“Pensavamo che con Draghi ci sarebbe stata una svolta, ma nel Pnrr le donne sono ancora invisibili”: parla l’economista Azzurra Rinaldi
La Direttrice della School of Gender Economics dell'Università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza commenta la bozza del Pnrr che il Parlamento voterà domani prima dell'invio a Bruxelles. "C'è il rischio che la disparità di genere peggiori"
La bozza del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza messo a punto dalla task force di Draghi delude le associazioni che si battono per la parità di genere e che da un anno chiedono al governo di ascoltare le loro richieste. “Ci aspettavamo una svolta, ma non c’è stata” dice a TPI Azzurra Rinaldi, Direttrice della School of Gender Economics dell’Università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza. “Nel piano manca la visione integrata della capacità di produrre che le donne avrebbero in questo Paese. I fondi per gli asili nido sono 4,6 miliardi, insufficienti a raggiungere l’obiettivo europeo del 60 per cento di copertura. La letteratura ci dimostra che il potenziamento degli asili nido è in grado di agevolare l’ingresso e la permanenza delle donne nel mondo del lavoro. Ma i fondi previsti sono pochi e insufficienti. Allo stesso tempo i fondi per l’imprenditoria femminile sono pochi, siamo a 400 milioni, su oltre 200 miliardi: una percentuale bassissima”, osserva Rinaldi.
Nella valutazione affermavamo che il settore “Green” e “digitale” sono quelli che più penalizzano le donne in termini di imprenditoria ed occupazione. Dunque per questo il grande rischio era che se non ci fossero stati interventi forti sui temi della parità di genere il recepimento di questi fondi avrebbe potuto peggiorare la situazione di disparità di genere invece di migliorarla.
Il piano non fa ben sperare: manca in ogni voce, anche sotto quella della transizione digitale, una componente relativa alla forza lavoro delle donne. Vale lo stesso per la transizione ecologica. L’unica cosa che può aprire uno spiraglio nel piano è la “condizionalità di genere” per l’accesso ai fondi per le aziende private, una norma che fa riferimento a condizioni che le imprese dovrebbero avere in termini di parità di genere per accedere a questi fondi, che si dovrebbe applicare a tutti i settori. Dovrebbe controbilanciare l’assenza di forza lavoro femminile dalle principali Missioni, ma attendiamo di vedere come verrà realizzata e applicata, a quali aziende e con quali percentuali. Al momento la norma dovrebbe valere sullo stato dell’azienda nel momento in cui presenta domanda dei fondi, ma non è specificato in che modo questa deve dimostrare di rispettare la parità di genere. Eppure è l’unico elemento positivo.
Sì, se non c’è visione integrata delle potenzialità legate alla forza lavoro femminile. Tanto è vero che la voce “donne” la troviamo solo nella Missione relativa alla “Inclusione sociale”, ma non in tutte le parti del piano. Nel dettaglio della spesa mi sarei aspettata un impegno più importante.
Potenziamento della forza lavoro femminile. Soprattutto in quei settori a trazione maschile, dove mi sarei aspettata una manovra coraggiosa da un governo come questo, fatto di persone capaci e con esperienza all’estero. Attendevo più coraggio verso la forza lavoro delle donne. Una posizione più forte, di supporto, e la consapevolezza del fatto che c’è bisogno delle donne per far ripartire il Paese. In nord Europa, dove entrambi i genitori guadagnano un reddito, le famiglie sono più ricche e il Pil pro capite è più alto. Dove ci sono due persone che lavorano, poi, lo Stato può avere il doppio del gettito fiscale e, semplificando, il doppio dei servizi. Mi sarei aspettato un ragionamento come questo, che paesi come la Norvegia fanno dagli anni ’70. Ingenuamente pensavo fosse finalmente arrivato il momento anche per l’Italia, invece rimane pressoché tutto come prima.
La situazione è la stessa, c’erano 400 milioni nella bozza di Conte per l’impresa femminile e 400 nella versione di Draghi. Nei 4,6 miliardi per le strutture dell’infanzia cambiano gli stanziamenti a seconda delle fasce di età degli asili nido, ma non posso dire che per le donne la situazione sia stata stravolta rispetto al piano preparato da Giuseppe Conte, che già non ci piaceva. Non vediamo un profondo mutamento. Tutte le azioni delle associazioni e le accademie che si occupano di Gender economics sono state rivolte, durante l’anno, a questo momento di consegna, tante realtà di donne hanno chiesto un vero cambiamento, ma non siamo state ascoltate. Tutto questo è sconfortante. Si parla alla fine di una valutazione d’impatto di genere e non si capisce bene come verrà fatta e da chi. Non ci siamo. C’è grande rammarico da parte delle associazioni, è un’occasione sprecata.
Siamo state inascoltate per un anno, non vediamo perché dovremmo essere ascoltate adesso, in questi quattro giorni che ci separano dalla consegna a Bruxelles. Il mio più profondo rammarico è che le donne sono invisibili. Le donne in Italia, come spesso accade anche nel mondo, sono quelle che si laureano prima e con i voti più alti, un capitale umano che il Paese potrebbe usare per produrre ricchezza. Quello che mi abbatte di più è pensare che il Paese abbia donne capaci, formate, che potrebbero produrre ricchezza, che continuano a rimanere sostanzialmente invisibili. Il lavoro di cura che hanno sulle spalle continua a rimanere un loro problema, se vogliono lavorare e guadagnare denaro è un loro problema. Ma speriamo di poter osservare concretamente un indirizzo che ponga davvero al centro le donne e la loro capacità di creare reddito e occupazione
Ci sono persone brave e capaci, ma questa consapevolezza del ruolo delle donne non si vede. Questo affonda le radici in una questione antica e culturale, le donne fanno welfare gratuito. Prima della pandemia l’Ilo stimava per ogni donna italiana oltre cinque ore al giorno dedicate ad attività di lavoro non retribuito nel 2019. Con il lockdown è aumentato di 15 ore a settimana perché le nonne sono venute meno. Ma un intero sistema economico non si può basare su questo. L’Istat ha fatto una ricerca che dimostra come i nostri giovani vorrebbero fare figli ma ritengono di non essere nella condizione di farlo. Non si tratta della solita narrazione stereotipata dei giovani che non vogliono diventare autonomi, ma gli incentivi a disposizione, come i famosi bonus di 600 euro, non spostano il comportamento degli agenti economici. Io devo sapere che ci sono scuole pubbliche che coprono necessità educative dei miei figli per farli, altrimenti non li faccio. Capisco anche che il Piano non sia stato pensato per una transizione sociale, ma ecologica e digitale, però si poteva fare di più senza dubbio.