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Home » Salute

L’incredibile storia di Joy Milne, la donna che sentiva l’odore del Parkinson

Immagine di copertina

Già 12 anni prima che a suo marito fosse diagnosticata la sindrome neurodegenerativa, notò un netto cambiamento nell’aroma naturale del consorte. Ora le sue capacità contribuiscono allo sviluppo di nuove ricerche per la diagnosi precoce di questa patologia

Se fossimo liberi di scegliere, quale superpotere vorremmo avere? La capacità di volare, di correre alla velocità del vento, una forza sovrumana? A porre la domanda è Joy Milne, una 72enne con unabilità singolare, quella di discernere odori che gli altri nemmeno avvertono. «I media hanno detto che ho un superpotere. Ma io non me lo sono potuto scegliere», ha affermato durante una conferenza TedX in cui ha raccontato la sua storia. «Sono nata con un naso in grado di fare diagnosi».

Dotata di uneccezionale sensibilità dellolfatto, nota come iperosmia, lex infermiera scozzese è diventata un riferimento per un nuovo filone di ricerca su una delle malattie neurodegenerative più diffuse, il morbo di Parkinson.

Sin da quando era bambina, Milne si era resa conto di avere una spiccata capacità di riconoscere gli odori. Era stata la nonna, anche lei iperosmica, a incoraggiarla e a insegnarle a usare la sua abilità. A una condizione però. «Alzò la voce e puntò il dito: Non puoi dirlo a nessuno. Promettimelo”», le parole ricordate da Milne. Crescendo ha appreso come riconoscere gli odori più disparati, da quello dei pistilli dei fiori a quello della tundra (che ha descritto come «cremoso»), e a distinguerli nelle loro componenti. Quando poi ha iniziato a lavorare come infermiera ha imparato ad associare gli odori ai pazienti e alle loro condizioni cliniche. «Ho acquisito una biblioteca olfattiva medica. La chiamavo il mio bagaglio degli odori”», ha spiegato Milne.

L’iniziale scetticismo
Ma è stato il suo incontro con due ricercatori dell’Università di Edimburgo e dell’Università di Manchester a cambiare la sua storia e, forse, anche la nostra. Con loro, dopo aver superato qualche scetticismo, ha avviato una collaborazione che «potrebbe diventare leggendaria», ha detto al New York Times Magazine Simon Scott, direttore della ricerca presso la fondazione Cure Parkinson.

A raccontare il primo incontro è stato Tilo Kunath, oggi professore di Neurobiologia rigenerativa all’università scozzese. Nel 2016, in un’intervista alla rivista The Lancet Neurology, ha ricordato una conferenza di quattro anni prima e una domanda rivolta dal pubblico. A prendere la parola era stata proprio l’ex infermiera di Perth.

«Mi chiese se le persone con il morbo di Parkinson avessero un odore diverso. Io non avevo una risposta», ha raccontato Kunath. «A parte le evidenze sulla perdita dell’olfatto come sintomo del Parkinson non ne avevo mai sentito parlare prima».

Sarebbe finita lì se non fosse stato per una collega, la biochimica Kahtryn Ball, con cui Kunath si era trovato a parlare sei mesi dopo quel primo incontro. Lei, ricordando alcuni studi sui cani in grado di fiutare il cancro, lo aveva esortato a ricontattare la donna. Dopo due settimane Kunath era riuscito finalmente a risalire a Milne.

L’ex infermiera conosceva bene il Parkinson, che da lungo tempo affliggeva il marito Les. Era stata proprio lei la prima ad accorgersi che qualcosa non andava, anni prima della diagnosi. Una sera di agosto del 1982 Les Milne era tornato a casa con un nuovo odore, descritto come uno sgradevole aroma di «mosto denso». Aveva da poco compiuto 32 anni e da un paio lavorava come anestesiologo all’ospedale di Macclesfield, vicino Manchester. Da allora l’odore gli è sempre rimasto addosso e ha accompagnato tutti i cambiamenti, sia fisici che psichici, che avevano preceduto la diagnosi di Parkinson. Joy diceva di aver colto quei segnali 12 anni prima della comunicazione ufficiale dei medici. Era proprio questo l’aspetto che più saltava all’occhio dei ricercatori.

«Se mi avesse detto che quando (il marito, ndr) aveva contratto il Parkinson aveva avvertito un cambiamento nel suo odore, o che era successo dopo, probabilmente non l’avrei più cercata», ha detto Kunath al New York Times Magazine. «Ma il fatto è che è avvenuto anni prima».

Il neurobiologo ha deciso di chiamare la collega Perdita Barran, una chimica analitica, per chiederle quello che pensava delle presunte capacità di Milne. La prima impressione era che l’ex infermiera stava semplicemente sentendo l’odore tipico degli anziani e dei malati, attribuendo il cambiamento al Parkinson. «Eravamo scettici all’inizio», ha raccontato a The Lancet Neurology la ricercatrice, oggi docente di Spettrometria di massa all’Università di Manchester. I due scienziati hanno comunque deciso di mettere alla prova Milne.

Messa alla prova
Per lo studio pilota sono stati reclutati 12 partecipanti, la metà dei quali malati di Parkinson e i rimanenti sei come gruppo di controllo. A ognuno è stato chiesto di indossare per 24 ore una maglietta appena lavata. I capi sono stati tagliati a metà, riponendo ciascuno dei pezzi in una busta sigillata. A Milne è stato poi chiesto di annusare i lembi e, se riteneva appartenessero a malati di Parkinson, di valutare l’intensità dell’odore. A fine giornata Kunath ha verificato i risultati: Milne aveva correttamente riconosciuto il Parkinson in tutti i tessuti appartenenti ai soggetti malati. Inoltre era riuscita, tramite l’olfatto, ad associare ogni lembo alla metà corrispondente. Un successo, se non fosse stato per un dettaglio: aveva identificato il Parkinson in entrambi i campioni appartenenti a uno dei soggetti del gruppo di controllo. Un falso positivo che i ricercatori avevano attribuito alla stanchezza o a una contaminazione del campione.

Senza possibilità di finanziare altri studi, i ricercatori si sono dedicati ad altro. A quel punto nessuno sembrava disposto a sostenere nuove ricerche per scoprire cosa ci celasse, a livello molecolare, dietro gli odori percepiti dalla signora di Perth. Inaspettatamente, questi non erano concentrati intorno alle ascelle dei soggetti dello studio, ma nell’area del collo. L’ipotesi era che l’odore provenisse dal sebo dei pazienti, una miscela di lipidi piuttosto trascurata dalla ricerca.

Dopo meno di un anno le cose sono cambiate. Durante un evento a Edimburgo, uno dei partecipanti allo studio si è presentato a Kunath e gli ha comunicato che aveva da poco ricevuto la diagnosi di Parkinson. Quello di Milne non era stato quindi un errore ma una previsione. Adesso trovare i fondi per il nuovo studio non era più complicato. 

L’obiettivo questa volta era capire quali molecole producevano l’odore avvertito da Milne, nella speranza di trovare un “biomarcatore” della malattia. Come prima cosa sono stati raccolti i campioni di sebo da malati di Parkinson e altri soggetti in 25 strutture sanitarie diverse in Inghilterra e Scozia, tamponando la schiena dei pazienti con una garza.

All’Università di Manchester i tamponi, prelevati dalla schiena dei soggetti, sono stati analizzati tramite un gascromatografo-spettrometro di massa (noto con l’acronimo inglese gc-ms), in grado di dividere la sostanza nelle molecole che la costituiscono. Grazie a un tubo collegato alla macchina, Milne ha potuto annusare gli oltre 200 frammenti di molecole e indicare quali avevano l’odore che associava alla malattia. Alla fine ne sono stati identificati tre: l’eicosano e l’ottadecanolo, note per avere un odore ceroso, e l’acido ippurico, a cui non viene solitamente attribuito alcun odore. Tutte queste molecole erano presenti maggiormente nel sebo dei pazienti affetti da Parkinson.

Dopo aver trovato l’origine dell’odore associato al Parkinson rimaneva aperta la questione della provenienza delle molecole. In un altro studio del 2021, Barran e i suoi colleghi hanno trovato cambiamenti in due importanti reazioni chimiche che avvengono all’interno delle cellule, note come vie metaboliche, che riguardavano rispettivamente i mitocondri e i lisosomi. Problemi alle funzioni mitocondriale e lisosomiali delle cellule cerebrali sono caratteristiche note della malattia di Parkinson. Le molecole identificate da Milne potevano essere quindi i sottoprodotti di questi cambiamenti, affiorati in qualche modo sulla pelle.

Si trattava di un altro passo nella ricerca di un nuovo biomarcatore del Parkinson, meta ambita di molti ricercatori. Ma c’era ancora l’incognita di come testare l’aspetto più rilevante delle abilità di Milne, ossia la capacità di fare diagnosi con anni di anticipo.

La difficoltà era quella di trovare un modo per reclutare soggetti che stavano attraversando le prime fasi della malattia senza aver ancora ricevuto una diagnosi.

La soluzione l’ha proposta il dottor Werner Poewe, neurologo dell’Università di medicina di Innsbruck, che si stava occupando del disturbo comportamentale del sonno Rem idiopatico (iRbd), una condizione che porta chi ne è affetto ad agire come se si trovasse in un sogno. La particolarità dell’iRbd è che quasi l’80 per cento di chi ne è affetto riceve una diagnosi di Parkinson entro dieci anni. Una possibilità per mettere ancora alla prova le capacità olfattive di Joy, questa volta anche su soggetti a rischio ma che non hanno ancora ricevuto una diagnosi.

Per lo studio pilota è stato reclutato un gruppo di pazienti affetti da iRbd, un altro di malati di Parkinson e un terzo di persone sane. Nel sebo dei soggetti con iRbd Milne ha riconosciuto un odore simile a quello associato al Parkinson ma più «dolce», che richiamava quello dei biscotti. Tramite l’analisi con il gc-ms è stato possibile distinguere con precisione le molecole del sebo dei tre gruppi. Quello dei soggetti con iRbd aveva molte caratteristiche di quello di chi aveva il Parkinson ma a livelli ridotti. Secondo i ricercatori, il disturbo potrebbe quindi rappresentare una tappa intermedia verso la malattia. I risultati dello studio, pubblicati per il momento solo come preprint, dovranno essere confermati per stabilire con quanta certezza i “campanelli d’allarme” trovati dai ricercatori precedano una diagnosi di Parkinson e con quanto preavviso. Lo scopo è di realizzare un test semplice da somministrare e poi arrivare a fare uno screening su larga scala. Barran, assieme all’Università di Manchester, ha anche creato un’azienda per commercializzare questi test. Non mancano però i dubbi.

Anticipare il morbo?
È giusto informare una persona sana che in futuro contrarrà una malattia attualmente inguaribile? Di contro, l’eventualità di una diagnosi tempestiva potrebbe aprire la porta a terapie in grado di fermare il decorso della malattia. Attualmente il Parkinson viene diagnosticato tardi, quando la maggior parte dei neuroni che finiranno per essere distrutti nel corso della malattia è già stata uccisa. Secondo gli esperti invece, il prerequisito di una terapia capace di cambiare il corso della malattia è che questa sia somministrata presto. La ricerca di un biomarcatore, tramite il quale prevedere in tempo l’insorgere del Parkinson, è diventato quindi una sorta di “Sacro Graal”, anche se finora non ha prodotto molti risultati. Uno dei pochi test promettenti è il αSyn-SAA, che prevede una puntura lombare. Una soluzione più semplice e meno invasiva potrebbe invece spalancare nuovi scenari.

La speranza è di aprire una finestra temporale in cui intervenire per evitare alcune delle conseguenze peggiori della malattia, che non si limitano ai sintomi più conosciuti, come il tremore, la rigidità e il rallentamento motorio. Ma comprendono anche quelli psichici, comportamentali e cognitivi che sono i primi a insorgere e, come raccontato da Joy Milne, sono di gran lunga i più difficili da gestire per chi è vicino ai malati.

Nel caso di Les questi sintomi sono comparsi più di dieci anni prima della diagnosi. All’inizio, oltre al cambiamento nell’odore, Joy Milne ha notato un progressivo peggioramento dell’umore del marito. Les stava diventando sempre più sgradevole e meno «sensibile». Si arrabbiava con i figli e smetteva di aiutare nelle faccende di casa. A cena con altre persone si comportava in maniera eccessiva per poi crollare dalla stanchezza una volta tornato a casa. Aveva anche iniziato a mimare il contenuto dei suoi sogni. Una volta ha provocato dei lividi alla moglie, dicendo poi che stava sognando di aver fermato un ladro.

Quando ha iniziato a parlare di un’ombra che lo seguiva, di «un’altra persona» al suo fianco, Joy lo ha convinto a farsi vedere da un medico, nell’ipotesi che si trattasse di un tumore al cervello. I controlli hanno invece dato un esito diverso.

Dopo la diagnosi, Les ha iniziato la terapia a base di levodopa per trattare i sintomi del Parkinson. Successivamente il farmaco, che diventa progressivamente meno efficace, è stato affiancato da un dopamino agonista, il ropinirolo, che ha contribuito a peggiorare i problemi comportamentali. Come accertato più recentemente, i dopamino agonisti possono causare problemi nel controllo degli impulsi, che si manifestano ad esempio come dipendenza dal gioco d’azzardo. Nel caso di Les hanno interessato la sfera sessuale. Il medico ha iniziato ad accumulare materiale pornografico e a comportarsi in maniera inappropriata al punto che la moglie si preoccupava dal lasciarlo solo con i nipoti. Secondo Joy, questi sintomi della malattia sono tanto pesanti per i pazienti e i familiari quanto sottovalutati dalla professione medica. «Dici cosa accade a medici e infermieri e loro non ti credono», ha detto al New York Times Magazine Joy Milne, che parallelamente alla sua attività di ricerca ha prestato la sua voce a campagne di sensibilizzazione sui problemi dei malati di Parkinson e in particolare dei pazienti in cui la malattia insorge prima dei 50 anni.

«Mi ponevo la domanda: cosa sarebbe successo se a Les fosse stata diagnosticata la malattia quando aveva 33 anni?», ha detto alla conferenza Tedx dell’anno scorso. «Se ci fossimo resi conto dei cambiamenti che stavano avvenendo avremmo potuto aiutarlo. Invece non sapevamo cosa gli stava accadendo».

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