Prima o poi Meloni dovrà scegliere fra sovranismo e “deep state”
La linea del capo di Fratelli d’Italia è non darla vinta al pensiero unico, ma il gioco è destinato a finire: se vuole proseguire sulla strada europea, prima o poi Meloni dovrà accettare di avere dei nemici a destra. Estratto del libro "Metamorfosi Giorgia" di Amedeo La Mattina (Linkiesta Books)
La saggistica sul sovranismo e sul populismo degli ultimi dieci anni ha affollato le librerie in tutto il mondo e ha evidenziato le peculiarità nazionali di un fenomeno politico e sociale che in Italia è stato espresso, come al solito in maniera originale, da diversi partiti.
Vecchie forze politiche, travestite da nuove, e vere novità hanno reso incandescente una campagna elettorale permanente per poi piegarsi alla realtà una volta conquistato il potere.
La tesi centrale di questa vasta saggistica è la dicotomia popolo versus élite, insurgents contro mondialisti che affamano le popolazioni. Mentre sfuma la distinzione destra/sinistra. O viene ribaltata dalla narrazione sovranista e populista: la destra si schiera con gli arrabbiati, la sinistra con l’establishment privilegiato.
La pancia degli elettori impoveriti dalla deindustrializzazione e dalle tecnologie che divorano i lavori tradizionali si contorce. Le identità nazionali, aizzate, costruite e presuntuose, sono utilizzate come propellente dei nazionalismi. I barconi traghettano in Sicilia migliaia di uomini, donne, bambini dalla pelle scura, alimentando il timore degli italiani di perdere uno status sociale già scivolato verso il basso.
In giro per il mondo, i forgotten men mandano al potere palazzinari come Donald Trump e impresentabili come Jair Bolsonaro, uno che ha svenduto agli speculatori un pezzo dell’Amazzonia. La Gran Bretagna esce dall’Europa e l’Europa si punteggia di organizzazioni radicali che promettono ricette tanto miracolose quanto false.
Alla prova del governo, il Re è sempre nudo. Rimane comunque impressionante come il popolo frustrato e impoverito si identifichi nei miliardari, in Silvio Berlusconi come in Trump, e metta nelle loro mani il proprio Paese e il proprio destino.
Questa tesi di fondo è però parziale. Non è del tutto vero che sovranisti e populisti vincano le elezioni, come è accaduto in Italia il 25 settembre del 2022, facendo leva soltanto sull’esasperazione dei diseredati, dei disoccupati, dei sottopagati confinati nelle periferie del mondo.
Insomma, la teoria dell’underdog Giorgia Meloni che scala le vette della politica è solo una parte della storia, una delle tante versioni della favola di Cenerentola. È abbastanza banale constatare che l’elettorato del centrodestra sia molto più vasto dei patrioti e degli arrabbiati.
I patrioti in purezza non sono poi così tanti, gli arrabbiati sono un po’ di più, ma i “patrioti interessati” alle tasse e alle loro tasche sono ancora più numerosi. E non sono né il popolo né i poveri della “rust belt” americana.
Il successo elettorale di Giorgia Meloni ha una forte radice nel berlusconismo, nell’irresistibile promessa meno tasse per tutti. Fu Silvio Berlusconi, scomparso il 12 giugno 2023, a coniare l’espressione “Mettere le mani nelle tasche degli italiani”. Un’espressione di grande impatto mediatico, usata dal leader di Forza Italia in tutte le campagne elettorali fin dagli anni Novanta del XX secolo: la utilizzò contro Romano Prodi, quando il professore di Bologna governava con l’Ulivo, e anche quando lui stesso era a Palazzo Chigi («Stiamo mantenendo gli impegni senza mettere le mani nelle tasche degli italiani»).
Nel 2006 Berlusconi perse le elezioni per un soffio (poco meno di 25 mila voti) dopo avere annunciato, durante un faccia a faccia televisivo con Prodi, che avrebbe abolito l’Ici sulle prime case. Due anni dopo, il fondatore di Mediaset puntò tutta la sua propaganda sulla cancellazione della “tassa più odiata dagli italiani” (dai proprietari di casa) e vinse a mani basse.
Nel primo Consiglio dei ministri il centrodestra mantenne la promessa. I tantissimi “patrioti interessati”, diciamo anche quelli che avevano sempre votato a sinistra, esultarono e ringraziarono. Gli interessi sono una delle cose più trasversali che esistano nella natura umana. […]
Dalla destra più radicale hanno cominciato a sentirsi i primi bisbigli sul tradimento, che riecheggiano quella vecchia e anacronistica accusa di “badoglismo” che ha sempre bruciato la pelle degli eredi del Msi.
Alcuni esponenti di Fratelli d’Italia, a cominciare da Giovanni Donzelli, si sono coperti a destra prendendo addirittura le distanze dal loro ministro della Difesa, Guido Crosetto, un conservatore liberale che ha sollevato dal suo incarico il generale Roberto Vannacci, ex capo della Folgore, per alcune affermazioni chiaramente omofobe e razziste, contenute in un libro auto pubblicato con il titolo “Il mondo al contrario”.
Se mai fosse possibile, ancora peggiori sono le considerazioni del militare sulla Russia di Vladimir Putin, che sarà pure una dittatura, ammette il generale, ma vuoi mettere la sicurezza che c’è nelle strade e nei parchi di Mosca…
La reazione del ministro della Difesa non è stata casuale. È stata la reazione a un nervo scoperto che attraversa sia il mondo politico sia quello militare. E che è legato a doppio filo alla posizione netta del governo italiano nel conflitto ucraino e alle critiche, più o meno velate, alla scelta fortemente atlantista della premier.
Il libro di Vannacci galvanizza i tifosi di Vladimir Putin e dell’offensiva identitaria contro la metamorfosi atlantista di Meloni. È proprio il discrimine di politica estera e di sicurezza nazionale che Crosetto non poteva tollerare: non si trattava delle libere opinioni di un politico, ma di quelle di un militare in servizio.
Il ministero della Difesa deve rendere conto alla Nato e al Pentagono, oltre che al capo dello Stato che è il comandante delle Forze armate.
Come ha rivelato su “La Stampa” Francesco Grignetti, si sono drizzate le orecchie agli Stati Maggiori che hanno messo in moto «uffici molto riservati» per capire che cosa si stesse muovendo, in seguito alle parole di Vannacci, nel mondo dei militari in servizio.
Più in generale c’è il risveglio inquietante di tutta la galassia nera, fatta di piccole sigle e di ex ufficiali in pensione che vorrebbero forti dosi di tradizionalismo e di antiamericanismo.
Anche Salvini è saltato sul cavallo più selvaggio della destra che denuncia “il mondo al contrario” ed è pronto a imbarcare Vannacci per fregare Giorgia. Dall’oblio è riemerso anche Gianni Alemanno, l’ex sindaco non memorabile di Roma e del periodo Mafia capitale: ha sentito odore di sangue e si è piazzato al limite estremo della destra antiamericana e sociale, aspettando di capire se si possa aprire una faglia nel consenso di Meloni sul terreno dove il governo è più debole. Che non è quello dei “fascistoni” con e senza stellette. E non è neanche quello, sdrucciolevole, dei diritti civili.
L’elettorato tipico della Meloni la pensa come Vannacci, mentre quello più ampio del centrodestra guarda all’economia. La tenuta del consenso passa per i “patrioti interessati”, i quali non guardano il dito occasionale, ma la luna di miele composta dalle manovre economiche e dalle promesse elettorali da mantenere.
Il resto, per chi ha sempre votato e continua a votare da quella parte, sono chiacchiere per riempire i giornali. Quello del generale Vannacci, in precedenza apprezzato per il suo comportamento in alcuni scenari di guerra e per le capacità da lui dimostrate in quelle occasioni, è solo un “caso” che ha fatto scattare la ola in un certo elettorato di destra e ha portato il suo libro a essere primo in classifica.
Ed è un caso che sarà dimenticato presto, come quello di Marcello De Angelis, l’ex militante di un’organizzazione estremista che, mentre ricopriva il ruolo di responsabile della comunicazione della Regione Lazio (incarico dal quale si è poi dimesso), aveva negato la responsabilità dei neofascisti nella strage di Bologna. Di casi del genere ce ne saranno ancora tanti altri: gli armadi della destra sono pieni di scheletri e di scorie postfasciste e neofasciste.
Il rischio di scivolare e di farsi veramente male per Meloni è legato però ai dossier economici, mentre la premier rimane volutamente ambigua su certi temi. Corre in maniera schizofrenica. Usa due registri politici: il registro identitario, per non spezzare il cordone ombelicale delle origini, e quello istituzionale, che la porta a fare scelte di politica finanziaria e una serie di nomine in continuità con i precedenti governi.
Coltiva la comfort zone, per non scoprirsi a destra, ma anche quello che i suoi chiamano “deep state”, per essere sicura che la macchina dello Stato non vada a sfracellarsi contro un muro. È un’antinomia che a un certo punto mostrerà la corda, ma è anche un gioco di equilibrismo calibrato, una trappola ben studiata in cui casca sempre la sinistra.
Più l’opposizione strilla, ed è costretta a strillare, e più l’elettorato della destra-centro si compatta attorno a Meloni, dimenticando il resto. Anche in questo lei è l’erede di Berlusconi.
Il Cavaliere ha vinto ed è sopravvissuto all’opposizione per vent’anni grazie a un bipolarismo ottuso e muscolare, senza confini di interlocuzione. Eppure, ci sarà un punto oltre il quale la furba antinomia diventerà irrimediabile.
La linea del capo di Fratelli d’Italia è non darla vinta al pensiero unico, ma il gioco è destinato a finire: se vuole proseguire sulla strada europea, prima o poi Meloni dovrà accettare di avere dei nemici a destra. Senza per questo sentirsi risucchiata e omologata al mainstream. Non è infatti un problema che si pongono i Popolari europei, con i quali vuole governare l’Unione europea. E sicuramente è l’ultima delle preoccupazioni di Ursula von der Leyen.