Salvini, Ramy e lo ius soli: tra fascinazione e senso di colpa leghista
E così, alla fine, Matteo Salvini invitó Ramy al Viminale. Quando le atlete azzurre di colore vincono le medaglie, subito Salvini ci vuole parlare. Quando aggrediscono la ginnasta piemontese di origine africana Salvini le chiede un incontro. Quando il bambino di origine egiziana sventa l’agguato sullo scuolabus Salvini dice: “Vediamoci”. Di cosa ci vuole discutere il ministro con questi nuovi italiani, e perché mostra tanto interesse? Mistero.
Forse il senso di Matteo per i social lo spinge a modificare e ammorbidire il suo originario cattivismo anti-immigrati, per concedersi qualche melensa escursione buonista.
Sembra infatti che il leader della Lega, fiero e irriducibile nemico dello ius soli, abbia elaborato una sorta di inconfessabile senso di colpa: dopo aver speso una biografia politica a parlare degli extracomunitari “cattivi” soffre il successo è la popolarità di quelli “buoni”. Sente il bisogno di includere sul piano personale e sui social ciò che ha escluso sul piano delle leggi e dei diritti.
Il Re taumaturgo capo della nazione sana con la sua presenza fisica l’assenza normativa che rivendica con orgoglio. Esattamente come il cerimoniere del buonismo Fabio Fazio invita i due bambini “stranieri” (per modo di dire) Ramy e Adam e si dimentica di Riccardo (“l’Italiano” di questa storia. E così si arriva al caso di scuola dove tutte queste contraddizioni esplodono, quello di “Ramy”.
Nella nuova narrazione leghista Ramy, malgrado sia figlio di un egiziano, è un cittadino probo, quindi merita la “cittadinanza-premio”. Ovvero diventa l’eccezione che conferma la regola, il premio al “buon selvaggio” che si emancipa dalle tare anagrafiche della sua genìa per meriti civili.
Io non sono d’accordo con questo punto di vista, ovviamente, ma in questo caso poco conta: sono per dare lo ius soli a tutti, e considero un enorme tradimento l’atto di codardia elettoralistica con cui il centrosinistra (prima con Matteo Renzi, e poi con Paolo Gentiloni) ha fatto abortire e ha ucciso nella culla la sua riforma più importante: quella di un diritto di cittadinanza molto temperato, il cosiddetto “ius culturae”.
Qui però il problema non sono io, ma Salvini, e soprattutto quello che dice. Il ministro dell’Interno, nelle prime ore di grande emotività social, aveva quasi fatto a gara con Di Maio nella proposta del diritto di cittadinanza-premio. Poi, con il passare delle ore, la posizione si era raffreddata, fino ad alimentare i retroscena in cui si citavano i precedenti penali della famiglia (quali?) come ostacolo per qualsiasi concessione per dire che Ramy dovrebbe diventare cittadino, ma solo lui, senza la sua famiglia, “ad personam”.
Lo stesso bambino si è inserito in questa querelle, con una sorta di dichiarazione di intenti che (anche per la sua età) fanno sorridere: “Volevo vedere cosa succedeva al ministro Salvini se morivano tutti. Se adesso lo ringraziano è merito mio”. E ancora: “Di Maio è a favore della concessione della cittadinanza, Salvini no, quindi mi rivolgo a Di Maio”.
Ramy ha 14 anni, ed è fin troppo sveglio. Tuttavia poco fa Salvini ha rotto ogni indugio. Il vicepremier ha invitato al Viminale 5 ragazzi della scuola Media “Vailati” – compresi Ramy e Adam – i dodici carabinieri, che sono stati coinvolti nel dirottamento del bus. E ospite di Maurizio Costanzo ha chiesto persino l’autografo a Mamhood spiegandogli che suo figlio è un suo fan, e glissando sui suoi tweet a favore di Ultimo nelle ore roventi di Sanremo: “Nessuna polemica, qualcuno ha strumentalizzato”, ha detto il leader leghista. “Poi mio figlio è un super fan e vuole l’autografo, io sono un po’ più vecchio”.
A me, devo dire, piace di più il Caparezza che sfotte il cattivismo leghista con il sorriso del paradosso stampato in viso: “Voglio sbandierare commosso/ Un tricolore senza bianco, né rosso/ Voglio lodare il deputato esaltato/ Che vuole l’immigrato umiliato e percosso”. Nel senso che si nota molta captatio benevolentiae in questa storia della “cittadinanza ad personam”.
Preferirei politici, a destra e a sinistra, che affrontassero queste vicende con più lungimiranza di quella che occorre per un tweet. Leader che parlano agli adolescenti da statisti, e non leader che parlano a bambini che sembrano statisti, come se fossero degli adolescenti.