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Mario Draghi e la “triade” del potere Di Maio-Giorgetti-Franceschini

Immagine di copertina
Giancarlo Giorgetti, Luigi Di Maio e Dario Franceschini. Credit: Ansa

C’è una convinzione comune nei palazzi del potere, ovvero che il governo sia come una matrioska: ci sarebbe quello politico, che vale poco; e poi ci sarebbe quello “vero”, quello di Mario Draghi, retto principalmente dai suoi uomini ombra, Franco e Garofoli. Ma all’ombra di quello che appare essere per certi versi uno degli esecutivi più atipici della storia della Repubblica, c’è un filo conduttore che lega in modo indissolubile tre figure. Tre figure che ancora oggi appaiono centrali nelle dinamiche di Palazzo e che alcuni considerano persino determinanti.

Il primo è Luigi Di Maio, il secondo è Dario Franceschini, il terzo è Giancarlo Giorgetti. I tre costituiscono l’ossatura di una nuova compagine silenziosa. Si sentono continuamente, si incontrano, si parlano. Tutti e tre condividono ormai un solido rapporto di amicizia reciproca. Tutti e tre (e sono pochissimi a poterselo permettere) hanno un filo diretto con Mario Draghi.

Tutti e tre incarnano l’essenza del deep state, lo “stato profondo”, muovono pezzi e pedine, lasciano che ogni scelta sembri casuale ma in realtà amministrano, coordinano, incidono. È il caso, ad esempio, della nomina del nuovo sottosegretario allo Sport Valentina Vezzali. In molti pensano che la scelta sia stata di Draghi in persona. Ma non è così. In realtà è stata il frutto di una circostanza occasionale e, in particolare, di un muro alzato proprio da questi tre registi nei confronti dei vertici del Coni, che avevano sperato in altri nomi, ognuno di questi però bocciato senza ipotesi di replica.

Se non sorprende il dinamismo di due veterani come Giorgetti e Franceschini, va spiegato invece il ruolo decisivo che Luigi Di Maio è stato capace di ritagliarsi nell’ultimo anno e mezzo. Oggi la Farnesina può considerarsi una sorta di crocevia di interessi e di destini. Punto di riferimento per le imprese e Confindustria, dopo aver importato l’internazionalizzazione e l’export dal Mise. Bivio cruciale per chi ambisce e chi lascia.

Da Domenico Arcuri al generale Figliuolo, passando per i manager delle più importanti aziende di Stato, non c’è soggetto che da febbraio non abbia chiesto udienza a Luigi Di Maio. Lui accoglie, ascolta, riceve, poi condivide e triangola con chi ritiene. Con la riconferma al ministero degli Esteri la capacità di mediazione e di indirizzo di Giggino è praticamente quadruplicata, vuoi per l’uscita di scena di Conte, attualmente alle prese con la leadership grillina (una leadership che rischia di rimanere vuota, tuttavia, se si considera l’ingombrante presenza di Beppe Grillo), vuoi per le intese trasversali che Di Maio ha saputo stringere nel tempo, come quella con Enrico Letta, che nei giorni scorsi lo avrebbe chiamato in più di un’occasione.

E come quella con lo zio Gianni, che, come siamo in grado di rivelare, ormai Di Maio sente di continuo. L’ex bibitaro prima di chiunque altro ha compreso quali cambiamenti avrebbe sortito il nuovo governo e come un camaleonte ha iniziato ad adeguarsi al nuovo clima. Non saranno sfuggite a chi legge le ultime nomine degli ambasciatori nelle principali capitali mondiali, frutto di un confronto riservatamente avviato dal ministro non solo con il premier, ma anche con il capo dello Stato Sergio Mattarella.

Leggi anche: 1. Letta a capo del PD e Conte leader dei 5 Stelle: la vendetta postuma di Zingaretti

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