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Melonocracy: ecco chi c’è nella rete di potere di Giorgia

Immagine di copertina

Patrizia Scurti. Al grande pubblico il nome probabilmente non dirà niente, ma a Palazzo Chigi, quando parla lei, stanno tutti zitti ad ascoltare. Tutti, ma proprio tutti. Anche la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che infatti l’ha scherzosamente ribattezzata «la mia padrona». Altri la chiamano «Wolf», come il personaggio cult di Pulp Fiction che si presentava dicendo «Risolvo problemi».

La descrivono come una macchina. Infallibile, implacabile, immancabile. «Non c’è nulla della mia vita che non passi da lei», ha scritto la leader di Fratelli d’Italia nella sua vendutissima autobiografia “Io sono Giorgia” (Rizzoli, 2021). 

Patrizia Scurti, di professione capo della Segreteria particolare della presidenza del Consiglio, affianca Meloni ormai da diciassette anni. È la sua assistente-ombra. Fu Gianfranco Fini a farle incontrare: era il 2006 e da allora non si sono più separate.

Di lei si sa pochissimo: sul sito del Governo il suo curriculum vitae non è stato pubblicato, né ha profili social da sbirciare. Di certo ha qualche anno più della premier, ma non conosciamo data e luogo di nascita. Sappiamo solo che in passato ha fatto parte dello staff di Fini, che oggi guadagna quasi 180mila euro all’anno e che suo marito è il capo scorta di Meloni (perché tutti tengono famiglia, specialmente nella “grande famiglia” dei patrioti). 

Scurti tiene l’agenda della presidente, sussurra alle sue orecchie se c’è un inghippo, presenzia ai bilaterali con i capi di stato e di governo. A Palazzo Chigi condivide il ruolo di braccio destro della premier con Giovanbattista Fazzolari, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, detto «Spugna», dal nome del fedelissimo nostromo di Capitan Uncino. È da loro due che parte la rete del potere meloniano.

Spugna& Co.
Se Scurti è la factotum, Fazzolari è considerato l’ideologo di Meloni: la presidente lo ha definito addirittura «la persona più intelligente che abbia mai conosciuto». 

Nato 51 anni fa a Messina, cresciuto tra Francia, Argentina e Turchia al seguito del padre diplomatico, «Spugna» ha iniziato a fare politica sul finire degli anni Ottanta, militando nelle squadre romane del Fronte della Gioventù. Laureato in Economia, conosce la futura premier negli anni Novanta, ai tempi di Azione Giovani. I due legano fin da subito.

Quando lei diventa vicepresidente della Camera (prima) e ministra della Gioventù (poi), se lo porta sempre con sé nel suo staff. Nel 2012 Fazzolari partecipa alla scissione degli ex missini dal Pdl e alla fondazione di Fratelli d’Italia. Sei anni dopo viene eletto con i “patrioti” al Senato, seggio che conferma alle ultime politiche. In entrambi i casi da candidato in un collegio plurinominale. 

Non è abituato a stare in prima linea. Preferisce consigliare, argomentare, manovrare nelle retrovie, tanto che c’è chi lo ha soprannominato «il Gianni Letta di Fdi». Nell’ultimo anno sono passate per il suo ufficio e per il suo telefono gran parte delle nomine di Stato. Ha suscitato polemiche quella recente di uno suo lontano cugino, Rocco Bellantone, alla guida dell’Istituto Superiore di Sanità, così come aveva fatto rumore nei mesi scorsi la sua proposta – che però lui nega di aver mai fatto – di insegnare a sparare nelle scuole. Polveroni mediatici che tuttavia non hanno minimamente scalfito la stima di Meloni nei suoi confronti.

Il mese scorso la premier ha ulteriormente rafforzato il potere del suo uomo di fiducia aggiungendo alla carica di sottosegretario quella di coordinatore della comunicazione del governo.

Tra i sottosegretari alla presidenza del Consiglio, peraltro, la delega più delicata – quella ai Servizi Segreti – non è nelle mani di Fazzolari, ma in quelle di Alfredo Mantovano, un’altra figura chiave del potere ai tempi di Giorgia. È a lui che Meloni ha affidato la riforma dell’intelligence che forse porterà all’accorpamento dei Servizi interni ed esterni sotto un’unica struttura. 

Magistrato di lungo corso, linguaggio felpato, importanti entrature sia al Quirinale sia in Vaticano, Mantovano – 65 anni, leccese – è stato in passato parlamentare di Alleanza Nazionale e del Popolo della Libertà, ricoprendo anche per due volte la carica di sottosegretario agli Interni, mentre non si è mai iscritto a Fdi.

La premier lo stima profondamente: quando si tratta di questioni giuridiche, è lui a dettare la linea di Palazzo Chigi. Anche a costo di entrare in rotta di collisione con altri ministri. Per informazioni, chiedere a Nordio o Piantedosi.

Nomine
Al tavolo del Consiglio dei ministri, il più vicino alla presidente, per ovvie ragioni, è Francesco Lollobrigida, marito di Arianna Meloni, la potente sorella di Giorgia, recentemente incaricata di guidare la segreteria politica di Fdi. 

Malgrado qualche sporadica frizione, resta solido anche l’asse fra la premier e Guido Crosetto, il titolare della Difesa che nel 2012 partecipò alla nascita di Fratelli d’Italia. Tra i due, nei mesi scorsi si creò tensione per la nomina del nuovo comandante della Guardia di Finanza, con il ministro che – giocando di sponda con il Mef del leghista Giorgetti – aveva provato (invano) a ostacolare l’investitura di Andrea De Gennaro, sponsorizzata proprio da Meloni.

A proposito di nomine, nei prossimi mesi sarà interessante vedere se cambierà qualcosa alla Banca d’Italia con il nuovo governatore, Fabio Panetta, anche lui scelto dalla presidente del Consiglio, che già lo voleva fare ministro dell’Economia. Panetta, proveniente dal board della Bce, sarà chiamato in particolare a mediare con l’Eurotower sulla politica monetaria restrittiva portata avanti negli ultimi quindici mesi.

Il 2023 è stato l’anno del rinnovo della governance per molte grandi partecipate di Stato. Su questo fronte, però, Meloni – coadiuvata come detto dal prode Fazzolari – in molti casi (vedi Enel e Leonardo) ha dovuto cedere il passo agli alleati, accontentandosi di blindare la conferma di Claudio Descalzi alla guida di Eni e di piazzare la new entry Pasqualina Di Foggia (ex Vodafone) al vertice di Terna.

Non va sottovalutato, peraltro, il commissariamento dell’Inps, sottratto a Pasquale Tridico e affidato alla tecnica Micaela Gelera: all’Istituto della Previdenza Sociale il cambio della guardia – consumatosi appena quattro mesi fa – ha già provocato stravolgimenti nella metodologia con cui vengono condotte le rilevazioni. Tutti ovviamente favorevoli alla narrazione della destra su povertà e lavoro.

Intanto è ormai un dato acquisito la “melonizzazione” della Rai, da Pino Insegno (prossimo conduttore de L’Eredità) a Gian Marco Chiocci (neo-direttore del Tg1), da Paolo Petrecca (RaiNews24) all’intellettuale Marcello Veneziani, fino al sempreverde Bruno Vespa, passando per gli addii – più o meno indotti – dei vari Fabio Fazio, Lucia Annunziata, Bianca Berlinguer, Roberto Saviano.

L’amministratore delegato Carlo Fuortes, di nomina draghiana, è stato spinto alle dimissioni e sostituito con il democristiano Roberto Sergio, ma l’anno prossimo, quando il cda andrà in scadenza, su quella poltrona dovrebbe sedersi Giampaolo Rossi, appena nominato direttore generale.

Romano, 55 anni, archeologo di formazione, «marinettiano» per autodefinizione, Rossi è un ultraconservatore che in passato ha rivolto dure accuse anche al presidente della Repubblica Mattarella.

Quando gli viene chiesto se intende dare compimento alla famosa «egemonia culturale della destra», lui risponde di no: «Voglio solo far respirare la cultura di questa nazione», assicura. Ma poi ammette che sogna una fiction che esalti l’Impresa fiumana di D’Annunzio. Altro che il commissario Montalbano: tele-Meloni è roba da patrioti veri.

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