La rete dei volontari che tappa i buchi della Sanità pubblica
Liste d’attesa troppo lunghe. E costo del ticket troppo alto. Ogni anno migliaia di italiani rinunciano alle cure o non hanno accesso al medico di base. Ma da Napoli a Roma stanno nascendo gli ambulatori popolari per colmare i vuoti lasciati dal Servizio sanitario nazionale. Che non ha imparato niente dalla pandemia
Via Palmiro Togliatti attraversa gli archi dell’acquedotto Alessandrino, nel quadrante est di Roma, collegando numerosi pezzi di periferia. A metà della strada intitolata all’ex leader del partito comunista italiano, sorge una borgata storica composta per la maggior parte da case popolari, il Quarticciolo, dove le difficoltà che affrontano gli oltre 6mila abitanti sono esemplificative delle problematiche che affliggono molte famiglie a rischio di povertà nell’Italia del 2023: l’impossibilità di accedere regolarmente a un alloggio popolare e di iscrivere la residenza anagrafica in caso di occupazione abusiva, il mancato accesso ai diritti che ne derivano, l’assenza di manutenzione degli stabili, che porta in casa umidità e infiltrazioni, la disoccupazione e il timore di perdere i sussidi di integrazione al reddito. Un’emergenza sociale che si è amplificata con la pandemia e che è stata presa in carico da molte associazioni che nascono dal basso, in una zona periferica ma attiva nel difendere le istanze dei cittadini, dove il comitato di quartiere rappresenta una realtà che in alcuni ambiti affianca lo Stato nell’erogazione dei servizi pubblici. La sanità è uno di questi. Se le persone più povere, senza residenza, o troppo anziane per venire a capo dei passaggi burocratici necessari a prenotare una visita medica non riescono ad accedere alle prestazioni sanitarie – in una Regione in cui, secondo i dati elaborati da Agenas per Dataroom, nel 2022 sono state effettuate il 19,9 per cento di prime visite in meno rispetto al 2019, in linea con una media nazionale del 14 per cento – l’ambulatorio popolare di Roma est cerca di sopperire alle falle di un Sistema sanitario nazionale (Ssn), che impone tempi di attesa troppo lunghi (fino a un anno per effettuare un’ecografia, una tac o un intervento cardiologico stando alla denuncia di Cittadinanzattiva) o costi troppo alti per saltare le file ricorrendo alle prestazioni “intramoenia”.
«Organizzando la distribuzione di pacchi alimentari durante la pandemia ci siamo resi conto che le famiglie che ne usufruivano avevano altri tipi di problemi, non solo economici, ma di salute mentale», racconta Margherita, che fa la psicologa per un’associazione che si occupa di disabilità e si è avvicinata al comitato di quartiere durante l’emergenza Covid, quando con la squadra di calcio popolare Borgata Gordiani ha deciso di mettere in piedi un numero telefonico a cui le persone potevano fare riferimento per parlare e ricevere consigli. Il disagio psicologico, col tempo, si è rivelato parte di un quadro più ampio che riguardava il benessere generale della persona, a cui gli ideatori del progetto hanno deciso di dare attenzione allestendo un ambulatorio che guardasse alla salute del singolo come risultato di un insieme di fattori. «L’idea è quella di prendersi cura dei pazienti a 360 gradi, prendendo in considerazione l’aspetto umano e sociale, il contesto da cui provengono, e mettendo al centro la salute globale».
L’ambulatorio prende vita all’interno della casa di quartiere, inaugurata a gennaio del 2022 nei locali dell’ex bocciofilo del Quarticciolo, una struttura dalle pareti azzurre, dove campeggia il murale dello street artist Jorit dedicato all’attivista brasiliana Marielle Franco. Apre le sue porte il giovedì sera e il sabato mattina e prevede uno sportello psicologico, uno di orientamento ai servizi sanitari e, da poche settimane, la possibilità di effettuare uno screening generale per indirizzare i pazienti verso il medico di base o le visite specialistiche, con un occhio di riguardo per le situazioni più delicate, in cui le persone non possono permettersi di adeguarsi alle liste di attesa, pagare una struttura convenzionata o ricorrere al privato, e hanno bisogno del supporto di una rete informale per sollecitare la presa in carico da parte del Ssn. Andrea è uno dei medici volontari. Ha 34 anni e si sta specializzando in medicina di comunità e cure primarie dopo un’esperienza da libero professionista nel privato sociale. Siede all’interno del locale allestito con un lettino e munito della strumentazione di base per effettuare le visite di medicina generale, acquistata tramite donazioni e un crowdfunding che ha permesso di raccogliere oltre 6mila euro. Andrea definisce l’esperimento del Quarticciolo “una casa di comunità ante litteram”, simile a quelle previste dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, che mette a disposizione due miliardi di euro per realizzare circa 1.350 case di comunità per promuovere la medicina di prossimità entro il 2026. Fondi che finanzieranno la realizzazione di infrastrutture, ma non l’aumento di personale, nonostante ad oggi il rapporto tra medici di base e persone residenti sia di uno a 50mila: un ostacolo nel percorso di cura del paziente, aggravato dalle condizioni generali di lavoro. «Con i tempi standard delle visite in ambulatorio, non è possibile riuscire a riconoscere i determinanti sociali di salute, come le relazioni sociali, il lavoro, la casa, la residenza anagrafica, che se perpetrati in maniera iniqua producono disuguaglianze, come un aumento della mortalità, la disabilità o la malattia», afferma Andrea.
«Per questo proviamo ad agire con un approccio salutogenico, non patogenico, attraverso attività che mantengano e producano salute, come la prevenzione o lo sport». Le visite di medicina generale, aggiunge Andrea, sono una sorta di grimaldello delle problematiche socio sanitarie delle persone. «Misurare la pressione è un modo per capire se hanno il medico di base, o per far emergere altri problemi come la tessera sanitaria scaduta o le liste di attesa troppo lunghe». In alcuni casi lo staff dell’ambulatorio ha aiutato pazienti che dovevano subire un intervento rimandato a causa della pandemia a riprendere le fila della propria storia sanitaria, risalire al nome del chirurgo che doveva effettuare l’operazione e sollecitare l’ospedale. «C’è stato il caso di un intervento di ernioplastica rimandato con una problematica che si era aggravata nei tre anni di pandemia. In quel caso tramite i colleghi che lavorano nel pubblico abbiamo sollecitato la chiamata del paziente. In alcune occasioni – aggiunge Margherita – abbiamo prenotato visite noi al posto delle persone, anziani isolati che non avevano la possibilità di contattare il medico o che non sanno di averne diritto perché non hanno ricevuto l’assegnazione dopo che il loro era andato in pensione». Tutte situazioni in cui ha avvertito la sensazione di aver fatto la differenza per qualcuno, facendo da ponte con il pubblico.
L’obiettivo dell’esperimento è anche quello di creare uno spazio adeguato dove poter effettuare, in futuro, visite specialistiche, guardando ad esperienze più mature avviate in altre parti d’Italia. È il caso di Palermo, dove il primo ambulatorio popolare è stato aperto nel 2017 nel centro sociale anomalia, all’interno del Borgo Vecchio, dove la popolazione ha un reddito che supera le soglie necessarie a ottenere l’esenzione dal ticket ma non può comunque permettersi di pagarlo per effettuare analisi dettagliate. Una delle problematiche di cui gli attivisti avevano previsto l’esplosione in tempi non sospetti, intravedendo i buchi del sistema che sarebbero venuti a galla tre anni dopo con la pandemia. «Alcune statistiche internazionali che parlavano della medicina specialistica in epoca post crisi globale, notavano il crollo dell’accesso alle cure specialistiche a causa dell’aziendalizzazione della sanità e dei tagli ai servizi pubblici», racconta a TPI Giorgio Martinico, 36 anni, operatore sociale per un ente di terzo settore che opera nel quartiere Zen del capoluogo siciliano. «Ci venne l’idea di contattare alcuni medici che conoscevamo per ragioni di attivismo politico e di costruire un ambulatorio che offrisse servizi di medicina specialistica. Avevamo già capito che il tappo della bottiglia era bloccato dai tempi di attesa e dai costi», continua. La direzione che ha preso il Ssn negli ultimi 20 anni, contraria ai principi secondo i quali era stato istituito nel 1978 – universalità, eguaglianza ed equità – ha spinto molti medici educati all’etica del servizio pubblico negli anni ‘70 ad aderire al progetto, garantendo cinque specializzazioni fisse nel centro del Borgo Vecchio e 17 nel poliambulatorio aperto un anno fa allo Zen, periferia estrema di Palermo in cui migliaia di abitanti sono abbandonati a se stessi e dove l’unico presidio dell’Asp aperto a singhiozzo negli ultimi mesi ha chiuso per mancanza di personale. Nel 2022 i due ambulatori popolari hanno assistito circa 1.300 persone.
«Tanti dei professionisti che hanno deciso di partecipare sono medici in pensione o a fine carriera. Hanno sottolineato il fatto che questa attività li sta riconciliando con la professione in un tempo in cui il lavoro in ospedale è diventato a tutti gli effetti “in barricata”, in cui compili tabellari e scartoffie e non dedichi adeguata attenzione ai pazienti e all’utenza», continua Giorgio. Mentre l’11 per cento delle famiglie italiane che non possono ricorrere al privato davanti ad attese prolungate rinunciano alle cure (secondo i dati raccolti dall’Oms in collaborazione con il Cergas Bocconi) la presenza fisica nei quartieri invoglia le persone ad effettuare controlli anche se non avvertono disturbi evidenti, evitando di svolgere le analisi cliniche solo in situazioni di emergenza. Un approccio che in alcuni casi porta ad effettuare diagnosi tempestive e ad intercettare le malattie per tempo. «Abbiamo trovato due tumori ovarici di persone che se non ci fossimo stati noi non si sarebbero mai controllate, e quindi non lo avrebbero mai scoperto», continua l’operatore. Un circolo virtuoso che, se replicato su larga scala, porterebbe anche allo svuotamento dei pronto soccorso, a cui spesso i pazienti ricorrono perché è l’unico modo di saltare la fila per effettuare un’ecografia.
Anche Claudia, 28 anni e specializzanda in endocrinologia a Napoli, si è resa conto dell’importanza della prevenzione partecipando al progetto “Je so Pazz”, ambulatorio popolare allestito nel 2017 all’interno del centro storico, a pochi metri da Piazza Dante, dagli attivisti del centro sociale ex Opg occupato. Aperto inizialmente per dare supporto psicologico, oggi il presidio effettua circa 30 visite a settimana e conta fino a 40 medici specialisti che si rendono disponibili a visitare i pazienti su chiamata. A spingerla a partecipare è stata la voglia di apprendere la professione in un ambiente più stimolante rispetto a quello universitario. «L’ambulatorio è organizzato con una sala d’attesa dove si cominciano a capire le problematiche delle persone con una sorta di triage con gli studenti di medicina. Nelle stanze ci sono i medici che accolgono i pazienti. Io ero una studentessa un po’ delusa dall’ambiente competitivo dell’Università. Mi ero iscritta a medicina perché volevo aiutare, curare, ma vedevo attorno a me persone che pensavano solo a superare l’esame, sicuramente fondamentale, ma che non si guardavano attorno. Invece mi rendevo conto che in una città metropolitana come Napoli c’erano carenze dal punto di vista della salute, difficoltà a intercettare i problemi. L’ambulatorio ha risposto alla necessità di avere un confronto alla pari con medici disponibili a spiegarmi le cose senza la puzza sotto il naso, non solo riferendosi alla propria esperienza clinica, ma anche ragionando su quello che è diventato il Ssn e sulle difficoltà di accesso ai servizi di base», racconta a TPI.
Una delle storie da cui Claudia è rimasta colpita riguarda una coppia di 30enni, che in una giornata di sensibilizzazione sulle malattie sessualmente trasmissibili ha scoperto di essere sieropositiva effettuando il test dell’Hiv con il pungidito. Esame a cui, altrimenti, i due non si sarebbero mai sottoposti, perché non mostravano sintomi. «L’infezione in alcuni casi può rimanere silente anche per 20 anni se non si avvertono sintomi influenzali, ce ne si accorge quando l’immunodeficienza diventa tale da far emergere le complicanze. Intercettare questo tipo di infezioni in una fase precoce significa salvare una vita». Nel caso di quella coppia, la presenza dell’ambulatorio ha fatto la differenza. «L’infettivologo che era lì ha fatto in modo che fossero immediatamente inseriti nel sistema per fare la terapia, che se presa in tempo non intacca la qualità della vita, perché raggiungi uno stadio di normalità. Ci siamo resi conto della necessità di fare educazione sanitaria rispetto a queste malattie. Ci sono giornate promosse dalle Asl, ma c’è difficoltà a capire dove fare i test».
Come gli altri attivisti che negli anni hanno creato reti virtuose di assistenza sanitaria sul territorio, anche Claudia è soddisfatta del lavoro svolto e dei servizi offerti alla comunità, ma concorda con il fatto che la loro presenza sia in realtà un problema, perché rappresenta solo la toppa di un sistema complesso che ha il compito di rinnovarsi e dare risposte alle persone in linea con il suo mandato originario. L’obiettivo è piuttosto quello di offrire una testimonianza e fare denuncia, rendendo i cittadini consapevoli dei propri diritti. «Non perdiamo occasione di dire che la nostra esistenza è una sconfitta per lo Stato – sottolinea Giorgio – e abbiamo l’ambizione di non esistere più. Il fatto che stiano aumentando le richieste e che anche nei nostri ambulatori siamo costretti a dire alle persone di attendere, significa che il problema sta peggiorando. Per questo avvertiamo l’urgenza di costruire una massa critica che torni a rivendicare un diritto che ci siamo dimenticati di rivendicare – conclude – quello alla salute».