L’irresistibile antipatia di Matteo Renzi (di S. Lucarelli)
Essere simpatici non è una dote necessaria, specialmente se è ormai evidente che il futuro sarà più dalle parti del Golfo Persico che in qualche palazzo della politica. Lo sa bene, Matteo Renzi, che la carta della simpatia l’ha scartata da un pezzo, assieme a quella della coerenza e dell’affidabilità, in questo sgangherato poker che gioca ormai da un po’, col peggior avversario che possa avere: se stesso. Ma perché, al di là dell’orientamento politico e delle sue strategie, Matteo Renzi riesce a suscitare un’antipatia così irresistibile e trasversale? Partiamo dalle azioni legali. Ognuno è libero di rivolgersi a un giudice quanto vuole, ma lui va puntualmente oltre, conia hashtag coatti, rilascia comunicati come se l’azione civile, di per sé, fosse già una specie di ragione acquisita oltre che un guanto di sfida buttato lì, sulle tavole del palcoscenico, in modo che tutti ammirino il suo spirito battagliero.
E non importa che, ad oggi, nessuna delle sue più sbandierate azioni civili sia ancora arrivata a una prima sentenza. A lui importa far sapere che chiede risarcimenti, contando sul fatto che molti giornali – soprattutto se piccoli – sono più sensibili al portafogli che al casellario giudiziario. A lui basta che sul nemico ricada l’onta pubblica (o meglio quella che lui ritiene tale) del “denunciato”. E anche in questo, riesce ad essere più odioso di chiunque si rivolga alla legge, perché lo fa da sbruffone, da gradasso, da quello che “lo dico ad alta voce così si spaventano pure gli altri”. È poi irresistibilmente antipatico, Matteo Renzi, per quell’aria di eterna sufficienza mista a disprezzo con cui “risponde” a qualunque giornalista provi anche solo a metterlo in difficoltà.
Basta una domanda ficcante perché si rivolga a chi chiede come fosse l’amico scemo del calcetto, rispondendo a una domanda con una domanda, cambiando tema, utilizzando la tecnica “spray al peperoncino” del “questo lo dice lei”: dici a un giornalista che “Bin Salman non è con certezza il mandante dell’omicidio Khashoggi, questo lo dice lei” e quello è frastornato, di fronte a una risposta tanto arrogante, arretra. Alza le mani. È irresistibilmente antipatico, Matteo Renzi, perché ogni sua dote l’ha trasformata in difetto. Soprattutto quell’ironia iniziale che, nel tempo, dopo le sconfitte, è diventata un sarcasmo acido da perdente livoroso.
Perché tratta tutti – colleghi e non – con una familiarità che non ha nulla a che fare con l’empatia, ma molto con un’idea grandiosa di sé: nessuno è più in alto di me nella gerarchia di chi conta, nessuno merita la mia giusta distanza. E così, quando parla di potenti, abusa di “name dropping” (“Biden? Beh, JOE è un amico saggio!”. “Il principe? E’ un mio amico!”) oppure chiama (ai tempi) il ministro Bellanova “Teresa”, come a dire che il suo ruolo è quello di sua amica, prima che di ministro. È irresistibilmente antipatico, Matteo Renzi, perché ammanta di idealismo l’ambizione, di preoccupazione per il futuro del paese la vocazione a distruggere quel che non può governare. Perché mentre gli italiani non possono andare a trovare un parente fuori comune e la sua famiglia è in quarantena, lui se ne va a vedere il Gran Premio nel Bahrein. Tra parentesi, altro paese in cui si mettono a tacere attivisti, difensori dei diritti umani, donne che osano protestare e oppositori. Ma già, “questo lo dico io”, direbbe l’irresistibilmente antipatico.
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