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Mario Draghi? In pensione a 59 anni con 14mila euro lordi al mese

Immagine di copertina
Credit: Ansa

“I sindacati pensino anche ai lavoratori di domani”: lo ha dichiarato il premier Mario Draghi all’indomani dello scontro con i leader di Cgil, Cisl e Uil sulla legge di Bilancio e, in particolar modo, sulle pensioni, il tema caldo delle trattative per la prossima manovra finanziaria.

Bellissime parole, peccato che colui che le ha pronunciate, ovvero Mario Draghi, sia di fatto un “baby pensionato”. Il presidente del Consiglio, che si è battuto contro la formula di Quota 100, favorendo di fatto un ritorno alla legge Fornero seppur tra un anno, è infatti andato in pensione con Quota 99.

Lo si evince da un documento già pubblicato su Il Fatto Quotidiano e ora riproposto dallo stesso giornale in cui emerge che Mario Draghi è andato in pensione nel 2006, all’età di 59 anni con 40 anni di lavoro e il riscatto della laurea: esattamente quello che “i lavoratori di domani” non riusciranno mai a fare.

Non solo, l’assegno pensionistico di Mario Draghi, liquidato dall’Inpdap, l’ente previdenziale dei funzionari pubblici poi accorpato all’Inps, ammontava a 14.843,56 euro lordi, ovvero 8.614,68 euro netti.

Attenzione, nessuno mette in discussione le capacità del nostro presidente del Consiglio e il fatto che quei soldi siano stati guadagnati con merito. La brillante carriera di Draghi, che ha ricoperto tra i vari incarichi il ruolo di direttore del Tesoro e quello di governatore della Banca d’Italia, e le sue competenze professionali sono fuori discussione, ma la riflessione da fare è un’altra. Quanti degli attuali giovani o “lavoratori di domani” che dir si voglia arriveranno, pur con ottime referenze e brillanti capacità, a raggiungere la pensione a 59 anni e con un assegno lordo di 14mila euro?

La risposta è facilmente intuibile. Ed è per questo che la “guerra di Mario” a Quota 100 (a cui possono accedere tutti i lavoratori con un’età anagrafica minima di 62 anni che vantano almeno 38 anni di contributi) e la possibile prospettiva di un ritorno alla legge Fornero appaiono ancora più incomprensibili alla luce di questi dati.

Secondo le ultime indiscrezioni, infatti, il governo, in un delicatissimo gioco di equilibri politici e non solo, ha optato per l’eliminazione di Quota 100, così come già largamente preannunciato, optando per una soluzione ponte di un anno, ovvero Quota 102 (che darà dal 2022 al 2023 la possibilità di andare in pensione con 64 anni di età e 38 di contributi) per poi ridiscutere una nuova riforma strutturale delle pensioni.

Questa soluzione piace a tutta la maggioranza , ivi compresa la Lega, e probabilmente anche ai sindacati , dopo la rottura della trattativa su questo tema, perché vi sarebbe insita la possibilità di riaprire, il prossimo anno, una nuova discussione sulla flessibilità in uscita. Ma lo scenario politico e le scadenze istituzionali non facilitano questa soluzione.

Allo stato attuale dei fatti, infatti, secondo lo schema del governo, dal 1 gennaio 2023, si tornerebbe al regime ordinario e, di conseguenza, alla legge Fornero. A gennaio 2022, infatti, si vota per l’elezione del Capo dello Stato, mentre nel 2023 termina la legislatura. Ma l’elezione per il Quirinale potrebbe anche determinare la fine anticipata della legislatura e portare a elezioni anticipate. Questo significa che l’eventuale nuova riforma, o alcuni “aggiustamenti” della Fornero stessa, dovrebbe vedere luce entro i prossimi mesi o potrebbe non “nascere” mai.

Che Quota 100 avesse le sue criticità è fuori discussione, così come è fuori discussione che sia necessario tornare a un sistema per così dire “ordinario” delle pensioni con attenzione a tutte le categorie di lavoratori.

Draghi, da economista, o, come pensa qualcuno più maliziosamente, da banchiere, tende prima di tutto a mantenere i conti in ordine: è chiaro come l’uscita anticipata di numerose persone dal mondo dal lavoro pesi sulle casse dello Stato.

Ma la sensazione è che, ancora una volta, a pagarne le conseguenze possano essere una volta proprio quei “lavoratori di domani” ai quali Draghi ha fatto riferimento nello scontro con i sindacati, anche se egli dichiara che “dobbiamo fare in modo che innovazione e produttività vadano di pari passo con equità e coesione sociale”.

La prospettiva dei giovani di oggi, infatti, ma anche dei quarantenni che ormai vivono in uno stato perenne di precarietà, non è certo quella di poter andare in pensione a 59 anni con 14mila euro lordi di retribuzione. Ecco perché Draghi, facendo tesoro anche della sua esperienza personale, dovrebbe iniziare a pensare veramente ai “lavoratori di domani” permettendo loro quantomeno di non morire di lavoro.

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