La grande illusione delle privatizzazioni: un fallimento lungo 30 anni
Dovevano modernizzare il sistema economico e dare ossigeno alle casse pubbliche. Ma a 30 anni da quella stagione l’operazione si è rivelata un enorme fallimento. Colpa del capitalismo nostrano
La rivoluzione era l’ultimo punto all’ordine del giorno. Il 10 luglio 1992, un afoso venerdì, Giuliano Amato presiede la riunione del suo governo di emergenza. Primi interventi per evitare il disastro: una manovra correttiva da 30mila miliardi di lire, la legge delega per la previdenza, la sanità, il pubblico impiego, la finanza locale. È tardi quando Amato propone un decreto legge (per la Storia: 11/7/1992, n.333) per la trasformazione degli enti pubblici economici in società per azioni. I ministri non capiscono, sono stanchi, accaldati. Solo il ministro del Tesoro, l’ex banchiere Piero Barucci, reagisce: «Cosi ribaltiamo tutto quello che è stato fatto da Alberto Beneduce in poi». Amato chiude bruscamente la riunione. Poche ore dopo Craxi, Andreotti, Forlani vengono a sapere del blitz. Gruppi di socialisti e democristiani girano per Roma alla caccia dei ministri. Amato è assediato. Iri, Eni ed Enel diventano società per azioni, in mano al Tesoro. Il governo dura poco, Amato non fa in tempo a vendere niente, ma la grande campagna di privatizzazioni può iniziare.
La scelta di trent’anni fa ha prodotto un dimagrimento delle attività controllate dallo Stato. Però la mano pubblica non è scomparsa, ha assunto anzi un profilo deciso e indispensabile con la pandemia. Lo Stato continua ad avere un ruolo determinante nell’economia, interviene per risolvere drammatiche situazioni d’imprese già passate ai privati (ex Ilva, Alitalia, Autostrade per l’Italia) o per realizzare obiettivi essenziali per l’interesse generale (la rete unica tra Tim e OpenFiber). Oggi lo Stato detiene il controllo di Eni, Enel, Terna, Italgas, Saipem, Snam, StMicroelectronics (in alleanza con la Francia), Leonardo, Poste Italiane, e la totalità del capitale di Fincantieri e Rai. Agisce tramite il ministero dell’Economia e la Cassa Depositi e Prestiti, che molti temono possa diventare una replica dell’Iri. Per la verità, non sarebbe una brutta idea, se aggiornata alle esigenze di oggi, tanto che le stesse scelte del governo di Mario Draghi, già protagonista come direttore generale del Tesoro delle privatizzazioni negli anni Novanta e oggi neo statalista per necessità, sono improntate a valorizzare le partecipazioni. Lo Stato è soprattutto un riferimento per le aziende pubbliche mentre prima era proprietario e gestore, permeabile alle intromissioni dei partiti, con manager a volte inadeguati e passivi mostruosi. All’inizio degli anni Novanta l’Iri aveva accumulato perdite per 40 miliardi di euro, l’Efim era sepolto dai debiti e avviato alla liquidazione. Nel 2002 l’Iri fu sciolto, dopo aver venduto tutto il possibile, e lo Stato incassò un assegno di 24 miliardi di euro. Non male, comunque, per un gruppo che si riteneva decotto.
La svolta delle privatizzazioni in Italia matura in un contesto politico, economico e sociale molto difficile, dominato dalla deriva latinoamericana del debito pubblico, dalle inchieste di Mani Pulite, dalle stragi mafiose. A livello internazionale le destre di Ronald Reagan e Margaret Thatcher avevano preparato il terreno per tagliare la mano pubblica, ma il neoliberismo, la deregulation come ideologia prevalente viene perfezionata dai progressisti Bill Clinton, Tony Blair e anche Romano Prodi. Il capitalismo deregolato prende corpo nel 1989, quando la Sec (la Consob americana) fornisce le munizioni, cioè autorizza la libera contrattazione dei prodotti derivati, di finanza strutturata. In Italia la decisione politica di far uscire lo Stato dall’industria, dalle banche, dai servizi matura senza che ci siano gli strumenti necessari. Ancora alla fine degli anni Ottanta non esisteva una legislazione antitrust, mancavano norme severe contro reati come l’insider trading e l’aggiotaggio, la Consob aveva scarsi mezzi e ancor meno autorevolezza, non c’erano i fondi pensione e da poco erano stati lanciati i fondi comuni d’investimento per la raccolta e la gestione del risparmio. Era, inoltre, lacunosa la legislazione per le Offerte pubbliche di acquisto e per i take-over ostili.
La scelta politica di porre fine alla stagione delle Partecipazioni Statali (il ministero era stato creato nel 1956) aveva alcuni obiettivi rilevanti: 1) modernizzare il sistema economico con l’introduzione di fattori di concorrenza e di mercato; 2) allontanare i partiti dalle imprese pubbliche perché si riteneva che questa connessione fosse fonte di ogni corruzione; 3) ridurre il debito pubblico; 4) creare un vero mercato mobiliare; 5) favorire la nascita di nuovi gruppi imprenditoriali. I risultati, alla fine, non sono stati così brillanti come ci si poteva aspettare. Le privatizzazioni le abbiamo fatte, eccome. L’Italia è, con il Giappone, il Paese che ha realizzato dismissioni da primato, però il debito pubblico è ancora qui, la Borsa è sempre piccola, la corruzione non è scomparsa. E poi c’è il nodo più grosso: il capitalismo italiano non è stato all’altezza della sfida, dell’occasione storica delle privatizzazioni.
Ci sono alcune dismissioni che hanno prodotto risultati apprezzabili. Dalle privatizzazioni delle banche d’interesse nazionale, dalle successive aggregazioni, fusioni non sempre pacifiche e dal disboscamento della “foresta pietrificata” del credito sono nati due poli di dimensione europea: Intesa Sanpaolo e Unicredit. Bisogna ricordare, però, che in questo processo è stato fondamentale il ruolo delle Fondazioni che alcuni critici ritengono l’ultima espressione dei Soviet in Italia. È stata positiva la vendita del Nuovo Pignone alla General Electric così come è andata bene la Dalmine dopo il passaggio al gruppo Rocca. E poi? Non resta molto altro. Anzi. Le privatizzazioni, fatti alla mano, sono state il fallimento dell’imprenditoria italiana. Un errore dopo l’altro.
Prendiamo Telecom Italia, che nel 1997 era la più bella azienda italiana. Si disse allora: «L’Europa ci chiede» la privatizzazione delle telecomunicazioni per poterci sedere al tavolo di Bruxelles. La vendita avvenne tramite la creazione di un «nocciolino duro» che vincolava solo il 7% del capitale, con le solite banche, le Generali, gli Agnelli. Si dovette pregare i privati di partecipare all’acquisto di una piccola quota di un’impresa straordinaria. Non avevano capito nulla e fecero pasticci. Telecom aveva 127mila dipendenti, 22 miliardi di euro di ricavi, partecipazioni in Francia, Spagna, Serbia, in America Latina e anche in India. La controllata Tim, il maggior operatore di telefonia mobile, nutriva l’ambizione realistica di diventare azionista di riferimento di Vodafone. Due anni dopo l’Olivetti guidata da Roberto Colaninno lanciò un’Opa ciclopica su Telecom, assieme ai «capitani coraggiosi» raccolti nella provincia italiana. Durò poco. Nel 2001, dopo la vittoria di Silvio Berlusconi alle elezioni, la Pirelli di Marco Tronchetti Provera subentra a Colaninno, che con i risparmi compra la Piaggio. Anche questa gestione non va. C’è il solito intervento “di sistema” delle banche, con la spagnola Telefonica e poi la francese Vivendi. L’azienda è spolpata, ha circa un terzo dei dipendenti di 25 anni fa, è priva di strategie e di management illuminati.
Prendiamo la gigantesca Ilva, simbolo della siderurgia: passò a Emilio Riva, aggressivo, duro e spregiudicato ma aveva dimensioni infinitesimali rispetto al colosso di Stato. Riva pretese, per vie legali, pure uno sconto sul prezzo. È finita, anzi non ancora, con i Riva in fuga, inquinamento velenoso, capitali svaniti e, alla fine, torna lo Stato a metterci una pezza.
Ma la “perla” più scandalosa è questa. La famiglia Benetton fino agli anni Novanta era uno dei nomi più innovativi dell’impresa, un caso di successo di quella «via familiare al capitalismo» tanto celebrata. I Benetton partecipano alla privatizzazione di Gs-Autogrill e prendono il controllo di Autostrade, un’infrastruttura strategica del Paese, scegliendo così di passare dal profitto industriale alle tariffe, una rendita che assicura generosi dividendi e pochi rischi. Non soddisfatti di questa metamorfosi, investono in Telecom in alleanza con la Pirelli, ma ne escono con le ossa rotte. Autostrade segnala la “qualità” dei Benetton, responsabili delle linee strategiche dell’impresa, della scelta del management, delle politiche di remunerazione del capitale a scapito degli investimenti sulla sicurezza. Dopo la strage del ponte Morandi di Genova, lo Stato ha ripreso il controllo di Autostrade ma ha pagato, con altri due fondi di private equity, circa 8 miliardi di euro alla famiglia Benetton. C’è qualcosa che non torna.