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“I grandi leader della Storia sono diversi da come li immaginiamo”

Immagine di copertina
Gianluca Giansante

“Da Churchill a Mandela. Da Alessandro Magno al sindaco-martire di Rocca di Papa. Quello del capo solo ed egocentrico è un falso mito. Per guidare un gruppo bisogna prima di tutto saper fare squadra”. Colloquio con lo spin doctor Gianluca Giansante

Gianluca Giansante, lei ha appena pubblicato un libro sulla leadership molto innovativo.
«Mi sono reso conto che i tanti libri sulla leadership in circolazione erano in realtà raccolte – a volte molto bel fatte – di opinioni eccellenti su questo tema». 

E invece il suo saggio?
«Mancava un libro che ci dicesse come – secondo la scienza – si diventa leader. Che spiegasse i meccanismi antichi e moderni di questo processo. Così ho provato a ribaltare lo schema: partire da quel che dice la scienza per fare un viaggio nella storia». 

A partire da un interessante scavo sulle parole.
«Già, perché, il leader – tanto per cominciare – non è “il capo”: leader viene dall’inglese “to lead”, condurre. Il leader è chi guida un gruppo verso un obiettivo condiviso. Magari per conto di un capo o di una comunità. Non come un “proprietario”, ma come un interprete». 

Perché è importante?
«Quando parliamo di leadership ci troviamo in un racconto che affonda le sue radici nella storia dell’Occidente». 

Lei apre questo romanzo della leadership con Luigi Filippo di Orleans, il “re borghese”. Perché?
«È l’archetipo di un salto di comunicazione nella modernità. C’è l’esempio di Alessandro Magno che rifiuta un elmo pieno di acqua nel deserto dicendo: “Berrò solo quando potranno bere i miei soldati”. Però…».

Però?
«L’idea antica del capo che condivide con il suo popolo trova una sintesi perfetta nell’aneddoto che racconto nel primo capitolo del libro. Non più mitografia, ma un episodio storicamente documentato».

Siamo nella prefettura di Metz, in Francia: è il 12 giugno 1831…
«Al termine di una visita ufficiale, dal grande portone del palazzo esce il re: Luigi Filippo. E inizia a piovere. È in quel preciso momento che il sovrano, di fronte alla guardia nazionale, mentre i suoi valletti corrono per portargli un mantello e la pioggia si infittisce, intuisce la potenzialità di un gesto simbolico». 

Rifiutare il mantello.
«Lui stesso lo racconta così: “Dissi al servitore di riportarlo indietro. I soldati non avevano un mantello, e così neanch’io lo volevo. L’acume dei francesi mi comprese al volo ed ecco che risuonò il grido ‘Bravo il re!’”». 

Quel gesto, racconta lei, sarà destinato a ripetersi.
«Per Luigi Filippo è un modo per prendere le distanze dallo sfarzo dell’Ancien Régime e mostrarsi diverso, costruendo l’immagine di un re vicino al popolo». 

Quanto di questo spirito vive anche nei leader di oggi?
(Sorriso). «Tutto e di più. Da dove inizio?». 

Il saggio di Gianluca Giansante appena pubblicato da Carocci – “Leadership. Teorie, tecniche, buone pratiche e falsi miti” – è lungo meno di 200 pagine. Ma è come quei libri che si misurano sulla capacità di sintesi più che sulla fluvialitá del racconto, un liquore  distillato più che una pinta di birra. È anche un libro fuori dal cliché di genere: nasce come un manuale per professionisti, ma si legge come un romanzo di storia. D’altra parte, è un eclettismo che rispecchia la formazione dell’autore: socio di una delle principali agenzie di comunicazione (Comin & partners) ma anche professore alla Luiss. Tuttavia Giansante è, soprattutto, un grande appassionato di politica. E si vede. 

A lei piace molto un indice, elaborato dallo psicologo olandese Geert Hofstede, che misura il tasso di prossimità di un leader con il suo popolo.
«Un indicatore scientifico straordinario. Lui lo battezzò “Power distance index”, Pdi». 

Ci dice quanto lo status del leader è distante da quello di coloro che lo eleggono.
«Hofstede citava due esempi che mi piacciono molto. Quello del cancelliere austriaco Bruno Kreisky, famoso per prendere il tram per recarsi al lavoro…».

E quello, ancora più bello, del primo ministro olandese Joop den Uyl.
«Raccontava di averlo visto con i suoi occhi, nel 1974, in vacanza con il suo camper in un campeggio portoghese». 

Quindi: basso Pdi index, puoi trovare il primo ministro in fila per la doccia con te; alto Pdi index, c’è “la Casta”.
«In alcuni casi il potere sente di avere bisogno di distanza per essere esercitato. Per non perdere la sua aura». 

A cosa serve il Pdi index?
(Sorriso) «A nulla e a tutto. Può spiegare, ad esempio, l’indignazione degli italiani per le scorte e i privilegi che fu una delle cause motrici della vittoria del M5S». 

Cosa l’affascina di più, di questa disciplina complessa?
«Il tema della leadership è legato a fattori geografici e sociali». 

E non può mancare un tratto epico ed eroico.
«Cito esempi piccoli e grandi. Quello di Emanuele Crestini, il sindaco di Rocca di Papa morto nel 2019 per salvare i suoi concittadini durante un incendio. E quello, nella seconda guerra mondiale, di Charles De Gaulle, processato per tradimento perché non si arrende ai tedeschi, che incide il suo celebre messaggio per incitare alla Resistenza…». 

E quello ancora più bello di Nelson Mandela.
«Che si impossessa del mito di una squadra, gli Springboks, la nazionale di rugby simbolo dell’orgoglio bianco, trasformandola in un mito di pacificazione razziale». 

Arriva fino a farsi fotografare allo stadio con la maglia della nazionale.
«Ecco un altro fenomeno importante legato alla leadership: il senso della missione. Approfittare del gruppo che rappresenti per i tuoi interessi disgrega, vedi l’esempio italiano della crisi indotta da corruzione e privilegi». 

Mentre fare l’opposto cementa il leader e lo radica nella collettività.
«Di più: il coraggio della rinuncia porta i soggetti di una comunità a essere disposti a rinunce. Un gruppo di ricercatori californiani ha condotto un esperimento interessantissimo sull’acqua. In un ambiente chiuso, si rende indisponibile l’acqua e si favorisce la scelta tra due leader: uno che vuole semplicemente amministrare la risorsa, ritagliandosi il privilegio del consumo…». 

E un altro che la raziona sia per se stesso che per gli altri.
«Disponibile, cioè, ad agire nell’interesse comune». 

Cosa accade?
«La maggioranza sceglie il secondo leader: siamo disponibili a rinunce in nome di un interesse superiore». 

Torniamo ai grandi racconti, su cui si staglia quello di Teddie Roosveelt.
«Roosevelt vive due vite opposte segnate un episodio spartiacque: il doppio lutto della moglie e della figlia». 

Nella prima è un ereditiero benestante, brillante e viziato…
«Nella seconda un uomo che si ricostruisce in una fattoria del Far West, e che poi torna al servizio della comunità accettando un ruolo apparentemente secondario – controllare i vigili urbani! – ma che, combattendo la corruzione, ricostruisce la propria immagine pubblica». 

Per associazione potremmo parlare di un altro presidente americano.
«Il leader che ritrova la motivazione: Lyndon Johnson, che è ricordato solo per la guerra del Vietnam ma ebbe un grande ruolo nella lotta per i diritti civili. Riuscì a recuperare la motivazione che aveva perso dopo un infarto. Durante la convalescenza lesse nella biografia di Abramo Lincoln questa massima: “Cosa ricorderesti di te se morissi oggi?”». 

Ci serve un finale.
«Nel libro elaboro una sorta di decalogo. Il leader non può essere uno che vuole approfittarsi degli altri. Ma soprattutto, nella modernità, ha bisogno di squadre che gli permettano di governare. Perché nemmeno il leader può riuscire da solo». 

E qui lei cita l’esempio – da non seguire – di Aung San Suu Kyi.
«Mi colpisce molto la parabola di una donna che passa dal premio Nobel per la Pace alla complicità in un massacro etnico. Se si studia quella vicenda si scopre che la leader carismatica, troppo sicura di se stessa, era diventata ostaggio dei suoi collaboratori». 

Ricordiamo una massima di un grande leader, Winston Churchill?
«Eccola: “La cosa più importante che ho fatto nella mia vita è stata convincere mia moglie a sposarmi”. Non era retorica. La moglie gli scrisse in una lettera: “Tu tratti male le persone”». 

Abbiamo fatto un viaggio partendo dalla concezione tradizionale: il leader carismatico, egocentrico, eroico e solo. E alla fine abbiamo scoperto che gli servono collaboratori, mogli e tanti dubbi.
«La leadership è sempre più diffusa, è squadra. Cooperazione: si acquisisce, ma si può sempre perdere». 

Perché?
«Leader non è più un sostantivo, ma un’azione. Un processo costante per raggiungere degli obiettivi». 

Lei cita Brecht, che si interrogava sui costruttori di piramidi.
«Se devi costruire una piramide puoi basarti sul comando. Se devi guidare un sistema complesso non puoi che lavorare sulla partecipazione».

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