La mitologia della Rete può giocare brutti scherzi alla democrazia rappresentativa
Nel saggio “La morale degli scacchi”, pubblicato nel 1786, Benjamin Franklin sosteneva che il gioco richiede lungimiranza (nel calcolo delle conseguenze a lungo termine di una scelta), circospezione (nella stima della forza dell’avversario), cautela (per evitare azioni azzardate) e perseveranza (nella ricerca della mossa risolutiva, senza lasciarsi scoraggiare dai propri errori). In fondo, sono quattro regole o, se si preferisce, virtù che dovrebbero essere insegnate in ogni scuola di buona politica (se ce ne fossero). Tanto più se si considera che esse possono essere apprese perfino da una macchina.
Era il vecchio sogno di Alan Turing. Pubblicato nel 1950 sulla rivista inglese “Mind”, il testo più sovversivo e più controverso del padre del computer ha come titolo proprio “Macchine calcolatrici e intelligenza”. Nel 1936 aveva dimostrato che una macchina non può decidere se una proposizione è vera o falsa. Qui dimostra che, se riesce ad imitare il comportamento umano, la macchina “pensa”. A tal fine, inventa il celebre “gioco dell’imitazione”, più noto come test di Turing: “La pretesa che le macchine non possono sbagliare [nel gioco dell’imitazione] sembra strana […]. S’afferma che colui che interroga potrebbe distinguere la macchina dall’uomo semplicemente ponendo a entrambi un certo numero di problemi aritmetici. La macchina verrebbe smascherata per la sua tremenda precisione. La risposta a questo è semplice. La macchina, programmata per giocare al gioco, non cercherebbe di dare la risposta esatta […]. Introdurrebbe deliberatamente degli errori, in modo studiato apposta per confondere chi interroga”.
Le frontiere dell’intelligenza artificiale, espressione coniata nel 1956 dal matematico americano John McCarthy, erano ormai aperte. Facciamo ora un salto di quasi mezzo secolo. Il 10 febbraio 1996 il supercomputer Ibm Deep Blue sconfigge per la prima volta il campione mondiale di scacchi Garry Kasparov. Dotato di un algoritmo capace di calcolare cento milioni di posizioni al secondo, era una derivazione del progetto “Deep Thought” sviluppato dall’informatico cinese Feng-hsiung Hsu. Filadelfia fu così la sede di un piccolo miracolo, che lasciò tuttavia perplesso il maestro russo. Kasparov, infatti, aveva notato nelle mosse del suo competitore meccanico una creatività di tipo umano. Il sospetto di un “aiutino” esterno fu rafforzato quando si seppe che il computer non era collocato vicino alla sala nella quale si disputava la partita, ma ad alcuni chilometri di distanza. Inoltre, non furono mai resi noti i tabulati di Deep Blue.
In effetti, i tecnici modificavano il suo software durante le partite per adattarlo alle strategie dell’avversario, come poi ammise lo stesso Feng-hsiung Hsu in un libro autobiografico. La macchina che vince nel più nobile e più complesso dei giochi, gli scacchi, è un sogno che affonda le sue radici nel Settecento, nel corso di quella esplosione scientifica e tecnica che pose le basi della rivoluzione industriale. Fu allora che nacquero gli automi, i quali eseguivano movimenti preordinati e di grandissima precisione, come “Il Flautista” di Jaques Vaucanson (1738). Per vederlo all’opera i parigini facevano code chilometriche pagando ben tre lire di ingresso, pari alla paga settimanale di un operaio del tempo.
Ma l’invenzione che suscitò un entusiasmo indescrivibile in tutta Europa fu proprio un giocatore artificiale di scacchi. Nella Vienna fastosa e frivola della seconda metà del diciottesimo secolo, la corte dell’imperatrice Maria Teresa era un teatro in cui si esibivano illusionisti, medium e maghi di ogni risma. Dopo aver assistito ad uno spettacolo di prestigiatori, l’imperatrice esortò un suo consigliere, esperto in meccanica e idraulica, a creare un gioco specialissimo in grado di stupire una nobiltà sempre a caccia di nuove emozioni. Questo consigliere era il barone Wolfgang Von Kempelen, nativo di Pressburg (l’attuale Bratislava). Nel 1770 von Kempelen presentò il frutto del proprio lavoro. Si trattava di un fantoccio di foggia orientale, seduto su una grande cassa di legno e che fumava proprio come… un turco!
Davanti a sé il pupazzo aveva una scacchiera, e riusciva a battere regolarmente tutti gli avversari scelti di persona dalla sovrana. Un successo subito seguito da una trionfale tournée nelle principali capitali europee ed in Russia, in cui “il Turco” (come venne ribattezzato il pupazzo meccanico) prevalse, tra gli altri, su Giorgio III, Benjamin Franklin, Napoleone e Federico II di Prussia. Studiosi, matematici e persino alcuni esorcisti esaminarono l’automa per carpirne il segreto, ma senza esito. L’alone di mistero che circondava la strana macchina di von Kempelen alimentava le leggende più strampalate: c’era chi affermava che fosse posseduta da uno spirito maligno, mentre altri mormoravano che il barone avesse venduto l’anima al diavolo. Dopo la morte di von Kempelen (1784), i figli vendettero l’automa a Johann Maelzel, il celebre inventore del metronomo, per l’astronomica cifra di trentamila franchi. Questi proseguì le esibizioni in tutta Europa fino al 1811, quando Eugenio de Beauharnais lo acquistò senza badare a spese. Scoperta la reale natura del congegno, il principe denunciò Maelzel per truffa.
L’automa infatti, non era affatto un prodigio tecnologico, ma un astuto imbroglio: era semplicemente azionato nell’interno da un giocatore di piccola statura, che si occultava abilmente dietro gli ingranaggi. Durante la partita, i movimenti dei pezzi sul tavolo gli venivano segnalati da piccoli magneti, in modo da poterli riprodurre su una scacchiera tascabile, per poi rispondere manovrando il braccio mobile del pupazzo. Il trucco funzionò anche negli Stati Uniti (dove si era rifugiato Maelzel), fino a quando una serie di incidenti diede inizio a quella che i giornali dell’epoca chiamarono pittorescamente “la maledizione del Turco”: due bambini videro un corpo mingherlino che usciva dalla cassa dopo lo show, mentre il deduttivo Edgar Allan Poe scrisse un articolo dove raccontava che c’era una donna minuta che appariva in sala pri-ma e dopo lo spettacolo, ma mai durante.
Per concludere, Kempelen e Maelzel disponevano sicuramente di uno straordinario potere di persuasione, di cui si servivano per guadagnare fama e denaro. Oggi, invece, altri raffinati strumenti forniti dalla rivoluzione digitale trasformano l’ingenuità e la meraviglia di grandi masse in poderosi meccanismi di consenso. Oggi, inoltre, gli inganni visivi e la tranquilla esposizione di notizie false spacciate per verità incontrovertibili condizionano profondamente la battaglia delle idee e la stessa lotta politica. Non è solo un fenomeno italiano, ma da noi ha un’aggressività e una virulenza del tutto particolari. Riflettiamoci bene. La mitologia della Rete può giocare brutti scherzi alla democrazia rappresentativa.
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