La Lega è spaccata in due: chi sta con Salvini e chi sta con Giorgetti
Sovranisti contro moderati:chi sta con chi nella sfida tra il segretario e il suo vice per la leadership del partito. In attesa del grande duello finale
Sembra quasi uno stallo alla messicana quello in corso all’interno della Lega: il leader Matteo Salvini e il suo vice, il ministro per lo Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti, che si squadrano, mentre aspettano che la tensione scemi o scoppi del tutto. Attendono, entrambi con il dito ben posizionato sul grilletto. Entrambi con i loro compagni alle spalle. Dietro a Salvini, tutta l’ala più sovranista e antieuropeista del partito: la maggior parte dei parlamentari, come Alberto Bagnai, Claudio Borghi, Armando Siri, e i capigruppo alla Camera e al Senato, Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo. Ma anche il suo altro fedelissimo vicesegretario, il veneto Lorenzo Fontana, e il ministro per le Politiche agricole, Gian Marco Centinaio. Dietro a Giorgetti, invece, i sottosegretari agli Interni, Nicola Molteni e Stefano Candiani, insieme al sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Guido Guidesi. E poi gli amministratori locali, Massimiliano Fedriga e Attilio Fontana: i governatori di Lombardia e Friuli-Venezia Giulia, che si sono trovati a gestire in prima persona la crisi pandemica, hanno poca pazienza per le uscite di Salvini contro la certificazione vaccinale o le altre misure restrittive decise dall’esecutivo. A loro si aggiunge per il momento Luca Zaia, anche se il profilo del governatore veneto resta più complicato da definire: il suo successo elettorale nel 2020, quando la sua lista personale superò per numero di preferenze quella della Lega, lo rende un leader ingombrante, più volte indicato come un possibile sfidante di Salvini per la guida del partito. Per ora, però, è Giorgetti a essere la principale spina nel fianco dell’ex ministro degli Interni.
Da mesi ormai il segretario della Lega e il suo vice sembrano in rotta su tutto: dai mal di pancia di Salvini e dei suoi nell’accettare le decisioni del governo sul Green Pass, fino all’invito di Giorgetti ad aderire al gruppo moderato dei Popolari al Parlamento europeo, invece di cercare di costruire un fronte più ampio di nazionalisti (operazione che Salvini ha comunque portato avanti, senza successo). Le tensioni non riguardano solo le alleanze della Lega in Europa o le misure di contenimento del Covid, ma l’identità stessa del partito. Da una parte, le spinte antisistema che hanno portato la Lega ai massimi storici nel 2018 e nel 2019. Dall’altra, la ricerca di un posizionamento più moderato, che permetta di occupare lo spazio lasciato libero al centro dal declino di Forza Italia, invece di inseguire Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia a destra. Da una parte, la trasformazione di quello che era un partito regionale in una forza nazionale e sovranista. Dall’altra, la tradizione della vecchia Lega Nord, con le sue rivendicazioni di indipendentismo e federalismo, ma anche con il bacino elettorale degli industriali settentrionali.Che a incarnare l’anima più istituzionale e pragmatica sia l’attuale ministro per lo Sviluppo economico non è un fatto sorprendente. Anche ai tempi della Lega Nord di Umberto Bossi, Giorgetti non è mai stato uomo di lotta, ma sempre di governo. Una laurea in economia alla Bocconi, dopo essere stato sindaco del suo paesino natale nel Varesotto, Cazzago Brabbia, Giorgetti è stato eletto in Parlamento nel 1996. Negli anni è diventato uno degli uomini più potenti del suo partito, fondamentale nelle trattative di palazzo. Vicinissimo a Mario Draghi, nel 2013 era stato scelto dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, come uno dei dieci saggi responsabili di formulare un piano di riforme economiche per il Paese. È stato capace di giostrarsi fra i segretari succeduti al fondatore della Lega, passando per Maroni (con il quale non c’era grande intesa) fino ad arrivare a Matteo Salvini, di cui è diventato vice nel 2016. Ora proprio di Salvini è il principale rivale, in un momento in cui la presa del “Capitano” sul suo partito sembra sempre meno salda: all’esterno è minacciata dall’ascesa di Giorgia Meloni, all’interno è indebolita dai risultati deludenti delle amministrative. Le tensioni fra i due hanno iniziato a farsi sempre più evidenti da quando Giorgetti ha convinto il leader a far entrare la Lega nel governo Draghi. Una scelta sulla quale Salvini sembra aver sempre mantenuto una certa ambiguità, che ha espresso cercando lo scontro con il premier in più occasioni: la spinta alle riaperture di massa delle attività in primavera, le uscite contro i vaccini per gli under-18 e soprattutto la lotta durissima contro il Green Pass, con la richiesta (mai accolta da Palazzo Chigi) di garantire tamponi gratuiti ai lavoratori. Tutto questo mentre il suo vice invocava più volte il rispetto delle misure previste dal governo e invitava a vaccinarsi.
Dal canto suo, Giorgetti non ha mancato di farsi portavoce del dissenso di tutta la sua ala del partito. A cominciare dalla frecciata lanciata contro Claudio Durigon al meeting di Rimini di agosto. Nei giorni in cui l’ex sottosegretario per l’Economia, fedelissimo di Salvini, veniva costretto a dimettersi per aver chiesto che il parco di Latina tornasse a essere intitolato al fratello del Duce, Arnaldo Mussolini, dalla kermesse ciellina il titolare del Mise commentava: «Quando si hanno responsabilità di governo, occorre stare molto attenti quando si parla». Prima delle amministrative, poi, da Giorgetti era arrivata un’uscita poco lusinghiera nei confronti del candidato del centrodestra a Roma, Enrico Michetti, quasi una sconfessione delle decisioni di Salvini. Intervistato da La Stampa, aveva previsto una vittoria di Roberto Gualtieri in caso di ballottaggio con Michetti, elogiato il leader di Azione, Carlo Calenda («Ha le caratteristiche giuste per amministrare una città complessa come Roma», aveva commentato) e detto che Guido Bertolaso sarebbe stato «il candidato giusto» per il centrodestra. Ma l’apice della tensione si è raggiunto a inizio novembre, con l’anticipazione delle dichiarazioni del ministro per lo Sviluppo economico nel libro di Bruno Vespa. Un attacco frontale a Salvini, nel quale parlava di una svolta «europeista» a metà, e diceva del suo segretario: «Matteo è abituato a essere un campione d’incassi nei film western. Io gli ho proposto di essere attore non protagonista in un film drammatico candidato agli Oscar. È difficile mettere nello stesso film Bud Spencer e Meryl Streep. E non so che cosa abbia deciso». Dopo lo strappo, con un confronto fra tutti i big del partito, durante la riunione del consiglio federale del 4 novembre, fra i due si è arrivati a una tregua armata. Doveva durare solo fino all’assemblea programmatica della Lega, a dicembre, ora però rimandata per l’entrata in vigore del Super Green Pass. Sarebbe stato il primo vero confronto di Salvini con l’opposizione interna al partito. Da quando nel 2019 si è costituita come partito nazionale, andando a sostituire la vecchia Lega nord, lasciata in vita come organizzazione vuota solo perché indebitata con lo Stato italiano, la Lega-Salvini premier non ha mai tenuto un congresso nazionale: solo ora si devono tenere i congressi a livello cittadino, dopo lo stop imposto dalla pandemia. Un’occasione per fare la conta effettiva di quanti sono scettici o ostili alla leadership del “Capitano”, quindi, ancora non c’è stata. Salvini e Giogetti, intanto, continuano a squadrarsi. L’ultima piccola punzecchiatura del “Capitano” al suo vice è stata la frecciata lanciata dal palco di Atreju, il festival organizzato dal partito di Giorgia Meloni: «Io non prendo la pizza con Di Maio», ha detto, come invece farebbe Giorgetti una volta a settimana, secondo quanto detto dal ministro grillino. Una battuta, quella di Salvini, già fatta nei giorni di massima tensione con il suo vicesegretario, a novembre, e ripetuta non a caso davanti al pubblico della manifestazione di Fratelli d’Italia. Si tratta però solo di schermaglie, comunque, mentre i due continuano a rispettare la loro tregua. In attesa, se mai ci sarà, del duello finale.