Referendum, il costituzionalista Clementi a TPI: “Tagliare il numero dei parlamentari non basta: vi spiego perché”
Il docente di Diritto pubblico comparato: "Sono favorevole a ridurre il numero dei parlamentari, ma all'interno di una ristrutturazione del bicameralismo. Insieme al taglio servirebbero altri interventi. Questa invece è una riforma micro. E il referendum è una miccia da maneggiare con cura"
Nel 2016 fu tra i più decisi sostenitori della riforma costituzionale firmata Renzi-Boschi. Anche in quel caso – come nella riforma che sarà oggetto di referendum il 20 e 21 settembre – era previsto il taglio del numero dei parlamentari. Ma questa volta è diverso: “Questa è una riforma micro”, osserva. Lui è il professor Francesco Clementi, docente di Diritto pubblico comparato all’Università di Perugia e tra i più illustri costituzionalisti italiani (nel 2013 fece parte della Commissione di esperti per le riforme costituzionali nominata dall’allora presidente della Repubblica Napolitano).
Professore, giusto tagliare il numero dei parlamentari?
Non adotterei la categoria del giusto o dello sbagliato, anche perché la composizione attuale delle due Camere non nasce con la Costituzione del 1948 ma – come noto – è stata fissata solo nel 1963. Guardo al tema in modo analitico e freddo, senza patemi. Mi interessa di più registrare se quei numeri oggi contribuiscono ancora a rendere migliore o peggiore il dialogo democratico fra eletti ed elettori e la funzionalità delle istituzioni.
E cosa ne ricava?
Registro due elementi. Primo: dal 1983 la proposta di ridurre il numero dei parlamentari è stata praticamente condivisa da tutte le forze politiche, nessuna esclusa. Qualcosa vorrà dire se gli stessi interpreti – da decenni, non da ieri – fanno sempre questa proposta. Secondo: il confronto con altri paesi a noi omogenei, anche senza considerare l’esperienza degli Stati Uniti, dimostra che noi siamo l’eccezione e non la regola tra le democrazie. Non è un caso che siamo ormai dentro un monocameralismo casuale, come noto, più che in un bicameralismo nei fatti realmente paritario.
Quindi è favorevole?
Aspetti. Chiarito quanto sopra, rispetto al dibattito attuale – tutto legato al risparmio ridicolo e ipocrita che si produrrebbe – bisogna spiegare invece che non di soli numeri si tratta, in quanto su di essi si basa tutta l’impalcatura della Parte Seconda della Costituzione: dai quorum di voto, all’organizzazione delle Camere, all’elezione del Capo dello Stato. Non poco, insomma.
Ai tempi del referendum costituzionale del 2016 lei si schierò per il Sì alla riforma, che anche in quel caso comprendeva la riduzione del numero dei parlamentari.
Sono sempre stato favorevole ad una riduzione del numero dei parlamentari in ragione di una diversa ristrutturazione del bicameralismo, in modo tale da favorire anche una rappresentanza di tipo territoriale. A differenza della riforma del 2016, invece, questo testo – se preso uti singulus – inevitabilmente si espone a critiche, soprattutto per chi, come me da studioso, ritiene che nel testo costituzionale tutto sia legato come in un dòmino.
Cosa non la convince?
In questo caso – a differenza di tutti i testi dal 1983 ad oggi, compresi quelli dei referendum del 2006 e del 2016 – stiamo discutendo di una riforma micro: che, inevitabilmente, se passasse il Sì, comporterà altre riforme costituzionali, a partire dall’articolo 57 della Costituzione sulla trasformazione della base elettorale del Senato in circoscrizioni pluriregionali.
Non sarà che questo taglio sconta il fatto di essere stato proposto dai Cinque Stelle?
Sarà per una ormai vecchia deformazione professionale, ma giudico le riforme costituzionali in base al loro contenuto, non in base a chi le propone. Per cui non vivo di pregiudizi, compresi quelli politici. Peraltro a maggior ragione in questo caso sarebbe stupido farlo, posto che, appunto, la riduzione del numero dei parlamentari è stata proposta dal 1983 da pressoché tutte le forze politiche: di maggioranza come di opposizione, grandi o piccole che fossero, tanto della cosiddetta prima quanto della seconda fase repubblicana. Insomma, non conta il chi, ma il cosa e il come. Almeno per me.
Passiamo alle argomentazioni a favore del taglio: l’Italia è tra i Paesi con il più alto numero di parlamentari. Non serve una cura dimagrante?
Una rappresentanza di qualità non la dà il numero dei rappresentanti, ma gli elettori con un voto attento e consapevole. Certo è, del pari, che un numero di parlamentari, anomalo ed eccezionale come è il nostro rispetto a quello di altre democrazie a noi simili – come le dicevo – qualche interrogativo importante indubbiamente lo pone. Non da ultimo perché c’è sempre qualcuno che palesemente lavora il doppio di altri che, invece, fanno veramente poco. E non va bene.
Questo parlamento è anche molto costoso…
La democrazia ha un costo e non bisogna vergognarsi a dirlo. Chi lo fa sega il ramo sul quale è seduto, a maggior ragione se pensa che i suoi diritti siano violati. D’altronde, basta guardarsi attorno anche in Europa per scoprire che le istituzioni democratiche sopravvivono se tutti ci credono, anche economicamente: cioè pagando le tasse. Se tutti pagassero le tasse, avremo istituzioni migliori e meno costose, perché tutti – compresi gli eletti – sarebbero consapevoli di stare spendendo i soldi di tutti noi. Peraltro, a guardar bene, oggi i millantati costi sono più altrove forse che, come taluno dice, nell’istituzione Parlamento.
Sul taglio c’è una parte di opinione pubblica che ragiona così: “Non è un’assoluta necessità, ma non ho nemmeno nulla in contrario”. Ridurre il numero dei parlamentari può essere in qualche modo dannoso?
Beh, quei numeri aprono il testo della Parte Seconda della Costituzione. E non a caso, aggiungo. Servono a sorreggere la meccanica costituzionale, dai quorum di voto, all’organizzazione delle Camere, all’elezione del Capo dello Stato. Se venissero considerati dei soli numeri – cioè disconnessi dalla loro funzione – sarebbe un errore grave prima che un danno.
E quindi?
Mi aspetto che, ad un eventuale positivo esito del referendum, sia riequilibrato il testo della Costituzione con le conseguenti riforme costituzionali, dei regolamenti parlamentari ed elettorali. Anzi, se posso, mi permetto di dire che mi batterei – da cittadino, prima che da studioso – perché ciò avvenisse rapidamente.
Zingaretti dice: “Tagliare i parlamentari senza prima riformare la legge elettorale è pericoloso”. Ma – anche ci fosse questa revisione – la legge elettorale potrebbe poi essere modificata in seguito: in che modo allora il sistema elettorale può essere una garanzia in questo senso?
Mi pare abbastanza chiaro che, dietro quella frase, ci sia la richiesta del rispetto di un patto politico prima che di una, pur corretta, necessità tecnica. D’altronde, la politica ha una sua logica. Dei correttivi proposti mi convincono le riforme costituzionali soprattutto, cioè l’allineamento dell’elettorato attivo e passivo, la riduzione dei delegati regionali per l’elezione del Capo dello Stato e il superamento della base regionale del Senato. In quest’ultimo caso segnalo che, nell’impossibilità al momento di modificare il bicameralismo paritario, e dunque l’identico doppio rapporto fiduciario, è decisivo che le due leggi elettorali siano il più possibile identiche per tenere allineati gli esiti elettorali. E provare a ridurre il rischio di due maggioranze diverse tra Camera e Senato. Quanto alla legge elettorale, al netto di una mia personale preferenza per un maggioritario a doppio turno, innanzitutto difendo con forza l’idea che gli elettori siano messi in condizione di scegliere, prima del voto, le coalizioni di governo.
Perché molti partiti (Pd, Lega, Forza Italia) faticano a prendere una posizione netta e compatta sul referendum?
In una società sempre più liquida ed emotiva, nella quale contano più gli umori che le ragioni di merito, e dove la scelta del voto, sempre più, si fa negli ultimissimi giorni, la fatica di una parola politica chiara da parte dei partiti con largo anticipo sconta il rischio di un costo politico, di un vantaggio eventuale per l’avversario, da ponderare attentamente. Ma sono certo che a ridosso del voto anche quei partiti prenderanno una posizione netta. Ne va della loro serietà politica, non da ultimo perché gli elettori sono meno sciocchi di quanto, talvolta, alcuni dicono.
A chi conviene il taglio dei parlamentari?
Ci può essere una sola convenienza, un solo parametro, quando si parla di riformare il testo della Costituzione, ed è la qualità della nostra democrazia, del funzionamento delle sue istituzioni e del miglioramento dei rapporti tra eletti ed elettori. Ogni altra convenienza non soltanto è effimera ma anche, per certi aspetti, controproducente: le vittorie e le sconfitte, nel tempo di oggi, durano poco. E le sbornie lasciano innanzitutto confusione, disorientamento e un grande mal di testa.
Aver accorpato il referendum con regionali e amministrative in un election day unico può influenzare l’esito della consultazione? È stato un errore?
La tesi ha avuto una sua consistenza, ma è prevalso, a mio parere giustamente, un altro ragionamento: le elezioni non sono solo la data in cui si vota. Le elezioni sono il dibattito politico, il programma, le liste, le firme. Insomma, un procedimento lungo e complesso, fatto da più fasi. E i tempi allora non c’erano. Alla luce di questi elementi, la finestra di settembre era e resta quella più adeguata. D’altronde, a conferma, vi è la recente ordinanza della Corte costituzionale che, oltre ad aver accolto la correttezza politico-istituzionale di quella scelta, ha tracciato pure un’importante fisionomia dei rapporti tra democrazia diretta e rappresentativa.
Che succede se vince il Sì?
Che vinca il Sì o il No, innanzitutto, rimaniamo un Paese democratico: è bene dirselo perché ogni visione apocalittica che viene propalata è tanto ridicola quanto inutile, perché non smuove un voto. Nel merito, semplicemente, siamo dentro un dilemma.
Quale?
Se vince il Sì, la politica è costretta a fare importanti riforme costituzionali, regolamentari e, appunto, elettorali. Ma sono tutte da discutere e va fatto con la consapevolezza e l’adeguatezza necessaria.
E se vince il No?
Se vince il No, rischiamo di non avere più alcuna riforma, che invece è necessaria per dare equilibrio e semplicità decisionale – non direttismo, si badi – ad un Paese che ne ha davvero bisogno, a partire dalla riforma del bicameralismo. Questo è il dilemma. Eppure, al fondo, c’è un dato.
Quale?
Sono decenni che diciamo che 945 parlamentari che fanno la stessa cosa tra Camera e Senato sono un’anomalia che va affrontata per portare anche una rappresentanza territoriale in Parlamento. Chiaramente, allora, questo voto è una miccia, da maneggiare con attenzione e consapevolezza.
Se la sente di fare un pronostico?
Sono troppo anglosassone per fare un pronostico senza criterio. Di sicuro, però, mi sento parte di quella maggioranza di elettori – e pure di studiosi – santamente ancora incerta che, nel valutare pregi e difetti, non ha scelto ad oggi come votare. Nel mio caso, da studioso, aggiungo un’inquietudine maggiore che mi spinge, inevitabilmente, ad un discernimento più attento. Le saprò dire.
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