di rianimazione dell’ospedale di Olbia all’ospedale civile di Tempio Pausania, dove è ricoverata ancora oggi. E il trasferimento lì non arriva perché il protocollo lo prevede, ma per mancanza di alternativa: “Vista la gravità e la particolarità del caso, non esistono soluzioni ordinarie per la sua riabilitazione”, scrive ancora Paride, sottolineando una falla nel sistema sanitario che potrebbe costare cara a Daniela.
Eppure quelle soluzioni dovrebbero esistere, proprio in quelle diverse strutture sparse per la regione che, sulla carta, trattano il codice 56.
Daniela invece resta appesa alla speranza di un trasferimento che non arriva mai. Il 29 luglio Paride scrive ancora a Nieddu. Nessuna notizia dopo la ferma richiesta di aiuto di 19 giorni prima. Eppure ogni giorno che passa è un giorno perso per aiutare Daniela a curarsi.
“Daniela da venti giorni sta bene, nel senso che ha preso qualche chilo: è arrivata in ospedale che pesava 40 chili, oggi dovrebbe pesarne 43/44. Ha tanta energia, vuole fare la riabilitazione. È sempre stata lucida: ha una forza di volontà incredibile. Prima non aveva le forze, perché aveva infezioni o complicanze, adesso non ha niente”, dice Paride.
Le hanno aumentato l’alimentazione dallo stomaco e quella endovenosa, sta iniziando a fare logopedia mezz’ora la mattina e mezz’ora la sera, insieme alla fisioterapia. È una roccia Daniela, che si scalfisce solo all’idea che nessuno voglia prendere in carica in suo caso.
“Non posso dire di stare bene, perché mi trovo allettata e non riesco a muovermi”, scrive Daniela. “Posso dire di aver accettato subito la situazione e quindi non mi sono mai buttata giù”. A infonderle la forza è stata la famiglia. “Ci sono state e ci sono ancora le giornate di rabbia, di dispiacere, ma poi cerco di sorridere e di continuare a combattere. Perché questa sfida la devo VINCERE a tutti i costi”.
“Daniela sta scrivendo”, si legge sullo schermo e, infatti, in un fiume di parole incontenibile Daniela si racconta, si svuota di timori e gioie che ogni giorno le fanno compagnia in quel letto di ospedale.
Finalmente ha potuto rivedere Luca, dopo due mesi. “Dividermi dalla mia famiglia è stato ed è bruttissimo”, scrive Daniela, che ha contato il tempo che pareva infinito lontano da suo figlio. “Sono stati 57 giorni senza vederlo e posso assicurarti che è un dolore enorme che affronti, ma non lenisci mai”.
In quella stanza d’ospedale, dove ad accudirla, come dice lei, c’è la sua seconda famiglia fatta di medici, infermieri, operatori sanitari, Daniela conta anche le sue paure. “La paura ti accompagna sempre. Paura di crollare psicologicamente, paura di non riuscire a guarire, paura di non poter tornare alla vita che facevo”, spiega.
La vita che faceva prima era piena dell’ordinarietà di tante vite, eppure dai polpastrelli di Daniela viene fuori la fotografia della felicità nelle piccole cose. “Facevo la segretaria di un geometra. Lavoravo mattina e pomeriggio. Lavoro bellissimo. Mi manca lo squillo continuo del telefono”, continua. Poi tornava a casa e quella che per tanti è la routine noiosa diventa un manifesto di amore per la vita per Daniela: “Rientravo a casa e facevo le mie faccende da casalinga,che mi stancavano, ma le facevo con amore. E poi la cucina.. La cucina mi piace tanto: mettermi ai fornelli è molto rilassante, lavorare la pasta, fare la pizza, fare i dolci. Tutte cose che faccio con il mio bimbo e ci divertono tanto”, continua Daniela, che no, non ci sta a usare l’imperfetto e sa che quelle cose tornerà a farla con Luca, ma solo se potrà accedere a un centro che le permetta di curarsi.
“L’idea di non poter più fare queste cose mi deprime molto, ma sono convinta che ci riuscirò e ci crederò fino alla fine”, promette Daniela, a se stessa e al suo bambino, troppo piccolo per sapere, eppure probabile ragione della forza straordinaria che la caratterizza.
“La cosa che è da tanto tempo che non riesco a fare è abbracciare. Abbracciare e accarezzare mio figlio, il mio compagno, la mia famiglia”, aggiunge. E non si vedono i suoi occhi, ma di sicuro brillano all’idea di stringere ancora tra le sue braccia Luca.
Paride dipinge la forza di Daniela, ne fa una radiografia nitida in cui si leggono chiari gli sforzi di restare aggrappata alla vita. “Ci sono stati momenti molto fragili per tutti. Io le ho detto: questa è la tua Olimpiade, non c’è un secondo posto. C’è solo un primo posto. Lei si è messa in testa che deve guarire e deve guarire”. Il problema più grande per Paride restano le istituzioni, che, ad oggi, “non ci danno la possibilità di darle questa opportunità”.
In Sardegna, perché, invece, l’altra strada che sta tentando Paride è quella di portarla fuori dalla regione. Ma al momento è impossibile: secondo le strutture che si trovano nel resto dell’Italia, si tratta di una situazione traumatica che la paziente non reggerebbe. “Io ho cercato di spiegare per mesi che siamo coscienti dell’impatto psicologico, ma se nessuno la vuole in Sardegna, dateci una possibilità. Invece una commissione ha detto di no, ma questo perché Daniela è vista attraverso i referti, quindi come un paziente in condizioni peggiori di quelle in cui versa. Daniela ha una forza di volontà tale da poter superare tutti gli ostacoli”, dice fermo Paride.
Intanto i giorni passano. “Non c’è tempo”, ripete lui, che spera che la situazione si sblocchi nell’immediato. Solo così Daniela potrà riprendersi la sua vita e vincere la sua Olimpiade.