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Home » Politica

La viceministra degli Esteri a TPI: “La pace in Ucraina è possibile se apriamo al dialogo”

Immagine di copertina
Illustrazione di Emanuele Fucecchi

Il campo largo mancato, l’opposizione con i 5S, le armi in Ucraina. Marina Sereni, numero due della Farnesina, a TPI: “Occorre riallacciare un filo coi pacifisti”

Orgoglio senza pregiudizi. Il suo è stato uno degli interventi più apprezzati nell’ultima direzione del Pd, riunita per riflettere sulla sconfitta elettorale e convocare il Congresso ri-costituente. A 62 anni, Marina Sereni, viceministra degli Esteri uscente, quattro legislature alle spalle, ex vicepresidente della Camera e del Partito democratico, già Federazione giovanile comunista, poi Pci e Democratici di Sinistra, apre il sipario con orgoglio sul futuro del suo partito all’insegna del rinnovamento e del pacifismo, senza pregiudizi verso l’esterno. «Noi dobbiamo riprendere un dialogo con chi si mobilita per la pace. Non li possiamo affidare tutti al filo-putinismo, non tutti sono filo-putiniani», ha affermato nel conclave dei “dem”.

Da viceministra degli Esteri, lei ha condiviso la linea del governo Draghi favorevole all’invio delle armi all’Ucraina contro l’invasione russa. Come si concilia ora questa posizione con il richiamo alla pace? Ha cambiato orientamento?
«Assolutamente no, non ho cambiato idea. L’aggressione della Russia all’Ucraina è ingiustificata e illegale. Non si può accettare che vengano violati i confini di uno Stato sovrano e che si immagini un ordine internazionale dettato dalle armi e addirittura dalla minaccia nucleare. L’Italia ha fatto benissimo a schierarsi senza tentennamenti al fianco dell’Ucraina aggredita e a sostenere la sua capacità di difendersi. Ma il fine ultimo per il quale dobbiamo lavorare è la pace, la cessazione delle ostilità, il dialogo. L’obiettivo della fine dell’occupazione russa dei territori ucraini e del ripristino della legalità internazionale deve essere perseguito ridando spazio al dialogo e su questo le Nazioni Unite e l’insieme della comunità internazionale non debbono lasciare nulla di intentato».

Come valuta l’ondata pacifista che sta montando, in Italia e nel resto d’Europa?
«Penso che sia giusto ascoltare l’inquietudine dei movimenti e delle associazioni che si mobilitano per la pace, chiedendo loro di essere molto chiari nella condanna della guerra di Putin, senza alcuna equidistanza tra aggressore e aggredito. D’altra parte, la società civile italiana ha saputo dimostrare in questi mesi una grande solidarietà verso il popolo ucraino, vittima di enormi atrocità. E quel popolo merita di vivere in pace, libero nel suo territorio».

E secondo lei, dopo i tentativi di Macron, Scholz, Erdogan, Guterres e a quanto pare anche del Papa, come si può fare adesso la pace? Quali passi occorrono in concreto? Chi li può compiere?
«La Russia, con i referendum farsa con cui ha giustificato l’annessione delle province di Donetsk, Luhansk, Kherson, Zaporizhzhia, ha oggettivamente provocato un’escalation estremamente preoccupante. E in questi ultimi giorni i bombardamenti russi sono tornati a colpire indiscriminatamente obiettivi civili in tutte le principali città ucraine. Nell’immediato non sembra facile trovare una singola chiave per fermare la guerra e creare le condizioni del dialogo. Tuttavia non si può non cercare ogni spiraglio possibile, sostenendo tutti coloro che si impegnano per ridare spazio alla diplomazia. L’accordo di Istanbul sul grano raggiunto dalle Nazioni Unite e facilitato dalla Turchia, ad esempio, è stato molto importante, anche perché ha attenuato la grave crisi alimentare che sta colpendo i Paesi più poveri che dipendono dai cereali prodotti nella regione. Sulla scia di quell’accordo si può e si deve continuare a lavorare, anche sulla questione delicatissima della centrale nucleare di Zaporizhzhia, sostenendo le iniziative dell’Aiea».

Al momento, dopo la marcia promossa da Giuseppe Conte, il pacifismo rappresenta una linea di demarcazione rispetto ai vostri ex alleati del Movimento 5 stelle. Ritiene che si possa superare questo confine per riaprire un confronto o un dialogo fra di voi?
«Nell’attuale quadro internazionale, drammaticamente segnato dalla guerra, l’Italia non può e non deve mettere in discussione la sua collocazione europea e atlantica. E spero che su questo punto non ci siano ambiguità da parte di tutte le principali forze politiche di maggioranza come di opposizione, incluso il M5s. Il pacifismo è un mondo articolato, plurale, fatto di tante realtà diverse: penso sia giusto e necessario che la politica si confronti con i valori e le proposte che esprime, ma sarebbe assolutamente sbagliato che qualcuno cercasse strumentalmente di “mettere il cappello” sul movimento per la pace».

Lei non pensa che sia stato un errore rompere con i Cinquestelle? Non avreste potuto fare un cartello elettorale, per impedire la vittoria della destra?
«Vorrei che la stessa domanda fosse posta a tutte le forze del centrosinistra. Abbiamo perso perché siamo andati divisi, una coalizione ampia di tutte le forze alternative alla destra sarebbe stata competitiva. E il Pd ha fatto di tutto per evitare questa rottura, siamo stati fino all’ultimo impegnati per dare vita a un campo largo. Ma abbiamo dovuto prendere atto che sia il M5s, provocando la caduta del governo Draghi, sia Azione, rompendo l’accordo siglato, piuttosto che provare a vincere sulla destra, hanno preferito fare una campagna contro il Pd».

Adesso, però, Enrico Letta lancia un appello a lavorare insieme dall’opposizione…
«Ora siamo tutti all’opposizione, la campagna elettorale è finita, la situazione del Paese non è affatto facile. Ricominciamo da qui, e confrontiamoci sui problemi degli italiani: il caro-bollette, il lavoro, la sanità, i diritti, l’ambiente, la crescita… Il Pd è il secondo partito italiano e il primo dell’opposizione: il nostro congresso “costituente” parte da qui, da come staremo all’opposizione».

Nel corso dell’ultima direzione, il vostro segretario è stato accusato anche di “maschilismo”: poche donne candidate, poche elette in Parlamento. Perché sono state discriminate?
«La presenza delle donne in Parlamento è inferiore alle aspettative e non è coerente con le affermazioni che abbiamo fatto nei mesi passati. Le responsabilità sono diffuse e molteplici, ho sentito letture semplicistiche che attribuiscono la colpa alle correnti o alla coordinatrice delle donne democratiche».

Ma bisogna dire che se Letta ha sbagliato avete sbagliato tutti, tacendo o non contestando apertamente le sue scelte.
«Eravamo tutti e tutte lì quando abbiamo votato le liste. Da alcuni territori, soprattutto del Sud, non sono venute proposte di donne come capolista, in alcune realtà inaspettatamente – per un’assurda e orrenda legge elettorale – alcune donne capolista non sono risultate elette. Tuttavia il problema c’è e non va eluso: le donne devono assumere ruoli più significativi a tutti i livelli, dalle amministrazioni locali alla direzione del partito. È un processo sul quale va fatto un investimento di medio periodo, non bastano scelte di immagine».

A questo punto, ritiene che l’elezione di una donna alla segreteria del Pd sarebbe utile e opportuna, magari per segnare una discontinuità politica e di genere?
«Sono tra quanti hanno sostenuto in direzione la necessità di non partire dalle candidature, ma da ciò che vogliamo essere nel rapporto con la società, con il mondo del Terzo Settore, con quello dei lavori – dal precariato alle partite Iva oltre che del lavoro dipendente sempre più povero – con i movimenti ambientalisti e delle donne. Dobbiamo ascoltare davvero ciò che è fuori dal Pd e rivolgerci davvero all’esterno se vogliamo un partito con capacità di espansione. Il rischio di una discussione autoreferenziale riguarda tutti, donne e uomini».

Lei, personalmente, intende candidarsi?
«No, non è questa la mia prospettiva. Sono stata e sono convinta che l’Italia abbia bisogno di un partito progressista, di sinistra, riformista. Credo vadano respinti al mittente gli inviti a sciogliersi o a tornare indietro. L’obiettivo di unire le culture riformiste del Novecento – socialiste, cattolico-popolari, liberal-democratiche – e di farle incontrare con le nuove culture politiche dell’ambientalismo e del femminismo è oggi a mio avviso più attuale che mai, non solo in Italia ma anche guardando all’Europa e al panorama delle forze progressiste a livello internazionale».

C’è chi sostiene, tuttavia, che il Pd è arrivato al capolinea e che rischia di fare la fine del Partito socialista francese…
«Il Pd finora non è riuscito a mantenere la promessa da cui, quasi quindici anni fa, eravamo partiti. Ma non mi rassegno all’idea di un campo progressista diviso e ininfluente di fronte a una destra sovranista e radicale che ha un radicamento profondo e rappresenta un avversario temibile, ripeto non solo in Italia. La mia generazione può ancora dare un contributo a questo percorso, ma credo sia giusto che ora la guida passi a una generazione più giovane, che c’è e che ha già dimostrato a diversi livelli di avere capacità di leadership. Dico anche che dobbiamo imparare un po’ tutti a far vivere un partito plurale e unito al tempo stesso, in cui il “noi” valga più dell’“io”».

Nel suo intervento alla direzione del Pd, lei ha accennato anche alla necessità di una nuova Carta dei valori. Su quali basi si può rifondare il Partito democratico?
«Quindici anni sono un’era geologica se pensiamo a quello che è successo in Italia e nel mondo in questi ultimi decenni, dalla minaccia del cambiamento climatico all’aggressione russa in Ucraina. Il sistema politico italiano si è frammentato e modificato, con l’entrata in scena di nuovi soggetti come il M5s e la crescita delle forze populiste e sovraniste. Se vogliamo un congresso “costituente” dobbiamo aggiornare la nostra analisi e ridefinire la gerarchia delle nostre priorità. Per questo penso che sarebbe bene chiamare a ragionare con noi personalità provenienti da diverse esperienze e scrivere una nuova Carta dei valori per un nuovo Partito democratico».

Il Pd è membro del Partito socialista europeo. Lei crede che questa collocazione corrisponda ancora all’identità del Pd, alla sua cultura politica? Insomma, siete un partito di sinistra o no?
«Assolutamente sì. Siamo e dobbiamo essere un partito di sinistra moderno: non bastano più le radici della sinistra novecentesca, e nemmeno quelle del cattolicesimo popolare, per trovare risposte alle sfide di oggi. Transizione ecologica e transizione digitale, diritti individuali e diritti sociali, libertà e solidarietà: c’è una nuova frontiera da attraversare e abbiamo bisogno di idee e soggettività nuove. Per questo è molto importante che entrino in campo le donne e i giovani, che portano punti di vista meno scontati».

In questa prospettiva, come immagina che il Pd possa convivere con il M5s, oggi all’opposizione e domani magari al governo? Lei non teme che il Movimento di Conte possa tagliarvi l’erba sotto i piedi?
«L’esperienza di governo che abbiamo fatto in questi ultimi anni, prima con il Conte 2 e poi nel governo Draghi, ha dimostrato che il M5s non è più la forza anti sistema delle origini. Dopo essere stato l’unico partito italiano ad aver governato per l’intera legislatura con tre maggioranze diverse (cosa che Conte è riuscito incredibilmente e abilmente a evitare di spiegare agli elettori…), credo che sia impossibile, e comunque non auspicabile dal mio punto di vista, che il M5s si arrocchi in un’opposizione solitaria».

E allora, qual è il suo auspicio?
«Spero che, partendo dai punti che ci uniscono, sia possibile un confronto costruttivo sui temi che dovremo affrontare, in Parlamento e nel Paese, stando all’opposizione. Penso che lo stesso tentativo vada fatto anche con le altre formazioni che sono oggi all’opposizione del governo che la destra sarà chiamata a formare nelle prossime settimane. Tra l’altro ci aspettano importanti appuntamenti elettorali in alcune regioni e realtà locali in cui, nuovamente, per vincere serve unità e non divisione tra le forze alternative alla destra».

In ogni caso, dovrete fare fronte comune contro la maggioranza di centrodestra. Pensa che Giorgia Meloni sia in grado di guidare un governo? E soprattutto, di ottenere risultati positivi per tutto il Paese?
«Per il bene dell’Italia, dobbiamo augurarci che il nuovo governo sappia fare le scelte urgenti e necessarie a contrastare l’emergenza della crisi economica e sociale conseguente all’aumento del prezzo dell’energia, alla crescita dell’inflazione e al rallentamento dell’economia globale. Noi abbiamo avanzato le nostre proposte in campagna elettorale e partiremo da lì: abbassare le tasse sul lavoro per dare più soldi in busta paga ai lavoratori; ottenere il tetto europeo al prezzo del gas e prendere misure eccezionali nazionali per contrastare il caro bollette; attuare nei tempi previsti il Pnrr per sostenere la crescita e il lavoro buono; far avanzare l’Italia sul terreno dei diritti, a cominciare dallo ius scholae per i figli di genitori stranieri che hanno concluso un ciclo scolastico. Insomma, incalzeremo il futuro governo e faremo un’opposizione intransigente sui contenuti».

A suo giudizio, che cosa cambia o che cosa può cambiare ora nei rapporti dell’Italia con l’Europa?
«Dipende da cosa farà il governo, concretamente. Sappiamo quali erano gli slogan in campagna elettorale e sappiamo le alleanze e le affinità di FdI e della Lega nel continente europeo. Ancora qualche giorno fa, seppure con toni più pacati dell’ultimo comizio, Giorgia Meloni ha partecipato alla festa di Vox in Spagna. È normale che in Europa si interroghino su cosa farà il prossimo governo. L’Italia ha bisogno di un’Europa che prende decisioni nel segno della solidarietà e della condivisione. Esattamente il contrario dell’Europa delle piccole Patrie e del sovranismo».

Purtroppo, in questa “guerra del gas” i nostri partner europei non stanno dimostrando una grande solidarietà. L’Ue sembra divisa più che mai: lei non ha la preoccupazione che possa disgregarsi?
«Le posizioni sul tema gas ed energia si sono avvicinate negli ultimi giorni. Siamo fiduciosi del fatto che il lavoro portato avanti dal governo Draghi in questi mesi possa produrre risultati concreti con il prossimo Consiglio europeo. E che il nuovo governo si muova in continuità con l’approccio seguito fin qui. L’Ue si rafforza solo se riesce a trovare – come abbiamo fatto con il Covid-19 – una strada di cooperazione e solidarietà al suo interno. L’Europa ha bisogno dell’Italia e l’Italia ha bisogno dell’Europa».

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