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Il ritorno a Bologna e l’abbraccio della sua città d’adozione: vi racconto il giorno più bello di Patrick Zaki

Immagine di copertina
Credit: Maurizio Tarantino/TPI

L’arresto tre anni fa. Il calvario del carcere. E del processo infinito. Ma alla fine è arrivata la grazia. E il commosso rientro nella comunità che l’aveva accolto. Così il capoluogo emiliano ha riabbracciato il giovane egiziano. Senza mai dimenticare Giulio Regeni e chi non ce l’ha fatta. Il racconto da Bologna dell'inviato di TPI

«Consiglio a Zaki di ricordare il più possibile e dimenticare il meno possibile, di non temere delle persone che lo assalgono accusandolo di ingratitudine, perché di grata deve solo ricordare quella che lo separava dalla libertà, non dimenticando quindi i 60mila “amici”, tra cui giornalisti, attori, artisti, che sono ancora dietro le grate e subiscono l’ingrato oblio di una società che rischia di dimenticare chi sono e che cosa hanno fatto». Alessandro Bergonzoni, fuori dalle aule del rettorato dell’Università di Bologna dove si è tenuta la conferenza stampa con consegna del diploma di Laurea in “Letterature moderne comparate e post-coloniali” a Patrick Zaki, commenta così l’agognata liberazione del giovane per cui si è speso in prima persona negli ultimi 3 anni con appelli, spettacoli e sit-in di protesta.

Una storia lunga
Non poteva esserci clima migliore ad accogliere l’arrivo del ricercatore egiziano nella sua Bologna. La sede del rettorato dell’Università che, poco dopo il primo fermo di Zaki il 6 febbraio 2020, a voce dell’ex rettore Francesco Ubertini e della sua professoressa Rita Monticelli, chiese al governo egiziano la liberazione del suo studente nel nome dell’indipendenza della scienza e del libero pensiero espresso nell’esercizio intellettuale della ricerca. 

Già dal giorno dopo l’arrivo della notizia della carcerazione, i sit-in spontanei in Piazza Scaravilli auto-convocati dalla sempre viva comunità studentesca bolognese accesero i fari sul fatto che uno studente, uno di loro, fosse stato arrestato con l’accusa falsa di incitazione al terrorismo e tentativo di rovesciare il regime egiziano, per un reato d’opinione espresso a mezzo social e per aver scritto una tesi di laurea sull’omosessualità, sfidando il governo egiziano. Da allora, grazie soprattutto agli studenti, i suoi compagni di corso, i collettivi e la società civile bolognese, supportata dalle istituzioni dell’Università e del Comune di Bologna, la lotta per la liberazione di Zaki ha superato i confini del quartiere universitario per diventare nazionale e internazionale.

Fuori dal portone del rettorato l’Università era ancora più presente, ed erano gli studenti e i compagni e amici di Zaki che lo aspettavano per abbracciarlo: c’era, oltre ad Alessandro Bergonzoni, attore e attivista, Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia che, da sempre in prima linea nella difesa dei diritti umani, è stata, al pari dell’Università, l’organizzazione che più di tutte ha contribuito alla sua liberazione. C’era poi Gianluca Costantini, l’artista che produsse la prima immagine diventata virale in ogni parte del mondo, rappresentante lo studente Patrick avvolto dal filo spinato. Quell’immagine fu esposta per volontà dell’allora Assessore alla Cultura, Matteo Lepore, su un enorme telo pubblicitario in Piazza Maggiore al fianco di San Petronio, diventando un’immagine iconica della piazza per tutto il periodo del lockdown. L’immagine campeggia ancora oggi sotto le due torri.

Era inoltre presente Moreno Zoli scrittore forlivese e fondatore dell’Associazione Station to Station, che nella primavera del 2021 lanciò la raccolta firme per la cittadinanza onoraria a Patrick Zaki, raccogliendo 313mila adesioni. La raccolta si concretizzò in una mozione parlamentare appoggiata da Pd e M5S e poi diventata bipartisan ad eccezione di Fratelli d’Italia, allora all’opposizione. Al Senato ebbe come prima firmataria Liliana Segre, oltre a diversi parlamentari come Micaela Montevecchi, già senatrice del M5S, anche lei presente davanti al rettorato. La mozione di richiesta di cittadinanza fu però messa in un cassetto dall’allora primo ministro Mario Draghi, che la definì come non prioritaria.

Il dovere prima di tutto
Tutta la conferenza stampa è stata seguita dagli attivisti grazie alla diretta streaming, con cori e applausi quando lo studente egiziano ha ricevuto il diploma di Laurea dal rettore Giovanni Molari e in particolare quando Patrick, definendo Bologna una “città libera”, ha chiesto giustizia per Giulio Regeni. Passaggio tutt’altro che scontato, che delinea la maturità del ricercatore e attivista dei diritti umani e che avverte sulle sue spalle il peso di un’eredità che il carcere gli ha lasciato sulla coscienza: il dovere – pur nel ringraziamento ad Al-Sisi per la grazia concessagli – di rappresentare tutte le persone ingiustamente incarcerate che non ce l’hanno fatta, che sono morte o sono ancora lì rinchiuse. 

Lo stesso Regeni non ha avuto la stessa fortuna di trovare dalla sua parte un’Università che ne chiedesse giustizia: Cambridge (l’ateneo per cui Giulio lavorava) non si è mai spesa in maniera evidente per chiedere la verità sul suo ricercatore e il fatto che sia Zaki oggi a chiederlo gli attribuisce una forte autorevolezza. Ma Zaki sa che oltre i confini della sua Bologna molto c’è ancora da fare: la detenzione sembra averlo forgiato interiormente. Egli porta in mente i nomi dei compagni come Shady Habash, regista egiziano rinchiuso solo per aver prodotto un video musicale. Il regista era agli arresti nel carcere di Tora – lo stesso della detenzione di Zaki – dove l’8 maggio del 2020, pochi mesi dopo l’arresto di Zaki, moriva dopo due anni di ingiusta detenzione e dopo aver scritto alla madre l’ultimo appello: «Resistere in prigione significa impedire a te stesso di diventare pazzo o lentamente di morire… ho bisogno più che mai del vostro sostegno». 

Queste le vicende, le paure, che oggi fanno di Zaki non più lo studente di master che girava per i vicoli della Bologna studentesca, ma l’uomo che nell’aula del rettorato, dinnanzi alla stampa internazionale, dichiara: «Non ignoro che, mentre sono qui, a Roma si svolge il vertice mediterraneo sull’immigrazione. Spero che l’Italia e la Ue assumano la responsabilità di rispondere a quelle che sono le reali cause delle immigrazioni in Europa. Io sono qui come difensore dei diritti umani, un impegno che non finisce con il perdono presidenziale. Il mio impegno sui diritti umani riparte, a cominciare da oggi. Non dimentico, né chiudo la porta dietro le mie spalle lasciando solo chi è rimasto ancora dentro. Non posso non parlare di Ahmad Douma e Abdel Fatah».

Lotta per i diritti
Con queste parole Zaki sottolinea il carattere e il senso profondo della battaglia per i diritti: ha approfondito la conoscenza con gli attivisti egiziani protagonisti di quella Primavera araba che tanta speranza offrì al Mediterraneo e al mondo intero e che invece si è rivelata un’occasione mancata nei Paesi del Nord Africa e nel Medio Oriente. 

Ahmad Douma è stato uno dei protagonisti di Piazza Tahrir e della caduta di Hosni Mubarak. Attivista per i diritti dei palestinesi, è rinchiuso nelle carceri egiziane da oltre dieci anni. Abdel Fatah attivista per la democrazia, blogger e protagonista simbolo della Primavera araba, è rinchiuso nel carcere di Waidi al Natrun, nel deserto, dove molti giovani, detenuti da quando erano minorenni, hanno minacciato un suicidio di massa. Fatah è in sciopero della fame da molto tempo e ha anche interrotto le 100 calorie assunte al giorno che gli permettevano di sopravvivere. Ai detenuti di questa prigione non è inoltre concesso di vedere i familiari.

Zaki che, rifiutando il volo di Stato e ringraziando «il governo Meloni per l’impegno di questi giorni e tutti gli italiani per l’impegno degli ultimi tre anni», già vuole dare il segno del suo ruolo in questa storia. 

Quando tutti sono andati via e la conferenza stampa è finita, Alessandro Borgonzoni mi dice: «A me piace parlare di “congiungivite”: tutte le vite sono congiunte e Patrick è congiunto anche con le persone che in Tunisia, in Libia, sono trattenute per nascondere la verità. Il deserto, che è anche politico, sta diventando un deserto dove si muore: ci sono persone che non sono chiuse in una gabbia, ma sono state mandate via per morire sotto al sole. Patrick non può essere da solo, va aiutato e la politica non deve divorarlo».

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