“Turbopopulismo: per capire gli ex operai che oggi votano Lega racconto la storia di mio padre”. Il libro-intervista di Telese a Revelli
Anticipazione del libro “Turbopopulismo, la rivolta dei margini e le nuove sfide democratiche”, un dialogo sul popolismo tra Luca Telese e il politologo Marco Revelli
Oggi, giovedì 21 novembre, esce in libreria e in edicola il libro “Turbopopulismo, la rivolta dei margini e le nuove sfide democratiche”, Solferino editore: un dialogo tra Luca Telese e il politologo Marco Revelli sul populismo e le sue origini. Eccone un’anticipazione.
Il primo popolo che ho incontrato nella mia vita me l’ha fatto conoscere mio padre. In forma di racconto. Era un popolo piemontese contadino, un popolo in via di estinzione, pieno di dignità e di storia.
Il secondo era un popolo industriale e me lo sono andato a cercare io, quasi senza saperlo, quando mi sono iscritto all’università e mi sono trovato nella Torino operaia dei tardi anni Sessanta dominata dalla monocultura Fiat. Era un popolo moderno e sicuro di fare la storia, ma incredibilmente prossimo alla fine. Era anche quello un popolo in via di estinzione malgrado ciò che potevamo immaginare noi, presi dalle nostre certezze ideologiche, nel pieno degli anni caldi del secondo Novecento.
Mi chiamo Marco Revelli. Sono nato nel 1947, il 3 dicembre, a Cuneo. Sono figlio di Nuto Revelli, che quando io ero piccolo non era lo scrittore consacrato oggi conosciuto, ma un ex partigiano che per campare faceva il camionista.
A Cuneo, ovviamente. Allora abitavamo in una tipica casa da dopoguerra: senza riscaldamento, senza ascensore, senza gli elettrodomestici e i comfort del tempo dei consumi. Mia madre portava su la carbonella dalla cantina con il secchio per riscaldare i locali e cucinare. Mio padre era tornato a piedi dalla Russia.
In senso letterale. Dalla campagna di Russia, da quella tragedia immane che ti racconterò attraverso i suoi ricordi, era uscito con due promozioni per merito di guerra. E con due medaglie d’argento appuntate sul petto. Tuttavia il trauma di quello che aveva vissuto lo aveva portato ad abbandonare la divisa. Era un figlio del suo tempo, figlio della generazione del Ventennio, programmata biologicamente e ideologicamente per andare a fare la guerra (in qualche modo per destino).
Mio padre aveva fatto l’Accademia militare a Modena, “allievo scelto”, primo del suo corso, nel gergo della truppa – come si diceva allora – in tutto e per tutto “un najone”. Ma tornato dall’esperienza drammatica dell’Armir, alla fine della guerra, qualcosa dentro di lui si era rotto, in modo irreversibile. Nel 1945 era il più giovane ufficiale superiore italiano (a 25 anni aveva il grado di maggiore), ma non ne poteva più dell’esercito.
Faceva parte a tutti gli effetti di quella “generazione del Littorio” che si era interamente formata nel Ventennio, all’ombra del regime, e che avrebbe avuto la biografia spezzata in due da quel “quinquennio di ferro” che va dal 1940 al 1945. Una generazione per la quale, cioè, la guerra era stata un destino segnato fin dall’infanzia, fin da quando si diventava “Balilla”.
Le mobilitazioni, le divise e le parate, i discorsi di Mussolini, la propaganda ovunque, i “Campi Dux”, l’ottundimento e lo stordimento: direi che non avevano conosciuto altro che la retorica del fascismo e della guerra costretti com’erano a portare come fossero muli dei paraocchi grandi così…
Ti racconto un aneddoto: quando l’Università di Torino molti anni più tardi gli conferì una laurea honoris causa in Scienze della formazione, lavorò per giorni a un discorso a cui diede un titolo secco, alla latina, quasi sentenziale: “Dell’ignoranza”. Parlava della propria ignoranza, e di quella degli altri come lui, della sua generazione.
Sì, senza appello. Solo che non faceva questa riflessione dall’esterno, non si costituiva parte giudicante come un osservatore libero da colpe: parlava prima di tutto di se stesso, della propria, troppo a lungo condivisa, ignoranza. E della sua crisi di coscienza. Per questo non voleva che noi, i figli, rischiassimo di ripetere (e subire) la stessa esperienza dei padri.
Sì, fascista come quasi tutti i suoi coetanei. Raccontava di come era cresciuto nella zona grigia della dittatura, seguendo la corrente, senza mai avere la forza, o forse meglio la consapevolezza per distaccarsi da quei valori fasulli. La prima cosa che raccontava era il peso delle famiglie. I genitori della media borghesia italiana che avevano assecondato la fascistizzazione dei loro figli per paura di farne dei “diversi”, degli “emarginati”.
Il regime aveva costruito una cultura avvolgente che aveva il suo punto di forza sociale nella difficoltà anche solo di immaginare di poterne stare “fuori”. Per quelli come lui, che, cresciuti in questo clima, non avevano conosciuto la politica, il mondo fuori non esisteva. L’unico mondo possibile era quello, che a un ragazzo offriva seduzioni potenti, a cominciare dallo sport, nel quale mio padre eccelleva (ha conservato a lungo, fino agli anni in cui io frequentavo il liceo, il record regionale di lancio del disco).
Si era poi formato in grigioverde, sostituendo (o sovrapponendo) alla formazione fascista i va lori militari. E forse, per paradosso, era stato proprio questo anticorpo (inoculatogli all’Accademia) che lo aveva salvato e risvegliato. Appena giunto al battaglione si era presentato volontario per partire subito per il fronte russo, anche a costo di passare dalla divisione Cuneense, che sarebbe partita un po’ più tardi e che sarebbe rimasta quasi del tutto falcidiata, alla Tridentina di cui una parte almeno riuscì a sfuggire all’accerchiamento dei russi.
Perché – accipicchia – lui voleva farla davvero la guerra. Voleva dare il suo contributo. Non sopportava l’idea di lasciarla fare agli altri. “Sono partito per la Russia perché ritenevo che, venuta la guerra, un ufficiale effettivo avesse l’obbligo morale e professionale di parteciparvi”.
Lo scriverà nella Prefazione al suo diario di Russia pubblicato col titolo “Mai tardi”. E sottolineerà, in una conversazione qualche anno prima di morire, che lui quella guerra “voleva vincerla”. Il che ci dà l’idea di come una sorta di senso di predestinazione, e la retorica patriottarda e militarista, lo avessero reso cieco e sordo di fronte a ogni segnale premonitore.
Le prime disfatte militari c’erano già state. Le prime prove della catastrofica impreparazione dell’esercito.
Nel suo battaglione, i veterani raccontavano a Nuto cosa era accaduto sui fronti di guerra che lui non aveva potuto conoscere: parlo di gente che aveva fatto il Fronte occidentale, l’Albania, la Grecia. Gente stanca di guerra, che aveva già preso coscienza dell’inganno. Uomini che avevano già visto tutto.
Avevano scoperto la cartapesta sotto la facciata scintillante della propaganda: le armi non sparavano, le scarpe con le suole di cartone pressato erano dipinte per sembrare cuoio ma si scioglievano nel fango delle colline albanesi o sotto il caldo dei deserti.
Esatto. L’altra faccia del regime. Gli industriali complici che si erano arricchiti sulle forniture belliche. Questa percezione dell’inganno dopo diventerà un motore potente della presa di coscienza, il punto di scaturigine della rivolta civile. Ma non ancora nel 1941 e nel 1942. Non per il Nuto che si prepara alla guerra.
Due anni di formazione militare dentro un’istituzione totale come l’Accademia pesano come una palla di piombo che lo teneva legato a quella storia e a quella mentalità come una catena.
Perché poco dopo tutto questo deflagra improvvisamente come un’epifania che, proprio per questo, è sorprendentemente repentina.
Già durante il viaggio che lo porta al fronte si manifestano le prime crepe.
Il Novecento danzava nella stanzetta al quarto piano di via Felice Cavallotti. Di fronte alla forza dei racconti di mio padre, ho sempre cercato un termine di paragone altrettanto vivido. È in qualche modo la storia di “Cuore di tenebra”, nella prosa potente di Joseph Conrad. Sono le immagini di Apocalypse Now nella regia visionaria di Martin Scorsese. Sono gli occhi di uno sguardo giovane che si aprono davanti all’abisso.
Prima di tutto con la scoperta dell’Olocausto. O meglio, degli ebrei e del loro destino sotto il Terzo Reich.
Oh, no. Mio padre aveva intravisto i segni della deportazione in Polonia. Quando la tradotta si fermava era impossibile non vedere accanto ai binari quei corpi macilenti, vecchi, donne, bambini, coperti di stracci, con la stella gialla cucita sul petto.
Le SS impettite che li sorvegliavano e li trattavano come bestie da macello: gli indizi, i sintomi dell’industria dello sterminio che funzionava a pieno regime.
Era il luglio 1942. Lui li guardava e cercava di capire. Ci raccontava che, mentre i suoi colleghi, ufficiali come lui, giocavano a scopa o a ramino per ingannare la noia del viaggio, lui passava ore a osservare quella gente con le casacche a strisce attraverso i finestrini. A interrogarsi sul significato di quello che vedeva. Sulla natura di quell’alleato a fianco del quale lo mandavano a combattere.
E dentro la sua testa, nel suo diario, inizia a prendere corpo e forza il grande rifiuto, un pensiero dominante: “Questa non è la mia guerra. Questa non è la mia guerra!”.
Era una storia che riecheggiava di continuo, nella mia casa, come un alfabeto primario. Nei racconti diretti, nelle conversazioni di mio padre con i suoi amici e i suoi ex compagni. Con mia madre. Con i reduci. Era una musica che conoscevo a memoria, nota per nota. Sapevo tante piccole grandi cose, dettagli. Per esempio che il corpo di spedizione alpino era partito il 21 luglio 1942 dalla stazione di Rivoli. E dal treno si levavano canti. Canti tristi, di contadini costretti a diventare soldati: “Il lutto degli alpini che vanno in guerra, / la meglio gioventù va sotto terra…”.
Vero. Ma era come se tutto ciò con cui mio padre e i suoi compagni avevano convissuto prima, senza volerlo vedere, si innestasse nella durezza spietata del racconto che stavano vivendo. Facendo sorgere domande fino ad allora sopite.
Non era una questione da poco. E questa domanda era quella che disarticolava l’apparato delle certezze più consolidate. “I nostri alleati”, il popolo fratello e ariano: i tedeschi. E ancora più di loro: i nazisti. Ovvero le SS onnipresenti e visibili ovunque con le loro divise nere e lucide, i loro simboli di morte appuntati sui colletti e sulle mostrine. Un militare abituato al comando avvertiva questo codice di violenza immediatamente, senza bisogno di parole, anche da un gesto. Anche solo vedendoli scortare un convoglio. Anche attraverso il filtro di un vetro da un vagone. E questo Nuto lo scrive, lo mette nero su bianco, già durante quel viaggio all’inferno.
A un certo punto mentre viaggiavamo tra la Polonia e l’Ucraina, ci confessò che una volta, passando tra le carcasse di convogli distrutti e case bruciate, gli venne una sorta di tentazione solo accarezzata, una specie di sogno a occhi aperti: il dubbio di disertare. Di spogliarsi della divisa. È un trauma enorme. Un sacrilegio, per un ufficiale in servizio permanente effettivo. Il mondo che si rovescia…
Come dicevo, appena accarezzato nella sua mente. Per i soldati era diverso. Cantavano con rabbia la “canzone del disertore”, come una sfida alle gerarchie. Bestemmiavano la guerra. Odiavano i tedeschi. I “tugnín”, come li chiamavano in piemontese, residuo linguistico della Prima guerra mondiale. E poi li avevano già visti all’opera nelle precedenti campagne, soprattutto nei Balcani. È il segreto che era stato velato, e poi d’improvviso svelato…
E qui di nuovo il suo racconto era fitto di immagini che arrivano come la sequenza di un film. È una carrellata di orrori in movimento. Isbe che bruciavano nella notte. Partigiani impiccati alle croci di legno dopo essere stati torturati per apprendere i segreti e i nomi dei compagni.
Arriva e dopo pochi mesi si ritrova nel tracollo del corpo di spedizione italiano. La sconfitta giunge subito dopo il battesimo del fuoco.
Nel gennaio 1943 c’è la potentissima controffensiva russa dopo la battaglia di Stalingrado. Gli italiani vengono chiusi nella sacca. Un accerchiamento che corre per 159 chilometri di fronte. Tutta la Cuneense, tutta la Tridentina e tutta la Julia vengono prese nella tenaglia dell’Armata rossa, insieme alla divisione di fanteria Vicenza.
No. Lui era nel battaglione Tirano, che scampa alla catastrofe militare riuscendo a sfondare la sacca russa a Nikolaevka. Ma è una strana salvazione: sono liberi e distrutti, senza mezzi per poter essere trasportati. L’80 per cento dei loro compagni è morto o prigioniero. Qui inizia un viaggio di ritorno che è come una terrificante odissea: altre centinaia di chilometri. Da fare a piedi. Ancora nel gelo e nel nulla. Per la prima ferrovia disponibile per il rimpatrio.
Quella del giorno in cui escono dalla sacca. E in cui lo sconcerto si trasforma in odio. Mio padre lo raccontava così: “Noi eravamo piegati, le divise a brandelli, feriti e sconvolti. Da un lato c’erano i tedeschi che ci fotografano e ridevano. Dall’altro le donne russe che ci guardavano e piangevano”.
Non era folle come può sembrare adesso. Avevano davanti a loro altri tre anni di guerra.
Vero, ma nessuno sapeva nulla. I tedeschi nel 1942 non avevano avuto la percezione della disfatta, erano ancora un esercito, una macchina bellica efficiente. Si ritiravano sui loro mezzi meccanici, con la linea dei rifornimenti ancora relativamente integra.
È il ricordo dell’umiliazione che aveva segnato i superstiti. A nulla era servito combattere con valore, sacrificarsi. Loro avevano i piedi avvolti nella paglia e nelle coperte, per impedire il congelamento. Avevano dovuto buttarli via quegli scarponi. Le dita si sgretolavano, diventavano nere, andavano amputate. Mio padre aveva la pleurite. Erano affamati, coperti di cenci: una colonna di straccioni che sfilava davanti ai signori della guerra.
Per un senso innato di umanità di quella popolazione contadina e in particolare delle donne. Perché vedendoli pensavano ai loro figli, molti dei quali magari erano partigiani o soldati nell’Armata rossa, ma non importa. Perché in quell’inferno il bene e il male si erano riconosciuti e divisi.
Non era la sua vocazione. Era stato il suo destino. Era l’urgenza del racconto, la rivolta morale che prevaleva su qualunque cosa.
Quando gli chiedevano: “Come si qualificherebbe lei? Antropologo, storico, scrittore, saggista?”. La sua risposta era sempre la stessa.
“Sono un geometra”. Ma non era un vezzo. Era la sua verità, il suo titolo di studio. Nuto Revelli ha dovuto raccontare perché è stato tirato per i capelli dalla storia.
L’8 settembre. Aveva visto i generali piangere, e scappare, per la disperazione. Li aveva visti togliersi la divisa, strapparsi i gradi dalle spalline e fuggire in borghese dopo aver abbandonato i soldati al loro destino.
Quando i tedeschi stavano per entrare in Cuneo era corso in caserma, a implorare i suoi superiori di resistere. Di sparare contro quel nuovo nemico. Li aveva trovati senza i gradi, uno stava imbarcando su un camion i suoi vasetti di gerani, per portarseli a casa… Il suo colonnello gli urlò di “non rompere i coglioni”.
Decise, insieme ad altri come lui, che se si voleva resistere si doveva fare da sé. Da ribelli. Questa era l’ultima rottura, quella che lo riconciliava con il suo codice e lo aiutava a capire. Era la parola più potente e nitida che un soldato, che un giovane, potesse sillabare e comprendere.
Era il Tradimento. Lo stesso che aveva misurato nella piana di Nikolaevka, quando nel collasso degli alti comandi e nell’abbandono da parte di Roma, era toccato agli uomini di truppa come lui, i suoi colleghi di battaglione, i suoi soldati, fare la scelta.
Di fronte al tradimento aveva scelto di combattere. E, tornato in Italia, era diventato partigiano.
Era una paternità pesante da portarsi dietro, la mia. Perché quel vissuto di mio padre era una cosa spessa, vogliamo dire la parola “Ingombrante”.
Sì. E te lo posso raccontare anche solo con un aneddoto. Io facevo la terza elementare. Quando ero bambino io, in terza si passava dalla maestra al maestro. Era un percorso didattico che aveva un senso preciso. Si abbandonava il modello femminile materno per passare a quello maschile, più severo (in qualche modo alla “legge del padre”, direbbero gli psicologi).
Che dopo pochi giorni io ritorno a casa e chiedo a mia madre: “Papà era un ladro?”.
Ovviamente mi dice: “Marco, sei impazzito?”. Io le rispondo: “Ma il maestro ha detto che i partigiani rubavano le mucche ai contadini”.
Subito non disse niente. Nel pomeriggio andò in libreria a comprare una copia delle “Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana”. Nel frontespizio del libro scrisse, come dedica: “Perché sappia come sapevano morire i partigiani”. Poi me lo diede e mi disse di portarlo il giorno dopo al mio maestro. Nient’altro.
Dentro di me fu il primo grande conflitto della mia vita.
Pensavo che avrei dovuto dare quel libro al maestro, e che questo sarebbe stato un gesto di sfida. Mi chiedevo, con una certa preoccupazione, che conseguenze avrebbe avuto. Sarei caduto in disgrazia? Ma non era solo questo.
Soffrivo perché mi sembrava di essere davanti a un dilemma difficile: dovevo seguire mio padre, i partigiani, sposare la loro causa? Oppure dovevo credere al mio maestro, alla scuola? È stato il primo, grande “conflitto di autorità” della mia vita.
Grazie a dio con una caporetto del maestro. Il conflitto che immaginavo non si verificò, perché il giorno dopo il maestro si dissolse. Mi aspettavo che si sarebbe arrabbiato, e invece di fronte al libro, che prese come se fosse un tizzone arroventato, si mise a balbettare: “Ma io non volevo dire… non era questo che io…”. Subito dopo trovò il modo di fare una filippica riparatoria, dipingendo i partigiani, che il giorno prima nel suo racconto erano ladri, come degli eroi.
Che il mio maestro era un poveraccio. Da un lato i partigiani, e il rigore di mio padre, il suo gesto senza nemmeno bisogno di parole. Dall’altro la balbuzie ridicola di questo italiano piccolo piccolo: “Mio papà le manda questo”. E lui che era impallidito e si era appiattito a terra: “Forse non hai capito, erano degli eroi, per carità!”. Ma io avevo capito benissimo.
Faceva il camionista.
Perché dopo la smobilitazione questo aveva trovato da fare. D’altra parte aveva concepito un vero e proprio rigetto per tutto quanto gli ricordasse la vita militare, per quella cultura della guerra che aveva segnato la sua “vita precedente”, per quella sua prima identità, di ufficiale, di militare, di soldato.
Ho in mente una frase che dice più di ogni altra cosa. Mio padre raccontava questo disagio con una immagine quasi violenta: “Quando vedevo qualcuno in divisa mi veniva voglia di saltargli addosso per strappargliela”. C’erano stati i morti, il sangue, la catastrofe…
Esatto. La guerra di Liberazione l’aveva combattuta con passione. Nel febbraio 1944 era entrato nella Banda Italia Libera, quella di Duccio Galimberti e Livio Bianco.
Dopo un po’ da questo gruppo originario di ribelli era nata la Quarta Banda e mio padre ne era diventato il comandante.
Quante volte l’ho sentito, nella mia vita! Era nato come un coro di montagna, che prendeva corpo intorno alla melodia di un vecchio canto alpino. Aveva il titolo provvisorio di Bandiera nera, ma dopo la guerra questa canzone di battaglia diventò famosa come Pietà l’è morta. “Lassù sulle montagne / bandiera nera / è mor- to un partigiano / nel far la guerra. / È morto un partigiano / nel far la guerra / la meglio gioventù / che va sottoterra”.
Sì, è vero. In quei versi era riassunta tutta la rabbia di cui abbiamo parlato. Il tradimento era diventato il punto di scaturigine di tutto.
“Che Dio maledica / chi ci ha tradito / lasciandoci sul Don / e poi è fuggito”, perché questi versi raccontavano la presa di coscienza di cui parlavamo.
Ma c’era anche il racconto di tutta la speranza che attraversava quei ventenni, e nel finale era racchiuso il senso di urgenza di quella guerra.
“Combatte il partigiano / la sua battaglia / tedeschi e fascisti / fuori d’Italia! / Tedeschi e fascisti / fuori d’Italia / gridiamo a tutta forza / pietà l’è morta!”.
Quest’ultima strofa, ripeteva sempre quando era in coro con altri, “va cantata con rabbia!”.
A un prezzo altissimo. Perdendo compagni carissimi. Arrivando a inseguire i tedeschi addirittura in Francia. I segni di questa battaglia mio padre se li porterà addosso per tutta la vita quando, dopo il settembre 1944, ferito al viso, sarà costretto a molte operazioni di chirurgia plastica.
Si sposa con mia madre nel maggio 1945. È un uomo libero. Però – come si diceva allora – deve portare a casa il pane per poter vivere.
Questo significava che ogni giorno si alzava alle quattro del mattino e andava a portare un camion da Cuneo a Torino, e viceversa, trasportando materiali metallici. Ruderi, frammenti, rottami, pezzi di motore, putrelle, lamiere. Di tutto. Nuto per campare fa questo, sotto padrone, finché non riesce a mettersi in proprio.
Quando mio padre riesce a mettere da parte i soldi per affittare un magazzino alla periferia di Cuneo. Arrivata al suo assetto ideale, di lì a poco, la piccola impresa conterà un magazziniere, due manovali e una segretaria. Quel magazzino oggi ci sembrerebbe una discarica di ferramenta, ma all’epoca, per i miei occhi di bambino, era il regno incantato dei giochi più belli. E poi… si compiva l’ultima magia.
Messi da parte i guantoni da lavoro e gli abiti sporchi di polvere e di pulviscolo rugginoso, ogni giorno, con grande e meticolosa regolarità, alla sera mio padre, come rispondendo a una chiamata, si metteva a scrivere.
Ma figurarsi. Scriveva mosso – diremmo oggi – da una condizione di necessità. Il primo libro lo pubblica con un piccolo editore cuneese, Panfilo, e suscita subito polemiche.
Che poi era il motto del suo battaglione. Il sottotitolo è “Diario di un alpino in Russia”.
Sì, solo gli ultimissimi giorni li aveva ricostruiti a memoria sulla base di alcuni appunti. Il titolo si spiegava con l’ultima frase del diario: “Mai tardi a farli fuori”.
I tedeschi, i fascisti, i gerarchi imboscati, ovviamente. Ma anche i generali ambiziosi e impreparati, tutti i responsabili di quella carneficina che, come abbiamo visto, mio padre era arrivato a odiare. Il libro appena pubblicato sollevò molte polemiche.
L’associazione degli ex alpini aveva una base di ex combattenti che condividevano quel racconto di verità e di denuncia, ma i suoi quadri dirigenti, nel 1945, erano costituiti soprattutto dai gradi elevati, le cosiddette “penne bianche”, tutti convinti del principio omertoso secondo cui “un buon soldato non deve raccontare quello che ha vissuto”. Ai civili, ovviamente.
Sì, è subito polemica. Con argomentazioni che oggi sembrerebbero anche solo difficili da spiegare a una classe di ragazzi. Ma che all’epoca ci erano chiarissime.
E soprattutto perché qui iniziò il lavoro più importante della vita di mio padre: quelle vittime erano una ferita terribile, e aperta, nella società italiana. Per le famiglie, per le madri e i padri che non avevano visto nemmeno i corpi dei loro figli.
Quasi il senso di un dovere. Di un debito da onorare. E persino una sorta di lavoro di squadra. Nella nostra casetta di Cuneo la scrittura diventa una funzione quotidiana, silenziosa. Lui scrive a mano e lei, mia madre, ribatte i testi a macchina. Il che all’inizio mi confonde le idee.
Pensa che a scuola andavo a raccontare: “Lo sapete che mia mamma sta scrivendo un libro sui partigiani?”.
No, figuriamoci, con quei diritti d’autore non si campava. Lo stipendio lo garantisce il magazzino dei rottami. A cui le cedole aggiungono, se così si può dire, una sottile spolverata di generi voluttuari.
Sì, parzialmente. Molto parzialmente. Non sono più un bambino, e a metà degli anni Sessanta incomincio a seguirlo nel periodo in cui lui inizia a raccogliere prima le testimonianze de “La strada del Davai” (i reduci dalla prigionia in Russia) poi quelle de “Il mondo dei vinti” e de “L’anello forte”. Duecentosettanta interviste registrate e stenografate. Un lavoro immane. Una odissea.
Infatti i punti chiave di questa mia iniziazione sono due. La prima cosa è che acquisisco la coscienza che esiste un popolo dolente, ferito, carico di dolore.
Sono gli abitanti delle valli che frequento, sono uomini che magari conosco, anche solo di vista. Sono gli ultimi eredi di una antichissima civiltà contadina piemontese, ma anche in qualche modo universale, simile sulle Alpi come sull’Appennino o in Macedonia, in Albania, in Ucraina…
Non so ancora come, ma mio padre questo popolo riesce a farlo parlare. E io, ascoltandolo, vedendolo al lavoro capisco cosa sono un popolo, una cultura, una identità.
Capisco anche – e me lo ricorderò sempre – quanto male siano capaci di fare i leader che possiamo chiamare fin da allora “populisti” a quel popolo che evocano retoricamente e che regolarmente sacrificano al proprio smisurato “Io”…
Sono le parole dei morti. Anche loro, una parte di quel “popolo” tradito. Le parole dei morti che riprendono vita. Sono le carte arrivate dall’oltretomba, le scritture di chi non è tornato. Sono i militi ignoti che riacquistano identità e vita davanti ai nostri occhi. E che non parlano di Patria e di Guerra ma domandano del vitello o del raccolto, chiedono di spedirgli calze di lana e pane.
Una lunghissima lista di figli, mariti, fratelli, ancora dati per “dispersi” dalla ipocrita burocrazia della guerra con le madri che all’infinito ne aspettavano il ritorno.
Due risposte. Perché sulla guerra si mente sempre. E poi perché serviva alla propaganda anticomunista. Il mito dei prigionieri oltrecortina alimentava il rancore verso l’Unione Sovietica. E rendeva possibile occultare il grande tradimento, l’impreparazione, la profondità di quella disfatta. Un cerchio propagandistico perfetto in cui ti sollevavi da una responsabilità inventando una colpa.
Erano morti. Morti. Nel ghiaccio e nella neve. Sotto il fuoco dei cannoni e delle mitraglie. Di stenti o di tifo petecchiale nei campi di prigionia. Morti. E mio padre lo sapeva bene.
L’esserci stato, aver condiviso il dolore, essere stato uno di loro era ciò che gli permetteva di connettersi a quel popolo. Era ciò che lo trasformava in un medium tra questi italiani muti e la società in cui vivevano. Mio padre entra dentro questo gigantesco bacino di dolore che c’era nelle nostre valli. Un esercito di diecimila persone – la divisione Cuneense – che si era dissolto nel nulla, e ne esce recuperando la memoria delle parole perdute.
Un’intera generazione montanara e contadina azzerata. E a queste madri, a questi padri, a questi fratelli e a queste sorelle mio padre chiedeva il sacrificio più grande: di consegnargli la reliquia.
E li mette insieme: è un testamento corale. Un poema struggente che arrivava dall’inverno russo.
Perché lui poteva dire: “Io questa guerra l’ho fatta”. Perché parlava la lingua di questo popolo, il dialetto piemontese contadino. E perché c’era il vincolo della fiducia: non arrivava mai in una casa contadina senza un mediatore. Senza qualcuno che garantisse.
Era un popolo enormemente rassegnato, tradito. Uomini e donne che in guerra avevano subito le decisioni criminali dei politici e dei militari come in tempi di pace si subiscono la grandine e la valanga. Questo popolo era stato lasciato spaventosamente ai margini.
Ancora nel 1946, in nome di un vincolo di lealtà antica, avevano votato per il re e per la monarchia, perché le cose non sono mai semplici e lineari. E però si portavano dentro questo lutto epocale.
È un’espressione che mi convince.
A Cuneo di comunisti ce n’erano pochi. Rare fabbriche e niente classe operaia. Per me i comunisti a Cuneo erano Gastaldi.
No. Gastaldi era l’addetto dell’azienda del gas che passava a controllare i contatori nelle case. Onesto, pulito, gentile e sobrio, con la parte superiore della tuta blu quasi come una divisa. Il figlio aveva vinto la borsa di studio alla Normale di Pisa. Era uno scrupoloso lavoratore dipendente, un Operaio, faceva un lavoro che lo portava a contatto con la gente, ma allo stesso tempo aveva questa forza interiore, l’orgoglio di una formazione che lo emancipava dalla sua condizione sociale.
Era un colto che leggeva libri e discuteva di tutto, e che aveva il figlio intelligente e fenomeno. Poi, certo, c’erano gli ex partigiani della provincia di Cuneo, quelli di Pompeo Colajanni e del Nizza Cavalleria di Pinerolo. Ma per me il popolo comunista era lui.
Mio padre è stato consigliere comunale per tre mesi del Partito d’Azione, alla Liberazione, ma poi si è dimesso quasi subito. Anni dopo per un breve periodo è stato vicino al Partito socialista: nel 1956, quando Antonio Giolitti, in polemica con i fatti d’Ungheria, passò al Psi e gli chiese di dargli una mano. Ma poi non è stato mai più iscritto ad alcun partito.
Da ragazzo sono stato un giovane socialista. Nel 1966-1967, a vent’anni, sono un giovane lombardiano, che partecipa anche al convegno della corrente a Ostia. E poi scoppia il 1968 e tutto questo si polverizza in un nanosecondo. Ma non c’è da rimpiangere nulla. La vita di partito era miserabile, i notabili erano orribili.
Addirittura in anticipo rispetto al maggio francese. Infatti abbiamo occupato Palazzo Campana già alla fine di novembre 1967 e siamo stati sgomberati nel gennaio 1968, siamo stati buttati fuori dalla polizia, presi a calci e malmenati. In quei mesi è prima di tutto una battaglia anti-autoritaria che prende corpo tra novembre 1967 e marzo 1968.
Macché, ero un peone. Cercavo di imparare da chi aveva esperienza, guidavo i controcorsi, dormivo nel Palazzo occupato, partecipavo ai picchetti e ai volantinaggi.
Poi nel fine settimana ritornavo a Cuneo, a condividere con gli altri quel vento nuovo. Ricordo un litigio nella federazione del Psi, quando siamo andati a gridare loro: “Oggi la polizia ci ha sgomberati! Ha attentato alla libertà! E voi dove eravate? A contare le tessere!”.
Nessuna. Non hanno mosso un dito. Il mondo esplodeva, il Vietnam, Berkeley, il papa… la storia cambiava e loro erano lì a fare le tessere.
I comunisti ci fanno il filo. “Una gioventù ribelle”, dicono. Il che ovviamente è meglio di quello che avevamo sentito dal Psi.
Ci apparivano anche loro vecchi. Il Pci voleva cambiare il governo, mentre noi, nella primavera del 1968 siamo attraversati dall’utopia, vogliamo cambiare il sistema e il mondo.
Sai che non c’è mai stata una tessera? Non c’era un’iscrizione, e anche questo è rivelatore. Però sì, sono lì dentro. Con rabbia. Con l’idea che “operai e studenti uniti nella lotta…”, con i volantinaggi all’alba a Mirafiori.
Be’, sì e no. C’è stato scontro sulle ansie, sulla preoccupazione, sullo “stai attento”. Ma poi io gli sentivo dire – non a me, ovvio: “I giovani hanno ragione, questo Paese fa schifo”. E io lo rispettavo. Anche se il gioco dei ruoli faceva sì che non ce lo potessimo dire. Ma ogni corteo era una tragedia.
Molto dopo. Il 1968 non era militarizzato. Un movimento di massa libertario, spontaneo, disorganizzato, in cui c’entravano molto anche la rivoluzione sessuale, la rottura contro la polvere di una società ingessata che dopo la stagione dei consumi stava scoppiando.
I miei riferimenti erano Guido Viale e Luigi Bobbio. Allora avevano tre-quattro anni di più di me, ed erano come un secolo.
Allora esisteva la professione di andare a vendere a rate i libri della Feltrinelli o le collane della Einaudi. E io, quei libri, li divoravo: Frantz Fanon e Rosa Luxemburg negli eleganti volumi della Nuova Universale Einaudi. E il “capitolo VI inedito” de Il Capitale, quello con il noto “Frammento sulle macchine”, opera che ancora oggi considero imprescindibile…
C’era il discorso straordinario sul passaggio dal plusvalore assoluto al plusvalore relativo. Ovvero l’intuizione di come il capitalismo trasforma il modo di lavorare e insieme gli uomini che lavorano.
Pensa al salto non solo tecnologico prodotto dalla rete e dalla telematica. E alla finanziarizzazione selvaggia. C’è un nesso che per me è importante.
Esatto. E a quello che Luciano Gallino chiama “finanzcapitalismo”, con la “produzione di denaro per mezzo di denaro”… Il vecchio Marx si sarebbe divertito moltissimo a lavorare in questo tempo. Ma mentre i modelli del liberismo sono invecchiati alla velocità della luce nel tempo della globalizzazione, le chiavi di lettura di Marx si rivelano attualissime, perché lui questo tempo in cui gli spiriti animali convivono con l’età dei consumi, lo sfruttamento con gli smartphone, e i nuovi ricchi con i rider lo aveva intuito. Anche se noi all’epoca, a essere onesti, eravamo concentrati su altri temi.
L’alienazione dell’operaio della catena. La diseguaglianza. Leggevo “Operai e capitale” di Mario Tronti, e insieme Claude Lévi-Strauss di “Tristi Tropici”, e pensavo che la classe operaia avrebbe cambiato il mondo restituendo gli uomini alla loro vera natura.
Dopo piazza Fontana. Dopo quella che noi chiamammo, e con il senno di poi e con tutto quello che abbiamo scoperto non me ne pento, “la strage di Stato”.
Sì. Come posso spiegarti? Io dicevo cose del tipo: “Saragat è il primo responsabile della strage”. E lui ci restava quasi male.
Oggi credo perché amava la Repubblica che aveva contribuito a costruire. Perché avvertiva come un pericolo tutto quello che a destra o a sinistra portava fuori dal perimetro dell’arco costituzionale. Adesso capisco che aveva paura di una fuoriuscita dalla legalità.
Aveva paura. Paura di quella che Adriano Sofri molti anni dopo avrebbe chiamato “la perdita dell’innocenza”.
Cose anche terribili, ripensandoci oggi. Tipo: “Con tutto quello che hai fatto nella tua vita oggi non capisci niente!”. Ne restava ferito. Rispondeva alle mie mattane con lunghissimi silenzi punitivi.
Mah, direi un padre non facile da gestire. Non certo assente. Mi diceva: “Guarda di non farti prendere dalla dimensione totalizzante della politica”. “Non passare il tempo a ciclostilare invece che studiare e pensare a laurearti. Altrimenti non sarai mai libero di fare le tue scelte, sarai sempre ostaggio dei politici di professione”.
Nel 1972 ottengo la mia laurea in Giurisprudenza con Norberto Bobbio e Alessandro Passerin d’Entrèves. Tesi sulle “interpretazioni del fascismo da parte degli storici e dei contemporanei”.
Mi danno 110 e lode con dignità di stampa.
Non voleva essere chiamato maestro ma lo era.
Nevicava. Era l’unico presente in aula magna oltre i professori.
Solo cinque parole: “Bene. Adesso torniamo a Cuneo”.
Telefonammo a mia madre con i gettoni. Poi io mi rimisi sulla mia 500, lui con la sua auto e andammo a casa. Ma era orgoglioso di me e io lo sapevo.
Sì, bianca: “Macchina modello / attento Agnelli faremo un macello”.
Era partito dalla Topolino… ho ancora una cicatrice qui vedi? Un ragazzino gli tagliò la strada e per evitarlo andò contro un palo. Poi il percorso canonico del boom: la 600 poi la 1100 D. E infine quella con cui tornò quella sera: l’unico lusso della sua vita. L’Alfa Romeo Giulia, che non mi aveva mai fatto guidare. Come non potevo toccare le sue stilografiche…

Nel 1976 Lotta Continua si scioglie al congresso di Rimini. Che ricordi hai?
Non ci sono andato. Ho capito che era finita alle elezioni del 1976. E qui c’è un punto decisivo che ha a che fare con il nostro tema.
Quando alla lista manca il quorum mi rendo conto che avevamo parlato per otto anni di quel mitico popolo operaio e non avevamo capito che quelli che avevamo intercettato erano solo una piccola parte del vero popolo.
Sì certo, l’ho creduto. Continuo a pensare ancora adesso che un innocente che entra vivo in questura e ne esce cadavere pesa sulle coscienze di tutti quelli che restano vivi.
No, ma non per simpatia nei suoi confronti. Ero convinto che bisognasse portare fino in fondo il processo. Lo volevo condannato.
Chi possa averlo fatto non lo so. La nostra galassia si stava scomponendo, un pezzo era finito nella lotta armata. È possibile che una scheggia impazzita che veniva da Lc abbia deciso di farsi giustizia da sé, ma sono convinto che non ci sia stato un ordine militare come ha raccontato Leonardo Marino.
Tanti. Gente approdata in Prima Linea, che per me erano mostri fin da piccoli. Roberto Sandalo aveva una spiccata tendenza criminale. Ma ricordo un altro poveraccio, Marco Fagiano, che invece forse voleva solo vendicare tante ingiustizie che aveva visto o subito.
Alcuni, spesso provenienti dal mondo cattolico, che pensavano in buona fede di fare come Camilo Torres. E altri che anche se si dicevano comunisti rivoluzionari avevano la struttura psicologica del nazista. È impossibile generalizzare.
Ciò che io odiavo più di ogni altra cosa: il disprezzo per la vita umana, la voglia di emergere attraverso la capacità di fare del male.
Mah, forse quello è l’unico popolo a cui questo nome si attaglia davvero. Ritorno al lavoro di mio padre sul “mondo dei vinti”. Quel suo lavoro ha permesso di prendere la parola a una civiltà che stava scomparendo nel silenzio, e che era davvero una “civiltà”.
Voglio dire, un corpo coeso e compatto di credenze e di costumi, di modi di pensare e modi di vivere, di sistemi di relazioni e di sistemi di simboli, un immaginario coerente con le forme della riproduzione della propria esistenza collettiva, in cui gli individui non erano distinguibili dalle loro comunità. In vent’anni – in un amen, potremmo dire – quella storia è scomparsa, si è estinta.
Ma ascolta bene questo. Era la civiltà contadina che stava scomparendo, quella che sta alla radice di tutti noi, e il suo primo carnefice è stato il boom, l’industrializzazione forzata e la civiltà dei consumi. Quando noi in pianura festeggiavamo il miracolo economico quei paesi feriti dalla guerra si spopolavano. È stata la terza apocalisse culturale del XX secolo.
Chi è sopravvissuto è finito in catena di montaggio alla Fiat, alla Michelin, alla Ferrero. In montagna sono rimasti solo gli anziani a stentare e a morire.
Quella di mio padre che cercava la sua Itaca. Scappava di casa con il magnetofono a tracolla, un Grundig a batterie di cui tra l’altro era orgogliosissimo, il suo ferro del mestiere. Io – oggi me ne vergogno – lo guardavo con un sorriso un po’ di commiserazione.
Pensavo: ma cosa corri dietro a questi vecchi relitti del passato? Io sì che sono nel fiume della storia quando vado alle porte della Michelin, o della Fiat, dove si cambia davvero “lo stato di cose presente2.
Li immaginavo come il centro di tutto, gli “eredi della filosofia classica tedesca2, la classe operaia ribelle degli anni Settanta come il punto archimedico per cambiare il mondo. Non avevo capito nulla. Un popolo senza una cultura “propria” che non fosse un’identità politica sovrapposta alla loro condizione e affidata alla macchina di partito, e – oggi purtroppo lo sappiamo – senza futuro.
No. Obiettivo. I migliori di loro destinati a morire per il nerofumo della gomma, i carcinomi, i tumori del reparto verniciatura, le esalazioni dell’antirombo. Quasi tutti in procinto di finire cassintegrati, battuti, privati della loro identità nel momento in cui sono stati separati dalla loro fabbrica.
Li puoi andare a cercare, se ti fai un giro. Perché qui inizia il nostro racconto. Li puoi trovare a invecchiare sulle sedie di paglia nelle piazzole di barriera di Milano o alle Vallette. A bestemmiare contro chi li ha abbandonati così. Ad arrabbiarsi contro gli extracomunitari e gli zingari… E a votare Lega.
(Prima presentazione del libro venerdì 22 alle ore 18.00, galleria Alberto Sordi, libreria Feltrinelli)