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Strage di migranti a Cutro, l’ammiraglio Vittorio Alessandro a TPI: “Potevamo salvarli ma per la politica i soccorsi sono l’ultima cosa”

Immagine di copertina
Credit: AP Photo

“I partiti hanno altre priorità. Puntano a contenere gli arrivi. E salvare vite in mare è diventata l’ultima cosa”. L’ammiraglio della Guardia Costiera in congedo Vittorio Alessandro a TPI: “Con l’estate temo altre tragedie”

«Credo che ci sia il rischio, con la bella stagione e gli arrivi consistenti, che ci possano essere delle risposte orientate sempre di più sul piano del contenimento e sempre meno sul piano dei soccorsi. Siamo reduci da anni in cui, di fatto, il soccorso è diventata l’ultima cosa da fare. Meglio evitarlo. Questo lo hanno capito le navi, lo hanno capito i pescherecci. Gli unici a non capirlo sono i volontari delle ong che continuano a fare i soccorsi e si beccano le bastonate, sanzioni». Il contrammiraglio Vittorio Alessandro, ex portavoce del Comando generale delle Capitanerie di porto adesso in congedo, ha trascorso 31 anni nella Guardia Costiera. Lancia l’allarme su come la politica abbia modificato la mentalità e le procedure applicate al salvataggio dei migranti nel Mediterraneo.

Sono passati giorni dalla tragedia di Cutro e nessuno nel governo è riuscito a spiegare in modo chiaro, puntuale, preciso cosa è successo quella notte e perché qualcuno ha scelto di coinvolgere la Guardia di finanza al posto della Guardia costiera. Cosa ne pensa?
«È evidente che nessuno ha decretato che la barca dovesse schiantarsi sulla spiaggia, è naturale. Ritengo inoltre non sia piacevole vedere un organismo che scarica su un altro le responsabilità. Il problema è vedere esattamente quale meccanismo si sia innescato. Ossia, perché una barca oggettivamente in pericolo sia stata lasciata al proprio destino, non volendo. Il motivo lo vedo nell’iniziativa intrapresa fin dall’inizio di leggere la vicenda soltanto come una vicenda di polizia. Cioè un’esigenza soltanto di controllo anti-immigrazione. Cose così succedono quando non si ha più l’allentamento all’applicazione del principio di precauzione. Ovvero, in una situazione che potrebbe concludersi felicemente io intravedo anche da lontano elementi che possono farmi pensare al peggio e agisco rischiando di sbagliare per eccesso di prudenza».

Come è sempre stato.
«Come è previsto che sia, perché nelle regole del soccorso (le procedure Sar) c’è una fase – la primissima – che si chiama Alerfa, ed è la fase in cui ancora non è detto che il pericolo sia conclamato – però è una fase del soccorso. Certo può concludersi immediatamente quando si accerta che questo pericolo non c’è».

Esistono degli elementi per attivare questa fase e in questo caso c’erano?
«Nel caso di Cutro c’erano tutti. Nel considerarli vediamo come nel tempo si sia abbassata la soglia di attenzione. Prima di tutto c’era una barca con molte persone a bordo, e questo era stato rilevato dai sensori termici. Era un’imbarcazione con lo scafista, che veniva sulla rotta dei migranti, un caicco, di provenienza turca. Questo è stato rilevato, tanto è vero che il messaggio Frontex è stato rivolto poi a Varsavia e alla Guardia di Finanza. Lì poi è scattata la polizia. Quello è un elemento però che anche sotto il profilo del soccorso ha una sua rilevanza. Perché era una barca con ogni probabilità sovraffollata, e la fotografia che è stata rilevata mostra un bassissimo livello di galleggiamento, quindi c’era del peso. Secondo punto: il mare, che in quel momento poteva non essere molto agitato ma che i bollettini davano in peggioramento, poi è diventato “terribile”. Due motovedette della Guardia di finanza tornano in porto. Punto tre: la barca andava verso terra, non avendo chiamato soccorso, era certo che non sarebbe andata in porto per via degli scafisti. Verso la costa ha trovato le dune di sabbia ed è bastato questo per la tragedia, perché il mare agitato verso costa ha onde ancora più pericolose e agitate. Difficili da gestire. La barca è stata capovolta ed è successo quello che sappiamo. Tutti elementi che avrebbero dovuto indurre a una forte attenzione.»

Meloni ha detto: “Non ci sono arrivate indicazioni di emergenza da Frontex”.
«Bisognerebbe rispondere che purtroppo ormai nella conduzione del soccorso si considera in pericolo l’imbarcazione che, o si è capovolta, o ha il motore spento. Le imbarcazioni che ancora navigano sono lette ormai dai procedimenti ispirati per lo più alla politica del contenimento degli arrivi come fenomeno migratorio e quindi affrontati con procedure di polizia. Per gli arrivi a Lampedusa, per esempio, si parla di imbarcazioni autonome, arrivate fortunosamente a terra, per le quali non si è aperto un evento Sar. Una soglia che non considera la precauzione, quindi quanto accaduto a Cutro poteva succedere a Lampedusa come altrove e potrà succedere ancora una volta».

Fino ad oggi era solo “andata bene”?
«Credo di sì, ma è il momento di correggere il tiro. Adesso è una prassi che antepone all’urgenza del soccorso l’esigenza di polizia».

Va individuato anche il momento politico che ha fatto un po’ da rottura rispetto al passato, ricordiamo che ci sono stati episodi in cui la Guardia costiera si è imposta anche rispetto alla volontà di questo o quel ministro.
«Poi però è successa una cosa importante: con Minniti si è spostato in mare il discorso del contenimento. Restano fuori dal porto anche due motovedette della Guardia costiera, colpevoli di aver salvato persone. Si crea così un precedente psicologico importante. E restano fuori dal porto anche una nave militare che aveva salvato persone e unità mercantili. Per cui a un certo punto il presidente di Confitalia dice in assemblea: “Le navi devono lavorare, ci chiamate, facciamo il soccorso e poi ci fate perdere i soldi davanti al porto con le navi bloccate?”. Si apre così anche un discorso economico che mette in gioco la voce degli armatori.

Resta traumatico che un soccorso non si concludesse con lo sbarco in terra e che persone che si erano impegnate per i salvataggi, persino unità di Stato, venissero incolpate e le navi della Guardia costiera indicate come i taxi del mare. C’è un solco profondo in tutti in quelli che operano in questo campo.

Oggi gli equipaggi della Guardia costiera stanno facendo un grandissimo lavoro a Lampedusa, ma è un lavoro silenzioso e perfino esposto alle critiche. Tutti hanno pensato che l’azione nei confronti delle Ong potesse funzionare solo contro di loro, Ong = pull factor. Oggi ormai sono neutralizzate, in mare restano le motovedette. Ma se domani qualcuno venisse a dire che anche le motovedette sono pull factor? Cosa accadrebbe? Ci abituiamo ai morti; adesso piangiamo ma anche l’indifferenza interviene. Il mare è una dimensione che impone delle riflessioni».

C’è paura di agire. Ma non agire è comunque fare una scelta.
«Esattamente. Credo che la Guardia costiera vada difesa e le vada restituita un’indipendenza nell’azione. Ma non so se il ministro dei Trasporti sia in grado di fare questo».

Come si risolve la situazione?
«La Guardia costiera deve ritrovare la propria autonomia e non sottostare ai meccanismi di super controllo di polizia. Di questo sono sicuro. Temo che sui grandi arrivi che ci aspettano, e probabilmente anche altri lutti, a un certo punto si dica solo: “Fermiamo le partenze”. Le partenze non si fermano dall’oggi al domani e sul fermare quelle in Libia sono perplesso. Siamo riusciti a fermare le partenze dall’Ucraina? E perché dovremmo fermarle? Credo che ci sia il rischio, con la bella stagione e gli arrivi consistenti, che ci possano essere delle risposte orientate sempre di più sul piano del contenimento e sempre meno sul piano dei soccorsi».

Chissà che non vedremo il blocco navale…
«Eh, ci allontanerebbe dalla nostra civiltà giuridica, marinara». 

Emergerà la verità sulla vicenda di Cutro?
«Ho dei dubbi. È più facile, anche per i nostri meccanismi italiani e su cui viene portata l’opinione pubblica, che si trovi il capro espiatorio e poi che le cose rimangano come sono».

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