“I numeri non devono arrivare alla stampa”: cosa c’è scritto nei verbali del Cts resi pubblici oggi
Il 24 febbraio, tre giorni giorni dopo l’esplosione del primo caso autoctono di Coronavirus in Italia, il Comitato tecnico scientifico (Cts) raccomandava che i dati relativi alla diffusione del contagio nel Paese non arrivassero alla stampa e suggeriva per questo la “massima cautela”. È quanto emerge da uno dei quasi 100 verbali del Cts pubblicati oggi sul sito del dipartimento della Protezione Civile dopo la diffusione dei primi cinque il 7 agosto scorso, arrivata in seguito alla battaglia legale della Fondazione Einaudi e alle reiterate richieste della società civile e della stampa. I documenti mostrano il contenuto delle riunioni del Comitato tecnico scientifico, in cui gli esperti esprimevano pareri sull’evoluzione dell’epidemia da Covid-19 in Italia e consigliavano l’esecutivo sulle scelte da prendere per limitare il contagio, dalle norme di sicurezza a scuola – di cui si discuteva già il 7 febbraio – fino alla raccomandazione di istituire una zona rossa anche ad Alzano Lombardo e Nembro, che, come rivelato anche dall’inchiesta in più parti di TPI, non fu mai ascoltata.
Dopo pochi giorni dall’istituzione delle prime zone rosse nei 10 comuni del Lodigiano, gli scienziati si ponevano il problema dell’eventuale divulgazione dei verbali delle loro riunioni. In particolare, è sull’elaborazione del “Piano di organizzazione di risposta dell’Italia in caso di epidemia” che gli esperti del Cts sottolineavano la necessità di decidere “quale livello di riservatezza dedicargli”. “Vi è consenso nel raccomandare la massima cautela nella diffusione del documento onde evitare che i numeri arrivino alla stampa”, si legge nel verbale n.8 del 24 febbraio relativo al Piano di risposta all’epidemia. Da lì la battaglia legale condotta dalla Fondazione Einaudi e da noi di TPI affinché i verbali delle riunioni che hanno supportato le principali decisioni adottate dell’esecutivo nel corso dell’epidemia fossero resi pubblici.
Dall’analisi dei documenti emerge che dopo i primi casi di Coronavirus rilevati nei primi focolai di Codogno e Vo’ Euganeo, nessuno, nemmeno il Cts, aveva contezza di quanto stesse succedendo in Lombardia, poi diventata lazzaretto d’Italia, nonostante i segnali di una diffusione del contagio fuori traccia stessero già arrivando dall’estero. Nel verbale n. 9 del 26 febbraio, si legge che che il Comitato tecnico scientifico non riteneva ci fossero le condizioni per l’estensione delle restrizioni al movimento delle persone a nuove aree, oltre ai 10 Comuni indicati come zona rossa dal Dpcm del 23 febbraio, nonostante “i casi positivi al Coronavirus in italiani che provengono da aree della Regione Lombardia diverse dalla zona ‘rossa’ e che al momento si trovano in Paesi esteri dove è stata riscontrata la loro positività al Coronavirus”. Gli scienziati, quindi, ritenevano non fosse necessario delimitare ulteriori aree della Regione Lombardia in aggiunta ai 10 comuni già identificati. Eppure già il 23 febbraio ad Alzano Lombardo erano esplosi i primi casi, all’Ospedale “Pesenti Fenaroli” e, come documentato da noi di TPI, il direttore del nosocomio il 25 febbraio aveva inviato una disperata lettera alla direzione generale affinché il Pronto Soccorso venisse chiuso.
“Il Cts rinnova con fermezza la necessità di una norma di salvaguardia che tuteli l’operato dei membri del Cts rappresentando che, in mancanza di essa, il Cts rassegnerà in maniera unitaria il proprio mandato al sig. ministro della Salute ed al Capo del dipartimento della Protezione Civile”, è quanto emerge dal verbale del 15 marzo, in cui i membri del Comitato reiteravano la richiesta al ministro della Salute Roberto Speranza di provvedere a una norma che salvaguardasse gli esperti in merito alle raccomandazioni prese in situazione di emergenza. “Nello specifico – scrivono gli esperti nel verbale – si richiede un immediato riscontro di attivazione nel merito e la formalizzazione del provvedimento”.
“Non vi e’ evidenza per raccomandare indiscriminatamente ai lavoratori di indossare le mascherine. Anzi. Al contrario e’ stringentemente raccomandato solo per gli operatori sanitari e per chi ha sintomi respiratori”, si legge nel verbale del 13 marzo, in cui gli scienziati sottolineavano che il miglior modo per ridurre il rischio d’infezione sui posti di lavoro era “garantire il distanziamento sociale” e una adeguata igienizzazione dei locali. Sulle mascherine, gli scienziati ne raccomandavano l’uso solo quando la distanza di sicurezza non poteva essere adeguatamente rispettata. “Per le rimanenti attività quotidiane, non vi sono evidenze scientifiche per raccomandare l’uso delle mascherine e, ancor meno, dei DPI”, si legge nel verbale n.26
I documenti del Cts sono di fondamentale rilevanza anche e soprattutto al fine di chiarire la questione della mancata istituzione di una zona rossa nei comuni della bergamasca di Alzano Lombardo e Nembro. Come già noto dalla pubblicazione dello stralcio del verbale della riunione del 3 marzo arrivata lo scorso 8 agosto in seguito alla richiesta del consigliere di Regione Lombardia Niccolò Carretta (Azione) e da quanto emerso dalle dichiarazioni rese dall’Iss e dallo stesso Cts, il comitato aveva raccomandato la chiusura dei due comuni nel corso di quella riunione. Nel testo integrale del documento viene confermato quanto già emerso e si fa riferimento anche alla nota dell’Iss che noi di TPI abbiamo visionato in esclusiva. “Nel tardo pomeriggio sono giunti all’Iss i dati relativi ai comuni di Alzano Lombardo e Nembro, entrambi situati in provincia di Bergamo”, si legge nel verbale. A tal proposito “è stato sentito per via telefonica l’assessore Gallera e il dg Caiazzo della Regione Lombardia, che confermano i dati relativi all’aumento nella regione e, in particolare, nei due comuni sopra menzionati”. Qui si stima che “l’R0 è sicuramente superiore a 1, il che costituisce un indicatore di alto rischio di ulteriore diffusione del contagio”.
Il Cts propone quindi di “adottare le opportune misure restrittive già adottate nei comuni della zona rossa”. Ma queste misure non furono mai adottate, ma dai verbali è ancora impossibile comprendere le ragioni che hanno spinto l’esecutivo a rimandare la decisione e a decidere, infine, per il lockdown nazionale il 9 marzo, ben cinque giorni dopo la riunione del Cts. Ai pm di Bergamo che indagano sull’inchiesta per epidemia colposa, il premier Giuseppe Conte ha dichiarato di non aver mai ricevuto il verbale del Cts del 3 marzo, ma che gli esperti lo avevano informato della nota dell’Iss su Alzano e Nembro solo il 5 marzo. Dai verbali emerge che in seguito, il 7 marzo, gli esperti proposero al governo la chiusura per zone, da un lato “le misure più rigorose” da applicare in quasi tutto il Nord Italia (Lombardia, Emilia Romagna, Venezia, Padova e Treviso, Alessandria e Asti ecc), dall’altro il resto del Paese, ma il premier Conte due giorni dopo decise per il lockdown nazionale.
La battaglia di TPI
Già mesi fa TPI aveva richiesto l’accesso ai documenti del Comitato tecnico scientifico, il cui interesse pubblico al fine di comprendere la più grave pandemia dell’ultimo secolo è sempre stato fuori discussione, inclusi quelli relativi alla settimana che va dal 1 marzo all’8 marzo, periodo cruciale per la mancata chiusura dei due comuni della Bergamasca Alzano Lombardo e Nembro, diventati poi il peggiore focolaio d’Europa, su cui noi di TPI abbiamo pubblicato un’inchiesta in più parti. Nei mesi di lockdown, in diverse conferenze stampa della Protezione civile, TPI ha chiesto più volte spiegazioni sulla mancata pubblicazione di quei verbali e raccolto le versioni contrastanti del ministero della Salute e della Protezione Civile.
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L’inchiesta di TPI sulla mancata chiusura della Val Seriana per punti: