Psichiatri (e pazienti) sotto attacco: ecco chi vuole cancellare la legge Basaglia
L’omicidio di una psichiatra a Pisa riapre il dibattito sulla norma che ha chiuso i manicomi. Ora però il Carroccio vorrebbe modificarla. Sebbene per gli esperti resti “un fiore all’occhiello” dell’ordinamento sanitario
Franco Basaglia credeva in un approccio diverso alla psichiatria: pensava che i manicomi non servissero a curare le malattie mentali, «ma solo a distruggere il paziente». Lo andava spiegando in un’epoca in cui per aver detto una cosa simile qualcuno avrebbe potuto credere che il «pazzo» fosse lui, negli anni in cui lo stigma sulla salute mentale era tale da far accettare alla società la reclusione dei pazienti in strutture che spesso diventavano vere e proprie carceri, dove i diritti umani venivano sacrificati per nascondere al mondo persone che avevano semplicemente bisogno cure.
Psichiatra, neurologo, innovatore nel campo della salute mentale: la legge che porta il suo nome, la 180 del 13 maggio 1978, fu la prima al mondo ad abolire gli ospedali psichiatrici. Formalmente la portò avanti il democristiano Bruno Orsini, e fu il preludio al provvedimento n. 833 che arrivò poco più tardi, il 23 dicembre 1978, quando fu approvata la legge che istituiva il Servizio Sanitario Nazionale e conteneva al suo interno – con alcune modifiche – quasi gli stessi articoli. «La legge Basaglia è un fiore all’occhiello per il nostro Paese», sottolinea a TPI Felice Iasevoli, psichiatra e direttore della scuola di specializzazione dell’Università Federico II di Napoli. Il provvedimento nacque con l’idea di superare l’esclusione sociale delle persone malate e curarle facendole uscire dallo stato di reclusione reinserendole invece nel tessuto sociale. «Non conosco un solo collega che ritenga che vada abolita o modificata – afferma Iasevoli – perché a prescindere dall’aspetto legislativo porta con sé un concetto fondamentale, cioè che lo psichiatra non è il custode del paziente ma ne è il curatore. Grazie alla legge Basaglia le persone hanno la possibilità di scegliere se curarsi oppure no». Il problema sono però i vuoti normativi e le risorse mancanti che non permettono di applicarla.
Il caso Seung
Sulla bontà della norma la categoria non indietreggia neanche di fronte alla recente tragedia di Pisa, che ha visto la tragica morte della responsabile del reparto di psichiatria dell’Ospedale Santa Chiara Barbara Capovani, aggredita da un suo ex paziente, il 35enne Gianluca Paul Seung. La cronaca è nota: l’uomo l’ha colpita ripetutamente con un oggetto contundente mentre si trovava nel parcheggio dell’azienda ospedaliera, la specialista è stata ricoverata per alcuni giorni in condizioni gravissime finché non ne è stata accertata la morte cerebrale, con conseguente espianto degli organi. Nel 2019 Capovani aveva diagnosticato a Seung «disturbi narcisistici, antisociali, paranoici di personalità»: dopo un ricovero disposto dal tribunale in seguito a un arresto, la responsabile scrisse che dalle visite effettuate erano emersi «sintomi appartenenti allo spettro» di quei disturbi. Segnali, spiega però l’anamnesi, «che non riteniamo responsivi al trattamento farmacologico perché strutturati nell’assetto di personalità». Per la psichiatra, il paziente appariva «totalmente consapevole delle proprie azioni e del loro disvalore sociale», quindi punibile per i reati eventualmente commessi.
È qui che si genera il cortocircuito. «L’autore di reato che abbia anche solo una minima parvenza psichiatrica – precisa Iasevoli – viene automaticamente inviato in psichiatria, non viene più preso in considerazione dalle istituzioni che dovrebbero gestire l’ordine pubblico. Seung, avendo ricevuto quel “bollino”, era stato spedito in ospedale a Pisa, non era stato inserito in percorsi specifici per autori di reato, perché non esistono. Non ci sono strutture che gestiscano le persone con un trascorso di violenza associato a patologie psichiatriche, non abbiamo previsto uno spazio per loro».
Un sistema in crisi
Nel sistema pubblico il cardine dell’organizzazione territoriale riguardo il trattamento di questi disturbi è il Dipartimento di salute mentale (Dsm), articolato in strutture e servizi che hanno il compito di farsi carico della domanda legata alla cura, all’assistenza e alla tutela della salute psichica. Oggi in Italia i Dsm contano 29.785 operatori, sotto lo standard di 1 ogni 1.500 abitanti, che verrebbe raggiunto con l’impiego di circa 11mila operatori in più.
«I centri devono essere supportati da risorse – denuncia Iasevoli – come medici, psicologi, assistenti sociali, terapisti della riabilitazione, infermieri specializzati. Tutto ciò non avviene, siamo in una situazione di enorme depauperamento della prevenzione della salute mentale, nel quadro generale di un Sistema sanitario nazionale disastrato».
Ci sono inoltre i servizi ospedalieri, cioè i servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc), dove vengono attuati trattamenti psichiatrici volontari e obbligatori in condizioni di ricovero. «Ma in gran parte delle regioni italiane – precisa Iasevoli – non è più possibile il ricovero volontario, perché i posti letto sono pochi e sono tutti occupati dai tso, quindi obbligatori, con enorme discriminazione per questa tipologia di pazienti». La creazione delle Rems (Residenze per le Misure di Sicurezza), strutture sanitarie residenziali con un massimo di 20 posti letto istituite nel 2014 in sostituzione degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), doveva rappresentare l’arrivo di un’assistenza diffusa e umanizzata rispetto al passato, come teorizzato da Basaglia. Ma queste si sono rivelate inadatte in particolare per i pazienti che soffrono di disturbo antisociale, a rischio di atti violenti, come è stato per l’uomo che ha ucciso Capovani. Queste persone restano a carico dei servizi del territorio, senza che questi ultimi abbiano le forze e le condizioni per affrontare le esplosioni di violenza.
«C’è stato un grande indebolimento anche a causa di quanto successo durante la pandemia, quando le persone non avevano accesso ai servizi oppure non potevano vedere i loro familiari», commenta a TPI Gisella Trincas, presidente dell’Unione nazionale delle associazioni per la salute mentale (Unasam). «Oggi ci ritroviamo senza avere sul campo operatori disponibili – aggiunge – mentre serve un’equipe multidisciplinare che lavori insieme sul territorio, coinvolgendo anche le associazioni di volontariato e la comunità».
Riforme annunciate
Dopo aver appreso la notizia della morte di Capovani la politica si è attivata, come sempre a posteriori: la Lega ha espresso la sua convinzione che sia «necessaria e non più rimandabile una profonda riflessione sulla legge 180 (la legge Basaglia, ndr) perché troppo spesso medici, personale sanitario, famiglie e pazienti sono lasciati soli».
Intanto il ministro della Salute, Orazio Schillaci, ha convocato una riunione con gli specialisti per riprendere le fila del lavoro sulla riforma della psichiatria: «Nel corso di questi ultimi mesi abbiamo già iniziato ad affrontare il tema della salute mentale e della riforma delle procedure per l’assistenza nelle strutture residenziali psichiatriche. Dobbiamo fare in modo che quanto accaduto a Barbara Capovani non si ripeta». Quali siano i correttivi effettivi che la maggioranza abbia intenzione di mettere in campo non è stato ancora chiarito. Di certo però sulla Basaglia non si torna indietro: «Chi fa lo psichiatra – conclude Iasevoli – viene spesso accusato di voler eliminare la follia. In realtà io voglio tutelarla dal resto della società».