“La riforma Cartabia non ha migliorato la Giustizia”
“La riforma del governo Draghi manca di intervenire sui tre pilastri fondamentali: prevenzione, depenalizzazione, amnistia. Oggi, per com’è ridotto, il nostro carcere peggiora le persone anziché rieducarli”. Intervista all'avvocato Ivano Iai
Avvocato Ivano Iai, la riforma Cartabia rappresenta un passo in avanti o un arretramento del processo penale?
«È un provvedimento ampio e non riguarda soltanto il processo penale. Riguarda il sistema sanzionatorio e la giustizia riparativa, e contiene un intervento massiccio sul processo civile. Ciò premesso, mi pare che soffra le conseguenze dei più classici interventi novellistici».
Cioè?
«È una riforma che copre le falle che la giurisprudenza e la dottrina ritengono disutili, basandosi sull’esperienza dei processi penali in corso. Le riforme non sistematiche, però, quelle fatte a macchia di leopardo, lasciano sempre delle aporie, purtroppo. Gli interventi sono disomogenei rispetto all’intero complesso del sistema processuale penale. Ovviamente, più che scelte tecniche, sono spesso decisioni politiche. Il legislatore sceglie dove intervenire sulla base delle sensibilità dell’opinione pubblica e spesso trascura cose più importanti. E poi non si può fare una riforma così impegnativa e complessa e decidere che entri in vigore in poco tempo…».
Beh, proprio poco tempo, no.
«Nel nostro Paese le leggi entrano in vigore quindici giorni dopo la promulgazione. In altri Paesi la vacatio legis dura anni. In Gran Bretagna il Freedom of information act è stato approvato nel 2000, ma è entrato in vigore nel 2005. In quei cinque anni, i funzionari sono stati formati. Da noi la legge sulla prevenzione della corruzione e sulla trasparenza è entrata in vigore quindici giorni dopo la promulgazione e gli uffici si son trovati impreparati ad affrontare novità normative rilevanti».
Però non mi ha risposto: la Cartabia migliora o peggiora il sistema?
«Certo che le ho risposto: le riforme, per essere migliorative, devono prendere in esame l’intera struttura. La Cartabia manca dei tre pilastri essenziali a governare un sistema alla deriva come il nostro».
Quali sono?
«Innanzitutto la prevenzione: tutto continua a essere basato sulla repressione. La prevenzione è uno degli strumenti che l’Italia tarda a introdurre. Lo si fece solo con la prima legge anticorruzione, la Severino, che prevedeva misure di contrasto al malcostume. A distanza di oltre dieci anni, nessun altro intervento legislativo ha inteso utilizzare questa cultura giuridica».
Il secondo pilastro?
«Una forte depenalizzazione, che non c’è stata. Al fine di agguantare le risorse derivanti dal Pnrr, abbiamo preferito sfoltire i processi, rendendo alcuni reati che un tempo erano procedibili d’ufficio, procedibili a querela. Una scelta legata alla fretta di accelerare i processi, sacrificando la garanzia dei diritti delle parti. Invece ci sono tanti reati nel nostro ordinamento che non hanno più ragione di esistere».
Per esempio?
«I delitti di opinione, gli abusi edilizi e tutti i reati puniti con la sola pena pecuniaria».
Vuole salvare chi devasta il territorio?
«No, ma in Italia è veramente un tema tabù! In molti altri sistemi giuridici avanzati l’abuso edilizio non è un reato. È una violazione – e quindi un illecito – di natura amministrativa, come tale sanzionato. Se c’è un abuso, l’amministrazione abbatte il manufatto. Se, poi, all’esito del procedimento amministrativo risulta che lo Stato ha sbagliato, rimedia e ricostruisce».
Da noi?
«Si attiva un procedimento penale, che dura in media dieci anni. Se l’abuso è acclarato, prima dell’abbattimento del bene, passano altri vent’anni. La sanzione penale è assolutamente inefficace. Conviene depenalizzare. La norma penale classica prevede due parti: un precetto e una sanzione. Senza sanzione c’è filosofia, non legge penale. Lo sfoltimento vero avverrebbe con la depenalizzazione, che renderebbe meno ipocrita questo sistema».
Manca il terzo pilastro.
«Una bella amnistia».
Addirittura?
«Sì. L’ultima amnistia concessa in Italia è del 2006. Oggi occorre un forte intervento del Parlamento che sani una situazione duplice: cancellare vicende vecchie e non gravi, come quelle dei tantissimi reati bagatellari. In galera c’è ancora chi sconta pene per furtarelli, mentre i colpevoli di reati contro la persona sono fuori, perché ammessi a misure alternative alla sanzione detentiva. L’amnistia renderebbe il sistema un po’ più coerente. Dall’altro lato, le nostre carceri sono incapaci di funzionare in modo costituzionalmente orientato. Cioè secondo i principi previsti dall’articolo 27 della Costituzione, evitando trattamenti inumani e degradanti. Sono tragicamente aumentati i suicidi in carcere. E parlo di chi entra in carcere dopo un giudizio definitivo, con sentenza passata in giudicato. Si immagini quando, poi, in carcere entra un innocente! L’Italia è stata già condannata dalla Corte europea per aver tenuto sette esseri umani rinchiusi in 4 metri quadri di cella. La nostra glorificata Costituzione prevede che la pena restituisca alla società una persona migliorata rispetto a quando era entrata in carcere. Oggi si assiste soltanto al fenomeno opposto, perché il carcere è criminogeno. Si esce peggiori».
Le intercettazioni?
«Ultimamente sono state introdotte disposizioni sulle intercettazioni, aggravando quegli effetti che Nordio combatte. Quelli relativi alla riservatezza. La nuova disciplina propone le cosiddette intercettazioni preventive, cioè quelle che si possono chiedere al procuratore della Repubblica anche a carico di soggetti non indagati, per svolgere attività che prevengano i più gravi delitti di criminalità organizzata. Ma le intercettazioni sono uno strumento superato, checché se ne dica».
Però son servite a beccare Messina Denaro?
«Se realmente fossero state uno strumento così utile, avrebbero forse impiegato trent’anni per individuarlo, intercettata com’era tutta una rete di soggetti a lui vicina? A meno di non pensare che vi siano state interferenze o situazioni di ambiguità nella cattura, questo mezzo di ricerca della prova non ha funzionato. Se chi gli ha concesso la casa o venduto l’automobile o il medico che gli ha prescritto le pastiglie o chi gli ha procurato i gioielli avessero vissuto per trent’anni senza usare nessun mezzo informatico, telematico, telefonico, avrei compreso la difficoltà di risalire al latitante, ma mi pare più serio pensare che lo strumento intercettivo non abbia funzionato. Eppoi, siamo franchi: l’intercettazione è uno strumento comodo per l’autorità giudiziaria ma pericoloso. Chi trascrive confonde spesso le parole o le orienta o le altera: “scusate… me la sono dimenticata quando ho trascritto nel brogliaccio…”. Intanto l’intercettato viene arrestato e “mascariato” sui giornali. Ci sono casi in cui per far capire all’autorità giudiziaria procedente che vi è stata un’omissione si è dovuto aspettare dieci anni, con il giudizio di Cassazione. Il problema più serio delle intercettazioni è il rischio della violazione di diritti fondamentali».
Quali?
«In uno Stato in cui sono garantite le libertà individuali, chi voglia mantenere riservate le proprie informazioni intime che non intaccano in alcun modo la struttura dello Stato e non ledono nessuno, deve poterlo fare. Il che significa che le intercettazioni non possono essere conosciute da altri soggetti. Soprattutto se sono tenute segrete come i segreti manzoniani. Le intercettazioni irrilevanti, inutilizzabili e soprattutto illegali vanno distrutte. Eppure sono sempre lì, vengono conservate».
Nordio ha ragione a voler mettere la mordacchia, allora?
«In Germania la popolazione intercettata è un numero ristrettissimo, da noi stratosferico. Sia attraverso le intercettazioni sia attraverso l’acquisizione dei tabulati telefonici. Le forme per controllare le persone non sono soltanto quelle del contenuto di una conversazione, ma anche il luogo in cui questa avviene, chi sono gli interlocutori, il momento del giorno in cui si chiama, quanto tempo si sta al telefono, l’ordine cronologico delle telefonate… Praticamente in tutti i processi penali vengono acquisiti i tabulati di indagati e non. Ci unisca anche tutto il flusso telematico e informatico: è un controllo generale sulle abitudini delle persone. È una schedatura delle persone. Il tema delle intercettazioni è caro a molti, anche se pochi hanno il coraggio di parlarne come ha fatto Nordio. Quando Pietro Bernardo dei Paganelli diventò Papa Eugenio III, Bernardo di Chiaravalle, suo maestro, gli scrisse “Poni come regola generale di considerare sospetto chiunque non abbia il coraggio di dire pubblicamente ciò che sussurra in privato. E di considerarlo calunnioso”».