Politica e giornalisti: quel rapporto fin troppo stretto
Dall’arte del retroscena alle porte girevoli: così i due mondi vivono commistioni e influenze reciproche, mentre l’uno dovrebbe vigilare sull’altro
Giornalismo e politica corrono da sempre su due binari paralleli. Dalla rivoluzione francese, che ha segnato la nascita dell’opinione pubblica e del giornalismo moderno, fino alla formazione delle democrazie occidentali, la stampa ha svolto il suo ruolo primario – quello di informare – in modo strettamente e naturalmente collegato agli sviluppi politici. Solo un popolo informato è pienamente in grado di partecipare alla vita democratica di un Paese, e senza l’informazione non c’è democrazia, perché non c’è possibilità di scegliere consapevolmente, come vediamo ancora oggi nei regimi e nelle dittature.
Eppure il rapporto tra politica e giornalismo negli ultimi anni, anche in un Paese democratico come il nostro, è arrivato a delle degenerazioni che a lungo andare possono minare la qualità dell’informazione, e dunque della democrazia. Il riferimento non è solo agli editori-politici o politicizzati (Silvio Berlusconi in primis), di cui si è già parlato nelle pagine precedenti, ma anche a certe tecniche del giornalismo – l’abuso dei retroscena, ad esempio – e alle cosiddette “porte girevoli”, cioè alla facilità con cui i ruoli del giornalista e del politico si sovrappongono e si scambiano tra loro, fino a far perdere i confini dell’uno e dell’altro.
Per quanto riguarda i retroscena, il rischio non è rappresentato dal genere giornalistico in sé, che ha la funzione di raccontare i fatti realmente accaduti che “non si vedono”, ma dall’abuso che ne viene fatto. Interi articoli costruiti su un virgolettato, non attribuito e quindi non verificabile, che addirittura diventa il titolo e possibilmente finisce in prima pagina: è questa la degenerazione che svilisce un elemento pur importante e necessario della narrazione giornalistica.
Questo tipo di deriva rende pressoché impossibile distinguere le notizie dalle “veline”, inviate alla stampa da un ministero o da altra fonte interessata alla sua diffusione, ma anche separare le informazioni riservate dalle “polpette avvelenate”, ovvero dalle notizie false appositamente messe in giro, spacciandole per vere, per un preciso scopo: ovvero per provocare una reazione di avversari o alleati politici, o per esercitare una pressione sull’opinione pubblica in un senso o nell’altro. Di fatto, i retroscena con virgolettati non attribuiti sono delle buche delle lettere anonime, dove la politica è libera di inserire ciò che vuole, “sfruttando” i giornalisti. E – come abbiamo visto in passato – questo le consente di ottenere persino titoli in prima pagina, prima di essere poi spesso e volentieri smentiti.
L’abuso dei retroscena non genera problemi solo sotto il profilo dell’attribuzione delle fonti, ma è scivoloso pure per altri aspetti. Quando non si basa neanche su un virgolettato, ad esempio, esso viola facilmente uno dei cardini principali del giornalismo anglosassone: la netta distinzione tra fatti e opinioni. Si tratta non del racconto dei fatti per come sono accaduti, ma di una libera ricostruzione di come questi potrebbero essere andati secondo una serie di ipotesi, dettate sulla base di come il giornalista interpreta una determinata vicenda e dei suoi convincimenti. Una dinamica che risulta più che mai fuorviante per il lettore, che si affida al giornalista, ripone in lui o in lei certe aspettative e dovrebbe, di conseguenza, esserne guidato con trasparenza e chiarezza.
Un altro elemento che denota la commistione crescente tra giornalismo e politica è il cosiddetto sistema delle “porte girevoli”, ovvero il passaggio da un ruolo da giornalista o conduttore a quello di politico e viceversa. Non è certo un fenomeno nuovo: già negli anni Ottanta un ex direttore del Corriere della Sera, Giovanni Spadolini, diventò prima segretario del Partito repubblicano italiano, più volte ministro e poi presidente del Consiglio. Chi alterna l’esperienza giornalistica a quella politica non sta violando alcuna legge. Tuttavia, negli ultimi anni il numero di giornalisti che hanno deciso di intraprendere la strada della politica (e, in alcuni casi, di tornare indietro) è stupefacente.
Al di là dei casi più datati (Walter Veltroni, ex sindaco di Roma e segretario Pd, era stato direttore de L’Unità) per quelli più recenti basta pensare a Emilio Carelli, ex conduttore del Tg5 e poi direttore di SkyTg24, eletto nel 2018 alla Camera con il Movimento Cinque Stelle, che ha lasciato i pentastellati per passare al Gruppo Misto e poi a Coraggio Italia. Oppure all’ex direttore de L’Espresso ed ex condirettore di Repubblica, Tommaso Cerno, eletto sempre nel 2018, ma al Senato tra le fila del Pd. L’elenco è ancora lungo: il senatore pentastellato Primo Di Nicola è stato direttore del quotidiano Il Centro e in passato anche giornalista de L’Espresso. Gianluigi Paragone, ex senatore M5S e poi fondatore di Italexit, è stato direttore della Padania, poi conduttore in Rai e de “La gabbia” su La7. Anche l’attuale presidente della Regione Liguria Giovanni Toti, ex giornalista Mediaset ha lasciato il partito con cui era stato eletto (Forza Italia) per fondare il suo movimento (Cambiamo!). A sfidarlo, alle elezioni del 2020, era stato un altro giornalista, sostenuto da Pd e M5S, l’ex inviato del Fatto Quotidiano Ferruccio Sansa.
Anche più a destra abbondano i giornalisti: Giorgio Mulè, sottosegretario alla Difesa del governo Draghi, prima di essere eletto alla Camera dei Deputati nelle file di Forza Italia nel 2018 è stato direttore di Studio Aperto e di Panorama. Il coordinatore di Forza Italia ed ex presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, ha lavorato per Il Giornale di Indro Montanelli dopo l’esperienza al GR1 (anche David Sassoli, suo successore alla guida dell’Europarlamento, era giornalista). Inoltre vale la pena di ricordare che pure Matteo Salvini e Giorgia Meloni, leader rispettivamente della Lega e di FdI, hanno iniziato la loro carriera come giornalisti, prima di essere cooptati dalla politica.
Esiste poi una seconda categoria, quella di chi, dopo l’esperienza in politica, ha iniziato (o ricominciato) a fare il giornalista. Dal celebre caso di Eugenio Scalfari, deputato dal 1968 al 1972 come indipendente nelle liste del Psi, che poi torna a fare il giornalista e nel 1976 fonda Repubblica, a quello di Lilli Gruber, parlamentare europea dal 2004 al 2008 (eletta dalla Lista Uniti nell’Ulivo), prima di assumere nel settembre 2008 la conduzione della trasmissione Otto e mezzo, che va attualmente ancora in onda su La7. Nella sua stessa lista fu eletto all’europarlamento anche Michele Santoro, celebre giornalista televisivo. Piero Marrazzo, dopo l’esperienza alla guida della Regione Lazio dal 2005 al 2009, è tornato al giornalismo in Rai. Francesco Storace, che guidò la stessa Regione dal 2000 al 2005, e fu ministro nel terzo governo Berlusconi – oltre che deputato e senatore – è stato nominato vicedirettore vicario de Il Tempo nel luglio 2020.
Prima di lui, anche Piero Badaloni, storico volto del Tg1, alla fine dell’esperienza da presidente della Regione Lazio è tornato a fare il giornalista. Un elenco non di certo esaustivo, ma che dà l’idea di come negli anni il passaggio da un mestiere all’altro sia diventato mano a mano più fluido, avvicinando il quarto potere alla politica: quella stessa espressione del potere su cui i giornalisti dovrebbero vigilare.
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