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Le sorti del governo saranno decise nei prossimi due mesi: e l’addio di Fioramonti è solo l’inizio

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A un mese dalle elezioni in Emilia Romagna e in Calabria, è già evidente quali dinamiche interesseranno la maggioranza, a partire dal Movimento Cinque Stelle

Le sorti del governo saranno decise nei prossimi due mesi: e l’addio di Fioramonti è solo l’inizio

Le dimissioni del ministro Fioramonti, per il M5S, costituiscono molto più di una sconfitta. Fioramonti, infatti, non è solo una persona capace e perbene ma anche un simbolo irrinunciabile per una forza politica che aveva fatto del cambiamento del sistema la propria ragione di vita.

Per gestire l’esistente bastava ciò che c’era prima. Chi, il 4 marzo 2018, si è affidato a Di Maio e compagnia bella lo ha fatto perché sognava qualcosa di più e di meglio per se stesso e per i propri figli. Molto di più e molto di meglio. E Fioramonti, il ministro partito da Tor Bella Monaca, indicato come ministro fin dalla formazione del governo ombra grillino presentato alla vigilia delle elezioni, il docente universitario che ha girato il mondo e si è affermato fra la Germania e il Sudafrica, lo studioso contrario al feticcio del PIL, capace di teorizzare l’importanza di un cambio di paradigma, era davvero l’emblema del grillismo realizzato.

Quando si pensa alla parabola del Movimento 5 Stelle, si analizzano i primi meet-up e si leggono le riflessioni dei primi militanti, ci si rende conto che nessuna biografia incarna il grillismo delle origini meglio di questo romano di periferia che si è dovuto fare da solo, senza nessun aiuto e, anzi, spesso contrastato e osteggiato da un Paese incapace di valorizzare il merito e le competenze. Basta guardarlo negli occhi per rendersi conto da dove nasca la rabbia di milioni di italiani, in particolare giovani e competenti, e ora che dice addio alla compagine di governo perché non ha ottenuto i tre miliardi di investimenti che aveva chiesto per scuola, università e ricerca si comprende alla perfezione la dissoluzione di un soggetto che ha fallito la propria missione storica. Un fallimento totale, drammatico e senza possibilità d’appello, in quanto è stato lo stesso Fioramonti a mettere in discussione il ruolo di Casaleggio e della sua azienda, le ambiguità e le titubanze di Di Maio ma, soprattutto, il contatto con il potere che ha mutato in peggio buona parte dei suoi compagni d’avventura, fino a trasformarli in burocrati in tutto e per tutto simili a ciò che per anni hanno contestato con vigore.

Fioramonti, per storia, biografia e caratteristiche intellettuali, si è potuto permettere di rimanere se stesso, il che lo rende un alieno, un personaggio pericoloso, un irregolare di cui è meglio diffidare, dato che per seguirlo bisogna avere una rettitudine morale che va ben al di là della semplice onestà, cavallo di battaglia ormai abusato da parte di una forza politica in preda a una guerra civile intestina.

Il suo addio al governo è il preludio e la cartina al tornasole di ciò che accadrà nei prossimi due mesi. In sessanta giorni, difatti, si compiranno le sorti dell’esecutivo e dell’Italia. C’è il voto in Emilia Romagna e in Calabria, certo, ma non c’è dubbio che sia stato caricato di significati eccessivi, ben al di là della sua effettiva rilevanza. C’è in ballo soprattutto l’azione di governo, che può essere rilanciata o affossata definitivamente dai suoi stessi membri, Renzi e Di Maio in primis, con il Pd spettatore interessato ma non in grado di determinare alcunché. Da qui le difficoltà, anche interne, di Nicola Zingaretti che appare sempre più un segretario dimidiato, un volenteroso amministratore locale che ci mette l’anima ma fatica a scaldare le truppe, un Napoleone senza esercito che deve ancora capire se il suo cammino sia rivolto verso Austerlitz o verso Waterloo.

Zingaretti è a cavallo fra la possibilità di condurre il Pd e il centrosinistra verso la stabilità e una positiva azione di governo, forse la migliore degli ultimi dieci anni, e una disfatta di proporzioni bibliche dalla quale non potrebbe rialzarsi. L’anno che sta per iniziare ci dirà quale sarà il suo destino, tenendo presente che esso si porta dietro le sorti di un intero universo, politico e valoriale, che, se sconfitto, faticherebbe non poco a ricomporsi nei prossimi anni.

Ci attendono, dunque, sessanta giorni di fuoco, in quanto è evidente che il M5S, azionista di maggioranza di questa bizzarra compagine governativa, sia in preda a un cupio dissolvi che va ben al di là delle sorti personali di Di Maio e degli uomini a lui più vicini. Già le Sardine e, prima di loro, gli attivisti dei Fridays for Future hanno inviato un chiaro messaggio di sostituzione, come sempre accade quando in politica si genera un vuoto e qualcuno si incarica di colmarlo. Adesso è la volta di Fioramonti, che alcune voci danno in procinto di formare un proprio gruppo parlamentare, intento a puntellare il governo Conte ma, al contempo, a svuotare i 5 Stelle e condurli verso un’estinzione indolore.

Del resto, Di Maio ha commesso un errore esiziale per un aspirante leader politico e ancor più per un ministro degli Esteri: non ha capito che nella stagione del trumpismo essere “né né” non è possibile. La vaghezza programmatica e ideologica del Movimento 5 Stelle li ha portati a fallire la sfida del governo, l’appuntamento col destino per il quale avevano lavorato per anni, anche con discreti risultati, senza tuttavia rendersi conto che all’opposizione bastano un po’ di grida e qualche proclama altisonante per compattare il gruppo e andare avanti ma al governo no: occorre una visione d’insieme e questa è mancata e manca totalmente ai pentastellati.

Fioramonti, da questo punto di vista, è solo l’ultimo ad averlo capito e, probabilmente, il più abile nel teorizzare e nel realizzare il dopo, ossia un soggetto movimentista affiancato a un eventuale partito di Zingaretti (non è detto che si chiami ancora Pd) e contrapposto integralmente al duo Salvini-Meloni ma anche a un Renzi che, a sua volta, ha sbagliato gravemente analisi, non capendo che la stagione centrista di cui ha tanta nostalgia si è ormai conclusa e non è destinata a rinascere a breve.

Nei prossimi sessanta giorni, capiremo cosa ne sarà di noi. Capiremo se Conte è davvero un profilo in grado di guidare l’alleanza fra una sinistra rinnovata e un movimentismo non più indistinto e se la marcia, finora trionfale, della destra a trazione lepenista possa essere, in qualche modo, arginata. Capiremo dove andranno i giovani, come reagirà il mondo della scuola a quest’ennesima novità e come si comporterà il successore di Fioramonti, probabilmente Morra, ossia un altro che sembra non poterne più di Di Maio ma forse non è ancora pronto per dichiarare sostanzialmente finita l’esperienza pentastellata. Capiremo soprattutto, ed è l’aspetto più importante, se in primavera si tornerà alle urne, con probabile slavina sovranista, o se il mite pugliese Conte, forse un moroteo a sua insaputa, riuscirà a ritagliarsi uno spazio di rilievo nella storia delle istituzioni repubblicane. Di sicuro non uscirà di scena perché anche i vecchi teorici dell’uno vale uno, dieci anni dopo, hanno capito che non è vero.

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