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La fine della vocazione maggioritaria del PD?

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Matteo Renzi è stato segretario del Pd dal dicembre 2013 al marzo 2018. Credit: Afp/Silvia Lore/NurPhoto

Con l'addio dell'ex segretario il Partito democratico potrebbe cambiare pelle: da catalizzatore del consenso del centrosinistra a forza proporzionale, che miri a un governo di coalizione con liste che rappresentino altre sensibilità politiche

Renzi lascia il Pd: fine della vocazione maggioritaria del partito?

Sono poche le certezze che abbiamo nella vita: la morte, le tasse, e le scissioni nel centrosinistra. Queste, in modo particolare in Italia, rappresentano quasi un rito di passaggio nel mondo politico, e un partito non può dirsi tale se non ne ha subita almeno una. Il PD, con questo presupposto, può dirsi Partito con la P maiuscola.

La scissione di Renzi ha però un significato diverso da quelle viste in passato, non tanto per un cambiamento di linea del partito – che, in ormai quasi 12 anni di storia, rappresentano un fenomeno fisiologico – ma perché potrebbe venire meno uno dei punti a livello di forma partito con cui è nato il PD nel “lontano” 2007.

Quando, all’epoca, con le storiche primarie che scelsero Walter Veltroni come primo segretario, venne ufficialmente fondato il PD, esso si poneva come punto di riferimento dell’intero centrosinistra italiano, in un’ottica di normalizzazione del frammentato quadro politico verso un bipolarismo muscolare. L’unificazione dei due maggiori partiti del centrosinistra – DS e Margherita – e la conseguente marginalizzazione degli altri partiti dell’area contribuì, inoltre, alla nascita del Popolo della Libertà nel centrodestra, portando così alla nascita di un bipolarismo de facto che sarebbe durato diversi anni.

Per quanto il sistema sia poi divenuto tripolare per via dell’arrivo sulla scena politica del Movimento Cinque Stelle, il PD ha continuato a mantenere il suo ruolo di partito di riferimento del centrosinistra, divenendo a tutti gli effetti una forza per sua stessa natura plurale, aperta a diverse storie e sensibilità politiche.

 

 

L’addio di un leader che da segretario aveva portato questa forza al suo massimo storico – il proverbiale 40 per cento delle europee 2014 – e che aveva anche ricoperto l’incarico di premier, nonché uno dei massimi esponenti della linea per cui il PD rappresenta una forza a vocazione maggioritaria ha, in questo momento e in questi termini, un significato preciso che sembra destinato a vedere il partito non più come una forza per catalizzare il consenso del centrosinistra, ma come una forza proporzionale, che miri a un governo di coalizione con liste che rappresentino altre sensibilità politiche.

La nuova forza politica di Renzi – che al momento non ha un nome ed è solo l’annuncio di un gruppo parlamentare autonomo – non sembra essere, nelle sue premesse, una forza con una volontà di porsi trasversalmente come partito della Nazione, come ci si sarebbe aspettati dal Renzi di qualche anno fa. Sembra, anzi, una corrente di partito “elevata” al grado di gruppo parlamentare, in attesa di ulteriori sviluppi. Sembra, insomma, rispetto a un PD spostatosi a sinistra, una forza di orientamento moderato e liberal-democratico che vada a dialogare con il PD e altre forze del centrosinistra: insomma, una delle tante liste di un’area politica.

Ma se questo sembra essere l’atteggiamento renziano, l’atteggiamento del PD stesso sembra combaciarvi bene. Che in caso di un addio di Renzi non avrebbe gridato allo scandalo lo ha detto chiaramente, ad esempio, Goffredo Bettini, politico del PD e dei DS prima di lungo corso e particolarmente vicino all’attuale segretario Nicola Zingaretti, per dirne uno. Se un addio di peso come quello di Renzi, vuol dire allora che tale linea di un PD non più catalizzatore del centrosinistra, non più maggioritario, ma partito di un centrosinistra proporzionale, sia ormai più che sdoganata.

Ed è proprio il proporzionale, forse, il convitato di pietra di tanti sommovimenti politici dell’ultimo periodo, quello stesso proporzionale sbandierato da PD e Cinque Stelle soprattutto in caso di riduzione del numero di parlamentari. Un proporzionale che, pur non essendo ancora legge, sembra stia tornando già protagonista della scena politica, con il rischio anche che molti calcoli siano sbagliati.

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