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Finché c’è guerra c’è speranza: quanto ci costano le 55 missioni militari italiane all’estero

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Da Gibuti al Burkina Faso, dal Libano alla Somalia. Per i contingenti schierati all’estero, l'Italia spende 1,7 miliardi di euro, una cifra che dopo l’invasione dell’Ucraina copre anche il rafforzamento della nostra presenza al confine sudorientale della Nato con la Russia. E quella in Iraq dove il Tricolore continua a sventolare ormai da 20 anni

Ben 55 missioni diverse. Alcune prorogate, altre invece inaugurate proprio quest’anno. Dall’Ucraina al Burkina Faso. Missioni che comportano una spesa di 1.443.524.748 euro, per essere precisi. 

Soldi destinati agli impegni militari del nostro Paese, cui si aggiungono altri 276 milioni già messi in conto ma esigibili nel 2024, per un totale di 1,7 miliardi. Non solo: secondo la relazione che il governo ha consegnato in Parlamento e che Tpi ha visionato, la «consistenza massima annuale complessiva dei contingenti delle Forze armate impiegati nei teatri operativi» sarà pari a 11.495 unità. Il problema – al di là dei numeri e della mole di fondi, uomini e mezzi che l’Italia metterà a disposizione – ruota proprio attorno ai tempi in cui è stata consegnata la relazione: «Ancora una volta siamo in ritardo con l’approvazione delle missioni militari: non è possibile che si arrivi a 5 mesi dall’inizio dell’anno. Ci sono missioni che sono iniziate a gennaio e termineranno a giugno e dunque parliamo di azioni che saranno già terminate quando verranno approvate», spiega Francesco Vignarca dell’Osservatorio sulle spese militari Milex. 

Un paradosso reso ancora più evidente dal raffronto con altri Paesi. Lo sottolinea Fabrizio Coticchia, docente di scienze politiche all’Università di Genova: «L’Italia è uno dei Paesi più attivi a livello militare. Le faccio un esempio: la Germania ha approvato circa 50 missioni militari dalla Guerra fredda ad oggi, noi ne approviamo 50 tutti gli anni. C’è un attivismo imparagonabile, eppure non c’è alcuna discussione parlamentare su questa o quella missione».

Armiamoci e partite
In attesa di capire in che modo verranno utilizzati i fondi del Pnrr adesso che è stato autorizzato il loro impiego anche a fini militari, il governo Meloni dunque pare non voglia rinunciare a personale e mezzi nei vari teatri armati in giro per il mondo. A cominciare, manco a dirlo, dall’Ucraina. «Siamo ben più coinvolti nel conflitto rispetto alla sola cessione di armi», sottolinea Vignarca. L’obiettivo è garantire «assistenza militare» e «contribuire al rafforzamento della capacità delle forze armate […] per consentire all’Ucraina di difendere la propria integrità territoriale entro i suoi confini riconosciuti a livello internazionale». I soldati italiani impiegati saranno massimo 80 per una spesa nell’arco del 2023 di 9,1 milioni di euro.

Ad assorbire gran parte dei fondi sono, invece, le missioni di sorveglianza dei confini Nato. A cominciare dal «potenziamento della presenza nell’area sud-est dell’Alleanza». In pratica, al confine con la Russia. In questo caso le oltre 2mila unità di contingente italiano sono – e resteranno per tutto il 2023 – dislocate tra Romania, Ungheria, Slovacchia e Bulgaria, insieme a 450 mezzi terrestri e 10 mezzi navali. Fabbisogno economico: 150 milioni. Cui però si aggiungono altre «missioni di sorveglianza»: una in Lettonia sempre a presidio dei confini con la Russia (39 milioni rispetto ai 30 del 2022); una a guardia dell’area meridionale dell’Alleanza lungo il Nord Africa e Medio Oriente (705mila euro); una navale nel Mar Mediterraneo, Mar Nero e Mar Baltico (64 milioni rispetto ai 50 dell’anno scorso); e ben due di controllo degli spazi aerei con comando operativo in una delle più importanti basi militari Nato in Europa, a Ramstein in Germania (oltre 60 milioni di euro, mentre nel 2022 il fabbisogno viaggiava intorno ai 40).

Gli altri fronti
Se però l’attenzione mediatica è tutta concentrata nell’Europa dell’Est, in realtà sono diversi gli scenari di instabilità politica e militare in cui ritroviamo altri contingenti del nostro Paese. A cominciare dall’Iraq. Nell’antica Mezzaluna fertile l’Italia è impegnata dal 2003: venti anni durante i quali si sono alternate, sommate, moltiplicate varie missioni. Un quadro che resta immutato. Oltre mille soldati sono impiegati nella coalizione internazionale per la lotta contro l’Isis (in piedi ormai dal 2014) che costa alle casse dello Stato oltre 241 milioni. Altri 225 militari dotati di 100 mezzi terrestri e 4 mezzi aerei sono invece chiamati a partecipare a una missione Nato (altri 31 milioni) con l’obiettivo di «offrire un ulteriore sostegno al Governo iracheno nei suoi sforzi per stabilizzare il Paese, combattere il terrorismo in tutte le sue forme e manifestazioni e prevenire il ritorno di Daesh». Pur essendo poco nota, la questione è tutt’altro che secondaria. «In Iraq siamo chiamati ad addestrare le forze militari, ma era lo stesso ruolo che avevamo in Afghanistan e sappiamo bene com’è andata a finire: una missione durata 20 anni che, in totale, è costata all’Italia 8,5 miliardi di euro. Eppure non è stato fatto alcun tipo di ragionamento su cosa sia andato storto. Il rischio, insomma, è che l’Iraq sia una seconda Afghanistan», riflette ancora Vignarca. 

Altro territorio fortemente instabile è il Libano dove, non a caso, le missioni sono due: una coordinata dall’Onu col fine di «agevolare il dispiegamento efficace e durevole delle Forze armate libanesi nel sud del Libano fino al confine con lo Stato di Israele», e una invece frutto di un accordo bilaterale tra Roma e Beirut. In totale il costo per il nostro Paese è superiore ai 160 milioni di euro.

Tralasciando le missioni diventate ormai quasi canoniche – l’Italia, come dimostra il grafico, è impegnata anche in Palestina, Somalia, Cisgiordania, Gibuti, Tunisia, Marocco, ecc. – ci sono altri teatri che hanno subìto un brusco incremento. Come ad esempio l’area dello Stretto di Hormuz, una delle vie commerciali più importanti al mondo e di enorme rilevanza geostrategica poiché – situato tra Iran e Oman – collega il Golfo Persico al Golfo di Oman e al Mar Arabico. Qui nel 2022 l’impiego italiano era di 9,5 milioni, mentre quest’anno è cresciuto fino ad arrivare 19,7 milioni di euro, con tanto di impiego di mezzi aerei che svolgono «attività di presenza, sorveglianza e sicurezza» per «proteggere il naviglio mercantile nazionale presente nell’area, prevedendo eventualmente attività di scorta». Come sottolinea il prof. Coticchia: «Quest’area, che va dal Mediterraneo al Golfo di Guinea fino al Corno d’Africa, è in realtà quella che più interessa al nostro Paese dal punto di viste geopolitico, ben più dell’Europa orientale: per ragioni migratorie, ma soprattutto per ragioni energetiche nell’ottica di differenziare gli importatori dopo la crisi russa». 

Mare Nostrum
A giocare un ruolo chiave è ovviamente anche il Mediterraneo. La missione europea Irini, che ha il compito principale di dare «attuazione dell’embargo sulle armi imposto dall’Onu nei confronti della Libia con mezzi aerei, satellitari e marittimi», ha subìto una frenata dato che gli stanziamenti di 40,6 milioni del 2022 si sono ridotti a 31; esattamente come la missione Nato “Sea Guardian” nel Mediterraneo (da 17 a 11). Di contro, però, si moltiplica in consistenza e costo la missione di supporto alla Guardia Costiera e alla Marina libiche (che proprio quest’anno da “Mare sicuro” ha cambiato nome in “Mediterraneo sicuro”): siamo passati da un fabbisogno previsto di 95 milioni (e 774 unità impiegate) a 104 milioni (e 826 unità). Tutto questo nonostante diverse mozioni parlamentari presentate nella scorsa legislatura chiedessero al governo il superamento di questa attività con il trasferimento delle sue funzioni alle missioni europee, che invece rimangono puramente simboliche. Un esempio? Quella di assistenza alle frontiere (Eu Border Assistance Mission in Libya – Eubam) conta tre unità della Polizia di Stato ed un ufficiale superiore della Guardia di finanza impiegati, per un costo di 430mila euro.

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