Il premio Strega Scurati a TPI: “Vi racconto Mussolini, padre dei leader populisti di oggi”
Intervista ad Antonio Scurati, autore di "M. Il figlio del secolo"
M.: Scurati racconta il Mussolini inventore del populismo di oggi
Antonio Scurati ha vinto il premio Strega 2019 con il libro “M. Il figlio del secolo”, primo di una trilogia su Benito Mussolini che racconta la storia italiana dal 1919 al 1945. TPI lo ha intervistato.
No, quel capitolo è stato il punto di partenza sin dal principio. Io avevo ben chiaro che avrei voluto cominciare dall’inizio, cioè dalla fondazione dei fasci di combattimento in piazza San Sepolcro a Milano nel marzo del 1919 e che avrei cominciato da questa scena.
Non è stato un effetto ricercato, è semplicemente accaduto. Ma i propositi che nella mia testa hanno generato M. sono entrati in qualche modo in conflitto, segnando una rottura rispetto a certe abitudini letterarie degli intellettuali negli ultimi decenni.
La mia idea forte, per esempio, era di raccontare una grande storia non dal punto di vista delle vittime, come è stata raccontata necessariamente, e giustamente – e non lo sottolineerò mai abbastanza – negli ultimi sessanta anni.
Intendiamoci. Credo che questo racconto sia stato utile e che a questo noi dobbiamo la nostra repubblica, la nostra democrazia, la nostra civiltà. Ma a me – in questo libro – interessava raccontare invece il punto di vista degli attori delle violenze, dei carnefici. E mi interessava raccontare questa storia a partire da una prospettiva che fosse assolutamente “centrale”.
Dico in senso letterale, il centro della scena. Negli ultimi decenni si è raccontato molto adottando una sorta di paradigma marginalista: cioè che interessani sono i personaggi minori, gli accadimenti secondari, le storie marginali, e poi, attraverso queste visioni si arriva al cuore dei fatti.
Esatto. M., in primis, è un romanzo corale, chi lo ha letto lo sa. Ci sono diverse sottotrame: riguardano la politica, il personaggio principale e snodi decisivi di questa vicenda, che è una vicenda ultra-romanzesca e i cui epifenomeni principali sono importanti ancora oggi, per gli effetti che proiettano sul presente.
Scurati. Quando parli di Mussolini non c’è bisogno di andare a cercare l’aneddoto marginale. Quindi in questo primo volume si comincia da Piazza San sepolcro e, a Dio piacendo, come diceva mia nonna, si finirà in un altro volume, in piazzale Loreto.
La cosa che non avevo previsto è che in quell’incipit – che è lungo quattro o cinque pagine – Mussolini avrebbe parlato in prima persona.
Io, per preoccupazione etica, mi ero imposto la terza persona, un certo tipo di terza persona. Invece poi scrivendo – perché la scrittura deve sempre oltrepassare le proprie premesse, se no è un esercizio di stile – Lui (lui il personaggio, non lui Benito Mussolini), come a volte spesso accade nei romanzi, ha preso la parola e mi ha costretto ad adottare la prima persona.
Lo temevo, lo avevo escluso in principio, e invece alla fine l’ho sentito necessario, diciamo, nel momento della creazione letteraria.
Questo in effetti è il primo elemento di fascino che questa figura ha per qualsiasi narratore. Me compreso.
Innanzitutto, devo dire che a me non piace fare riferimenti ai viventi e all’attualità politica. Ma, come monito, non c’è dubbio che la sua carriera racconti questa ambivalenza. E siccome tu hai ricordato come Mussolini più volte sia stato dato politicamente per morto, teniamolo presente e non ci rilassiamo troppo. Ciò detto, alcune cose che hai detto aiutano a mettere a fuoco questo personaggio archetipico.
Io penso che Benito Mussolini sia stato la forma originaria archetipa di ogni leadership moderna. Vogliamo chiamarla leadership populista per capirci meglio? Poi dovremo discutere su che cosa si populista e cosa non lo sia, ma in realtà, come dice il poeta, poi sanno tutti benissimo cosa fare.
Assolutamente si. E Non solo in Italia. Lo è diventato nella misura in cui, pur nella profonda differenza di alcune sue caratteristiche personali e uniche, molti leader populisti della scena attuale, italiani americani, brasiliani – solo per citarne alcuni -, si sono ispirati a lui, in modo dichiarato o no.
In una cosa essenziale: Mussolini è il tipo di leader che è pronto a ogni furbizia ad ogni svolta, ad ogni repentino cambio di direzione, ad ogni tradimento pur di arrivare al suo obiettivo. Mussolini in questo è post-ideologico, ed è l’uomo che tradisce tutti. Che tradisce i socialisti di cui era stato uno dei leader più radicali e più amati, soprattutto dalle frange giovani. Che tradisce – per esempio – un uomo a cui ha rubato molto, Gabriele D’Annunzio.
I dialoghi con la folla, che sono uno degli assi portanti comunicativi del leader populista Mussolini, il futuro Duce li immagina ascoltando D’Annunzio.
D’Annunzio era un oratore di tipo completamente diverso perché era un straordinario ma ipercolto, letterario, crepuscolare.
Quando si candida per la prima volta in Parlamento, D’Annunzio, si impegna in una campagna elettorale nelle Puglie e in questo periodo tiene questi memorabili discorsi ai piccoli borghesi di provincia densissimi di riferimenti colti, di citazioni greche e latine: la folla non capisce assolutamente nulla, ma rimane incantata e ondeggia al suono della sua voce sognante. Mussolini apprende da D’Annunzio l’arte di questi dialoghi con la piazza che sono uno degli atti di nascita del leader populista. Va spiegato che, fino a quel momento, i politici teorizzavano ancora il primato della politica come tecnica per specialisti. Parlavano volutamente, cioè, una lingua per iniziati.
Esatto. I vecchi leader liberali concepivano proprio la politica come qualcosa che doveva rimanere separato dall’elettorato, dalle masse. Addirittura, gli elettori di Giolitti – e parlo di un uomo che ha dato il proprio nome a un’intera età, “l’età giolittiana” – potevano addirittura non sapere che aspetto avesse Giolitti. Loro lo teorizzavano, perché si consideravano iniziati, oggi diremmo èlites.
In questo rapporto dei professionisti della politica con il potere, il rapporto con l’elettorato doveva rimanere fuori, un aspetto distinto: la politica era qualcosa che viveva in un mondo a parte.
Perché in quel tempo il potere politico lo si esercitava nel chiuso delle stanze, ed era monopolio di ceti e classi elevate: erano tutti uomini, maschi intendo, erano persone molto distinte abbastanza avanti negli anni, che non avevano un contatto reale o diretto con la popolazione, che cercavano un contatto con la piazza unicamente nel tempo delle campagne elettorali.
Per questo motivo Mussolini traduce il cuore della sua battaglia in un linguaggio nuovo che le folle possono capire. Prima – faccio degli esempi – era stato anticlericale e poi si era fatto clericale, prima era pacifista e poi si era fatto belligerante, ma questo importava poco perché la sua continuità non era nei contenuti ma nella lingua.
Faccio finta di non aver sentito, ma il paragone rende l’idea della differenza.
Perché D’Annunzio è un poeta. E Mussolini questo lo capisce benissimo. Mussolini a un certo punto spiega a un suo collaboratore: “D’Annunzio ha scritto Alcyome e sicuramente io non lo scriverò mai”.
No, ma nemmeno in senso dispregiativo: vedi, Mussolini a differenza dei leader populisti di oggi, e al pari di molti degli uomini politici di allora, aveva una autentica forma di rispetto per l’arte.
Conosceva la letteratura in maniera un po’ imparaticcia e raccogliticcia, abbastanza per apprezzare il lirismo dannunziano. Poi però chiosava: “Questo qui di politica non capisce un cazzo”. Le parole esatte di Mussolini sono queste, e Mussolini aveva ben chiaro il limite del Vate. Ciò che mancava al D’Annunzio nel 1919-20, quando si apre il racconto del romanzo, era tutto quello che gli sarebbe stato indispensabile per poter diventare l’uomo a cui l’Italia guarda.
Di una certa Italia che in quegli anni attende l’uomo della provvidenza: diciamo un’Italia interventista, un’Italia antisocialista, conservatrice, reazionaria, un’Italia di destra. Una parte decisiva del paese che sperava in D’Annunzio come nel possibile leader di questa rivoluzione conservatrice, che i tempi rendevano necessaria e indispensabile per fronteggiare la “minaccia rossa”.
Non avrebbe mai potuto guidarla, perché gli mancavano i talenti, le virtù o i vizi, tutti peculiari, della politica. E qui concludo la risposta alla tua domanda precedente. Ecco perché Mussolini – anche quel Mussolini che nel 1919 è uno dei tanti attori sulla scena – diventa l’archetipo, la forma originaria di ogni successivo leder populista. Lui questi vizi e queste virtù iperpolitiche le ha tutte.
Esatto: proprio per questo Mussolini vive alla giornata, naviga a vista, tradisce tutti a cominciare da se stesso. Un altro degli elementi di fascino per il narratore è proprio questa ambivalenza assoluta: in fondo diviene, in questa mutazione, l’uomo che lui stesso avrebbe odiato da ragazzo.
Mussolini l’uomo della pura tattica e di nessuna strategia. È il pragmatismo spietato eccetera, eccetera, eccetera. Perché lui è davvero è quel tipo di leader che guida la folla, non precedendola, verso obiettivi ideali alti e lontani che la folla, data la sua posizione, non è in grado in particolare di vedere o prevedere. Ma è – piuttosto – il tipo di leader che guida la folla seguendola.
Infatti, non è una idea mia, ma sua. Mussolini diceva di se stesso, e con orgoglio: “Io sono l’uomo del dopo”. Cioè intendeva dire: sono quello che arriva un istante dopo che i fatti irrevocabili sono accaduti. È l’uomo che arriva un istante dopo che l’umore nero della folla si è manifestato, e ha sprigionato nell’aria – perché la maggior parte degli umori non odorano ma puzzano – la propria puzza mefitica. Mussolini arriva sempre un istante dopo che il punto di svolta irrevocabile è superato.
Pensa all’impresa fiumana, al monologo interiore del Mussolini di quei giorni. Non è affranto, o preoccupato: D’Annunzio è andato a Fiume? Ha fatto la grande impresa? Ha scompaginato le carte? Benissimo. Ottimo. Si brucerà. E poi arrivo io, su quel cadavere ancora caldo. E dalla sua fine traggo la mia forza. Questo è il cuore pulsante del populismo.
Lui è diverso da chiunque altro per vari motivi. Intanto perché era stato dall’altra parte, a sinistra intendo, e aveva una conoscenza perfetta del mondo socialista, dei suoi pregi, dei suoi difetti fatali. E, per esempio, lui dice, con il suo fare spaccone, ai suoi pochi accoliti del tempo: “I socialisti la rivoluzione non la faranno mai. Io lo so perché li conosco, perché ho vissuto sotto la loro casa, ho dormito nel loro letto”.
Una donna. Lo tiene a galla una donna, perché – questo va detto – io mi soffermo a lungo sul rapporto con Margherita Sarfatti, perché lei è decisiva. Questa donna che era una raffinatissima intellettuale, quando invece Mussolini, come sappiamo, culturalmente era un analfabeta autodidatta.
Era figlio di un fabbro che però era curioso di tutto. E la Sarfatti è cruciale nel sostenerlo, anche psichicamente, nei momenti della sconfitta. Ma se volessimo ridurre ad una essenza il suo fiuto politico, il nodo decisivo ai fini della sopravvivenza è questo.
Esatto: vedi, fiuto è un termine quanto mai appropriato per descriverlo perché indica una capacità animale, non una superiore facoltà razionale. Ma una delle costanti di Mussolini, una delle capacità animali del suo cervello rettile – per capirci – è la sua straordinaria abilità a fare sempre la mossa che lo riporta in gioco, partendo da un ragionamento che per lui è una costante. Anche qui c’è un tratto ricorrente con i populisti più moderni.
Questo fiuto animale porta Mussolini, in ogni bivio decisivo della di ascesa, a scommettere sempre sul peggio. Lui scommette, e fomenta gli animi, incendiandoli quando è necessario, poggiando su quelle che due psichiatri francesi qualche anno fa, con una meravigliosa espressione, hanno definito “le passioni tristi”. Parlo della paura, della rabbia, dell’angoscia.
Invece Mussolini scommette sui sentimenti degli uomini e delle masse. Ad esempio scommette che i vizi di D’Annunzio lo precipiteranno nell’abisso del suo narcisismo a Fiume, e così accade. Lui ad esempio scommette sulla debolezza della Monarchia, due volte. Scommette sul fatto che il Re Vittorio Emanuele si renderà indegno durante la Marcia su Roma. Molto prima del luglio del 1943 e del settembre del 1943, il Re sceglierà di non firmare lo stato d’assedio di Roma e di non passare il potere alle autorità militari che avrebbero fermato alla prima raffica di fucileria quella scalcagnata banda di squadristi.
Mussolini scommette sempre sul peggio, e vince, scommette sempre sul fatto che tutti daranno il peggio di loro stessi, questo lo porta a prevalere sul concerto delle debolezze altrui.
Le due cose insieme. Sicuramente Margherita Sarfatti è combattuta: ed è anche qui l’ambivalenza, la complessità dei personaggi. Lo presenta lei a D’Annunzio, gli insegna a stare in società, lo sostiene quando lui vacilla, sicuramente lo ama, io credo. Dai carteggi appare evidente. C’è addirittura la remota possibilità che in qualche momento di sbandamento anche Mussolini abbia provato dei sentimenti per lei, cosa che gli riusciva difficile nei confronti delle donne.
Sì, perché lei era più grande di lui, adesso non entriamo in dettagli scabrosi. In seguito Mussolini arrivò a dire delle cose terribili su di lei. Anche sulla fisicità della Sarfatti. Molti anni dopo, a Claretta Petacci non le ripeté. Bisogna sapere che l’ultimo amore, l’ultima passione di Mussolini, come tutti voi saprete, era questa donna molto più giovane di lui, Claretta Petacci. E c’è un documento rivelatore, il “Diario di Claretta”, in cui lei quotidianamente, siccome non aveva molto altro da fare, annota le proprie giornate con Mussolini. A saperlo un po’ filtrare, è un documento straordinario. Siccome lei era molto gelosa anche del suo passato, del passato di Mussolini intendo, Mussolini fa questa cosa spregevole, fra le tante che ha fatto, di infangare il ricordo delle sue amanti precedenti, delle sue donne precedenti e soprattutto della Sarfatti.
Molto italiano nel peggio, quando gli italiani danno il peggio di sé, insomma. E siccome la Petacci era giovane – ma non stupida – sapeva che l’unica o una delle pochissime amanti di Mussolini che avesse veramente contato era la Sarfatti. Lui dice delle cose infami sul suo conto, ma lei lo avverte. E però – dicevo – la Sarfatti sicuramente lo amò, ne fu sedotta, ebbe passione per lui, lo chiamava “il mio tenerissimo selvaggio”.
Immaginati l’incontro. Lui era un rozzo, di origini umili, veniva dalla provincia di Forlì, lei era una gran signora, una intellettuale, ricca. Che però lo voleva anche usare. Cioè non facciamo un santino della Sarfatti. Nel senso che Mussolini lei lo sostenne nei momenti difficili perché era la sua scommessa personale.
Le donne – a quei tempi – scommettono sugli uomini per necessità. Io suggerisco questo parallelo, che a volte suona un po’ sacrilego a chi si è formato come me nel culto di grandi uomini e donne della sinistra – diciamo – tra il rapporto Mussolini-Sarfatti e il rapporto Kuliscioff-Turati. Perché se voi leggete il carteggio di Filippo Turati con Anna Kuliscioff, madre nobile del socialismo progressista, diciamo gradualista di quegli anni, è uno dei più straordinari documenti del Novecento. Ma ci mostra anche – loro si scrivevano quotidianamente – un rapporto assolutamente paritario sul piano dell’analisi politica, della capacità di comprensione della politica e anzi molte volte è la Kuliscioff a suggerire a Turati cosa fare.
Indubbiamente. Anna Kuliscioff, fra l’altro, era stata già, nella sua vita, la compagna di un grande leader della sinistra socialista, cioè di Andrea Costa.
Che era stato eletto per quelle battaglie di fine secolo. E lei ne era stata da giovane, molto bella, la compagna. Ma la Kuliscioff era anche una scienziata, perché era laureata in Medicina e aveva contribuito, dopo la laurea, alle ricerche a Torino che avrebbero sconfitto la febbre puerperale, salvando la vita a milioni di donne. Cioè, questa persona geniale – alla fine tanto quanto Margherita Sarfatti – era costretta dall’epoca in cui viveva a fare politica scommettendo su un uomo. Lo stesso Costa o Filippo Turati. E tutto perché per un motivo rozzo, semplicissimo, brutale e basilare fino al 1948, quando nasce la nostra repubblica, le donne in Italia non avevano diritti politici né attivi né passivi. E quindi, se volevano fare politica, lo dovevano fare attraverso un uomo. Fossero esse Margherita Sarfatti o Anna Kuliscioff.
Questa è una scelta di poetica, nel senso che una delle caratteristiche strutturali di questo romanzo è la sfida – come accennavo prima – a raccontare il fascismo attraverso i fascisti. Dopo che per settant’anni si è necessariamente, raccontato il fascismo e il nazismo attraverso le loro vittime e i loro oppositori, io ritengo – per ragioni che forse sarebbe troppo lungo e noioso spiegare qui – che fosse giunto il momento di raccontarlo attraverso i carnefici. Non solo io eh, ma preceduto da alcuni grandi scrittori europei. Ricordo “Le benevole” di Jonathan Littell, che è uno dei capolavori dell’arte e del romanzo del nostro tempo e chee racconta il nazismo attraverso un nazista, cioè un personaggio di finzione ma ricalcato su un ufficiale delle Ss.
Per me è un modello, anche se Littel fa una scelta diversa. Cioè, è un romanzo il suo, uscito qualche anno fa, con una fortissima base documentale. Voi questa impostazione la sentite in ogni pagina e questa è una caratteristica in comune con il mio libro, si parva licet. Però Littel inventa un personaggio di finzione. Io invece ho tenuto la scelta documentale sino alle estreme conseguenze. Quindi, avendo scelto di raccontare rovesciando il paradigma vittimario, credo che mancasse quest’ultimo tassello al quadro completo, cioè raccontarlo in maniera non ideologica, sicuramente non apologetica, attraverso i carnefici. I protagonisti sono i fascisti stessi, c’è un’unica linea narrativa.
La storia andò così: i fascisti furono protagonisti non solo perché io li elevo allo status di protagonisti dedicando a loro la mia narrazione, ma perché prevalsero su tutti. Con le ragioni del più forte? Con la forza della brutalità? Certo. Con gli strumenti della violenza, anche, con il metodo dell’inganno. Indubbiamente sì. Eppure, ciò che pensiamo di loro, dei vincitori e dei dominatori, se vogliano raggiungere la maturità della nostra resa dei conti con il passato fascista di questo paese e con – speriamo di no – con il suo possibile ritornare in forme diverse nel presente e nel futuro, dobbiamo arrivare a riconoscere che le loro ragioni, erano delle ragioni. Che il fascismo convertì sistematicamente in torti. Sì. E su questo io credo di non aver fatto nessuno sconto. Ma il fascismo aveva dalla sua delle ragioni che corrispondevano a delle forze storiche potenti. Prepotenti? Sì. Violente? Indubbiamente. Brutali? Indubbiamente. Ma anche necessarie nel tempo in cui questa battaglia prende corpo. È un aspetto che noi non dobbiamo trascurare soprattutto nell’analisi.
È così.
Le due polarità opposte che hanno costituito la principale risorsa, del “genio” politico di Mussolini stanno racchiuse nella cronaca di quei giorni. C’è la brutalità, la violenza, e c’è l’intelligenza politica, il fiuto. C’è un momento – che io racconto ma che sembra una scena inventata da uno sceneggiatore hollywoodiano – quando alcuni dei capi, dei ras delle province vanno a Roma, entrano a Palazzo Chigi, perché lui allora stava lì, non stava ancora a Palazzo Venezia, e sono proprio questi uomini d’arma, alcuni anche violentissimi, che mettono Mussolini spalle al muro e addirittura lo minacciano.
Quella forbice lo spinge verso un grandissimo colpo di teatro e atto di coraggio politico nel più celebre dei suoi discorsi parlamentari.
Io scrivo – non tutti son tenuti a saperlo – che a un certo punto dopo il delitto Matteotti, Mussolini sembra davvero perduto. Cioè in Italia all’improvviso, dopo la scoperta dell’eccidio, non sembra esserci più un solo fascista. Tenete conto che Mussolini governava già da due anni il Paese su incarico di Vittorio Emanuele III Re d’Italia. Era arrivato con la pressione delle squadre, ma si era già fatto istituzione. Poi questo cadavere rimette tutto in gioco.
È in quel momento un Vincitore, salutato da molti organi di stampa in tutto il mondo come lo statista del secolo.
Quando lo scandalo deflagra Mussolini ha appena chiuso la vicenda di Fiume, passando per l’uomo che ha salvato l’Italia. E poi, quando sembra che abbia trionfato su tutto, arriva lo stillicidio delle rivelazioni, l’orrore di questo brutale omicidio. Che è grave perché non è un incidente, ma è l’espressione più vera della brutalità e della violenza che fin dall’origine marchia il fascismo.
È voluto, è atmosferico, è inevitabile. Nessuno storico è riuscito mai a stabilire – e nessuno storico ormai lo stabilirà – se Mussolini abbia dato intenzionalmente l’ordine, se cioè abbia detto letteralmente “uccidete Matteotti”. Ma non vi è dubbio, che quel desiderio espresso, quel “toglietemi dai piedi Matteotti”, fosse qualcosa di molto simile alla committenza di un delitto. In Parlamento Matteotti era rimasto ormai l’unico inflessibile, ostinato, quasi ossessivo, coraggiosissimo, oppositore. Tutti avvertivano dunque che quel delitto fosse in qualche modo promanato dalla sua volontà, anche se non espressa in modo documentabile. La mia ipotesi – che è quella di un romanziere – è che Mussolini, dopo che Matteotti aveva tenuto un ultimo discorso, in cui aveva chiesto di invalidare le elezioni nelle quali il Partito nazionale fascista aveva trionfato con il 63% dei consensi, abbia perso la testa.
Però erano tanti, pur con i brogli, pur con le violenze. Pensate, avevano fatto la legge Acerbo, che dava la maggioranza assoluta a chi avesse ottenuto il 25 per cento dei consensi. E loro ne ottennero il 63 per cento. Matteotti tiene quest’ultimo discorso, elencando minuziosamente tutti i seggi in cui erano avvenute violenze, pressioni, brogli, e i morti, perché c’erano stati molti morti durante la giornata elettorale. Poi lui esce, Mussolini sbotta, alla presenza di alcuni suoi fedelissimi e dice: “Questo ancora gira, perché non me lo togliete dai piedi”. Però, bisogna anche tenere conto che Mussolini di queste uscite ne faceva spesso. Vuoi sapere che cosa accade secondo me? Successe che, fra questi due o tre ascoltatori, c’era il più stolido, il più meschino, il più ottuso, il più gretto dei suoi collaboratori abituali. Parlo cioè Giovanni Marinelli, il tesoriere del partito, che tutti, anche i fascisti della prima ora, disprezzavano. E accadde che allora Martinelli fu preso da questo fuoco sacro -“È il mio momento” -, da questo zelo di realizzare, eseguire, la volontà del Capo. E così Martinelli manda questi cinque delinquenti a sequestrare Matteotti.
Li paga, ma li paga troppo poco perché lui è tesoriere e tiene sempre stretti i cordoni della borsa. Non li paga a sufficienza perché, se avesse preso dei veri killer seri, questi non avrebbero fatto il pasticcio che hanno fatto dopo. E anche l’obbrobrio e lo scempio del cadavere è figlio di questa brutalità micragnosa. Ma torniamo alla tua vera domanda di prima: che cosa accadde nel momento in cui il fascismo sembrava finito. Calcola che Mussolini stesso lo scrive, il suo cameriere racconta che prima erano tutti nell’anticamera ad aspettare per ore e che improvvisamente si fa il vuoto. Adesso non c’è più nessuno, Mussolini è solo, scrive nelle sue memorie Navarra.
Il cameriere del Duce varca la porta – non sappiamo se sia vero o no, ma Navarra è un testimone affidabile per quasi tutte le cose – e vede Mussolini, da solo in questa stanza, che non era ancora la sala del Mappamondo, che c’ha una sedia con le spalliere con due grossi pomoli, e che come un metronomo impazzito sbatte la testa da destra a sinistra contro i pomoli. Era così, era in queste condizioni. E succedono due cose.
Vanno da lui i capi degli squadristi con le pistole, ed è come se quelle armi le mettessero sul tavolo. Coloro che fino a ieri erano i suoi cani da guerra, che lui usava allungando il guinzaglio o richiamandoli, adesso lo minacciano. E glielo dicono senza giri di parole. C’è ad esempio questo Aldo Carabella, uno dei pluridecorati di guerra, figura d’altri tempi che gli dice: “Senti, qui o vai avanti tu e facciamo piazza pulita, o ci pensiamo noi e facciamo piazza pulita. Anche di te”. Da un lato della tenaglia, dunque, c’è l’aspetto più violento ma anche più diritto dello squadrismo fascista. Non quelli che fanno calcoli, non Grandi o Ciano, ma Carabella, il soldato, il guerriero che non obbedisce più ai tuoi ordini.
Vero. Ma dall’altro lato della tenaglia c’è il polo opposto, cioè la meschinità delle opposizioni che non si uniscono. L’appello – geniale dal punto di vista dei risultati e dell’efficacia – di Mussolini è questo: guardate che contro di me c’è l’attaccamento alla poltrona da parte dei parlamentari.
Cosa fa infatti in quei giorni Mussolini? Ha questo guizzo da acrobata e riesce a riottenere la fiducia in Parlamento, depositando al banco della presidenza, lui stesso, un disegno di riforma elettorale che fino a poche settimane prima aveva avversato. Un disegno maggioritario. Adesso, al di la dei tecnicismi, questa mossa gli consente di tenere in pugno i parlamentari con la minaccia di nuove elezioni. Cioè, se il suo disegno di legge cambia le regole, molti sanno che non torneranno eletti.
Mussolini in pratica dice ai parlamentari: “Voi volete farmi cadere? Siete pronti a sfiduciarmi? Rischiate di non essere rieletti. Perché le liste elettorali le faccio comunque io e voi rischiate la poltrona”. Allora da un lato abbiamo Aldo Carabella, dall’altro gli antifascisti, ma in mezzo c’è lui che prende in mano la bacchetta.
Ecco, io adesso qui non mi metto a fare dei nomi, ma ci sono alcuni leader politici attuali, che mi hanno comunicato tramite le loro segretarie, mi mandano sms, che mi chiedono appuntamenti.
No, io poi non ci vado: cosa ci vado a fare? Però ci sono dei leader, anche nominalmente di sinistra, che usano M. come vademecum, ogni volta che devono prendere una decisione riguardo al da farsi, leggono. Questo come autore mi inquieta.
Tra gli estimatori politici di M. per esempio c’è l’ex ministro, come si chiama quello che ha scritto a “Orizzonti Selvaggi”?
Lui. Ma torniamo a Mussolini. Lui da un lato ha gli squadristi, i guerrieri, la forza militare. Che lo spingono e gli dicono: “O con te o senza di te, noi andiamo fino in fondo”. E dall’altro le opposizioni. Però con la sua capacità Mussolini riesce a convertire questa spinta, violenta, brutale, rozza, dice di Aldo Carabella che era un guerriero ma che non avrebbe saputo governare nemmeno il suo condominio – nella più sottile e quasi perversa sapienza politica, nella capacità di cambiare opinione riguardo a un disegno di legge elettorale dalla mattina alle sera. Arriva a depositarlo al banco della presidenza a Montecitorio. E con quella legge far capire ai parlamentari che sono pronti a sfiduciarlo che se vogliono possono sfiduciarlo ma non torneranno in Parlamento. E allora lì, lui alza lo statuto della Camera come una Bibbia e dice: “Qui c’è un articolo che ognuno di voi può portarmi in giudizio davanti al Re. C’è qualcuno che vuole farlo?”.
C’erano tanti uomini di coraggio, quel giorno in quell’Aula, gente che aveva rischiato la vita.
Mi è stato anche rimproverato – e da qualcuno anche giustamente – che che nel mio racconto del celebre discorso del 3 gennaio c’è un eccesso di drammatizzazione, la complessità delle ragioni che hanno fatto sì che Mussolini prevalesse non è perfettamente restituita.
Beh, avranno anche ragione loro. Invece, però, è anche vero quello che diceva Levi Strauss e cioè che “la cultura è sempre il frutto di una riduzione della complessità”. Alla fine se tu vuoi capire, se tu vuoi scegliere, se tu vuoi sforzarti di capire un uomo un’epoca, un po’ tutta questa complessità delle ragioni le devi semplificare
Esatto. Quel discorsi non esauriscono tutte le ragioni per cui Mussolini prevale, ma ne spiega la Baggio parte.
Bisogna aggiungere che lo scrive nel 1919 e che si chiamava Gasti. Già nel 1919 capisce ciò che Mussolini sarebbe stato negli anni successivi, sì.
Benito Mussolini, fin dal 1919, quando fonda il movimento dei fasci di combattimento, dispiega con futura potenza e dico futura perché al momento non sembra così efficace, ma poi penetrerà, la sua propaganda contro il Palazzo, la sua invettiva martellante contro le “vecchie mummie”.
Conia lui il termine “antipolitica”. Lui stesso dice: “Noi non siamo la politica, noi siamo l’antipolitica. Noi non siamo un partito, noi siamo l’antipartito”. Usa anche con frequenza, questa espressione riferita alla vecchia classe dirigente di mummie, dice letteralmente: “Questi vanno messi in liquidazione”. Adesso, mutatis mutandis, è lo stesso tipo di propaganda che altri leader populisti nei decenni e nei secoli successivi useranno per raggiungere il potere. Su questo non c’è dubbio. L’unica differenza è che su queste basi lui prende il potere e riesce a durare vent’anni.
Quel che racconterò nella seconda parte di M., sempre a Dio piacendo come diceva mia nonna, uscirà tra un anno. Il secondo volume è dedicato al racconto degli anni del regime. Cioè ai giorni in cui questi giovanotti, o giovinastri – perché molti di questi erano giovanissimi per gli standard dell’epoca – diventano statisti. Pensate che quando Balbo e Albinati vengono eletti la prima volta in Parlamento, non possono assumere l’incarico perché sono troppo giovani per le leggi dell’epoca, non hanno ancora compiuto trent’anni. Insomma quando questi sedicenti rivoluzionari, che in qualche modo rivoluzionari lo erano, entrano nel Palazzo e occupano finalmente le stanze del potere senza avere alcuna competenza. Tenete presente che quando Benito Mussolini all’età di 39 anni sale le scale del Quirinale alla fine dell’ottobre del 1922 e riceve da sua Altezza Reale Vittorio Emanuele III l’incarico di formare il primo governo – io non ho molta simpatia per il Re perché è la storia che testimonia i suoi limiti – Mussolini è il più giovane capo di stato della storia, non solo italiana, ma del mondo occidentale. Non ha, a quella data, nessuna esperienza politica ne amministrativa nemmeno di un piccolo comune.
Speriamo che nel frattempo la cronaca politica evolva e torni a favorirmi, ma in questo momento sembra un po’ divergere, ma c’è speranza che nell’arco di un anno, invece, le possibili similitudine diventino più pressanti
I pochi anni del consenso, in realtà, anche se questo raggiunge il suo apice nel 1935, ma purtroppo comincia molto prima. Devi sapere che ho iniziato a lavorare ad M2 – io li chiamo come le metropolitane di Milano – quando ancora non era stato pubblicato M1.
Eh sì, alcuni mi dicono che dovrebbero essere quattro o cinque volumi per rispetto alla rete di trasporti. Nella mia testa invece il terzo dovrebbe raccontare invece l’abisso, diciamo così, l’immane tragedia in cui come deduzione delle premesse, non come svolta, il fascismo sprofonderà il Paese.
Fino al mio libro precedente, che si intitola “Il tempo migliore della nostra vita” e che è un libro sulla Resistenza – io arrivo a scrivere dei fascisti passando attraverso un amore e un culto intellettuale per gli antifascisti -, io non avevo mai avuto in mente un pubblico di giovani. Pensavo che il lettore, il mio modello, fosse per lo meno un mio coetaneo. A un certo punto invece ho iniziato a pensare ai miei studenti universitari.
Io ho sempre insegnato nella mia vita, e anzi ricorro sempre a questa battuta: “Prima insegnavo al liceo, adesso insegno all’università, nel frattempo l’università è diventata un liceo: è come se non mi fossi mai mosso. Così ho cominciato ad avere in mente i miei studenti. Ventenni, ventunenni, ventiduenni, e questo secondo me mi ha anche migliorato come scrittore. Perché è faticoso, perché non puoi dar nulla per scontato, soprattutto se sei consapevole, se sei un insegnante consapevole oggi, che i tuoi studenti non sanno assolutamente niente, non hanno riferimenti culturali.
Non su di loro, sia chiaro, ma su di noi, sul sistema formativo. So per esperienza che noi siamo incapaci di dar loro una formazione intellettuale. E quindi se nomini Cesare Pavese, devi assumerti il compito difficilissimo, di spiegare in cinque righe, a rischio di essere un po’ didascalico, chi era Cesare Pavese. Ma per poterlo fare devi prima tornare a chiedertelo tu. Per me chi è Cesare Pavese? E quindi sì, avevo in mente i giovani.
C’è quello che noi non confesseremo mai, ma che comunque anima ancora il lavoro di molti scrittori, che non è non solo una grottesca idea della gloria, ma sicuramente un sentimento della posterità che l’accompagna. Uno scrittore quando scrive, lì nel suo angolino nella sua tana, anche se scrive un libro di ricette, è sempre in una dimensione assoluta in cui pensa, in cui deve pensare di scrivere per i posteri. Nessuno scrive per il proprio portinaio: lo disse un grande scrittore aristocratico del passato che disprezzava i portinai.
Ma neanche per l’editore che ti paga. E allora citiamolo invece il grande poeta: il libro sono lettere d’amore spedite ad amici, sconosciuti, stranieri. È sempre così. Tu devi avere in mente un orizzonte che è ampio quanto l’umanità stessa ma che tu non incontrerai mai con cui non verrai mai in contatto. Con cui non prenderai mai un caffè. Ché magari vivrà o in un altro luogo del pianeta o dopo di te o che è vissuto molto prima di te e che è già cenere da secoli. Questo afflato verso il tempo più largo della cronaca, verso l’interesse disinteressato, è il sentimento da cui si generano l’arte, la letteratura, le cose migliori, anche l’amore, i figli. Tutto questo nasce in quei rari momenti in cui noi siamo capaci di entrare in consonanza con un tempo più grande.