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Home » Politica

Laura Boldrini a TPI: “La Cpi è sotto assedio da Usa e Israele. Ma nessuno ne parla. E il Governo Meloni copre l’alleato Netanyahu”

Immagine di copertina
L'ex presidente della Camera e deputata del Pd, Laura Boldrini. Credit: Valeria Ferraro / AGF

«La parola d’ordine è salvare la Corte penale internazionale e i procedimenti in corso, tutelando le oltre mille persone che vi lavorano, a difesa delle vittime». L’ex presidente della Camera e deputata del Pd, Laura Boldrini, lancia un appello a TPI dopo aver visitato la Corte dell’Aja insieme a una delegazione composta da 20 tra parlamentari ed eurodeputati italiani di diversi partiti di opposizione, insieme ai rappresentanti delle associazioni AOI, ARCI, Educaid, Acs e AssopacePalestina.
I partecipanti alla missione hanno incontrato i vertici della Cpi dopo gli attacchi subiti a seguito dei mandati di arresto emessi, tra l’altro, contro il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il suo ex ministro della Difesa, Yoav Gallant. «La Corte rischia di chiudere i battenti ma nessuno ne parla», sottolinea Boldrini. «E il Governo Meloni copre l’alleato Netanyahu».

Presidente, cosa è emerso da questa visita?
«La situazione che abbiamo trovato è più grave di quanto immaginassimo. La Corte penale internazionale è sotto assedio a causa di due proposte di legge che rischiano di passare alla Knesset (il parlamento israeliano, ndr) ma soprattutto al Congresso degli Stati Uniti».
Che cosa prevedono?
«Chiunque collabori con la Cpi potrà essere oggetto di sanzioni. La Corte entrerebbe in una sorta di lista nera, sarebbe come un’organizzazione tossica. Ogni partnership, a cominciare dall’azienda che fornisce i programmi informatici utilizzati dal Tribunale fino alle banche attraverso cui vengono pagati gli stipendi di circa un migliaio di dipendenti e finanziati i programmi di protezione delle vittime, finirebbe nel mirino delle sanzioni. Uno scenario drammatico che potrebbe materializzarsi ai primi di gennaio, quando la proposta di legge potrebbe passare al Senato Usa, essendo già stata approvata alla Camera dei rappresentanti».
Già nel 2020 Trump impose sanzioni (poi ritirate da Biden nel 2021) all’allora procuratrice capo della Cpi, Fatou Bensouda, al suo staff e al direttore della Divisione giurisdizionale, Phakiso Mochochoko. Che differenza c’è con i nuovi provvedimenti al vaglio di Washington e Tel Aviv?
«Questa volta non sono più i singoli ma la Corte come istituzione a essere presa di mira. È questo il punto: siamo passati dalle sanzioni a Bensouda e ad altri, che erano di natura individuale, quindi prevedevano il divieto di ingresso negli Stati Uniti, il congelamento dei loro conti correnti e quant’altro, a colpire l’istituzione nella sua interezza. E il corto circuito sta nel fatto che a minacciare la Corte non sono le autocrazie ma quella che è nota come la più antica democrazia al mondo, cioè gli Stati Uniti. Se passa questa legge, la Corte chiude i battenti».

Il testo dello “Illegitimate Court Counteraction Act” presentato al Congresso Usa nel maggio scorso mira a contrastare chiunque persegua “cittadini americani o funzionari dei Paesi alleati degli Stati Uniti, inclusi i membri della Nato, oltre a Israele, Giappone e Taiwan”. Al di là dell’effetto sulla Corte, quali conseguenze potrebbe avere questo provvedimento sui Paesi citati? Rischia di diventare un “assegno in bianco” per violare il diritto internazionale?
«Avrebbe un effetto devastante perché prima di tutto cancellerebbe anni e anni di cultura giuridica evolutasi per fare giustizia contro le atrocità commesse nelle guerre dell’ultimo quarto di secolo. Abbiamo visto tutti i limiti dei tribunali internazionali istituiti ad hoc, come quello di Arusha per il Ruanda e quello per la ex Jugoslavia. La Corte invece è stata istituita nel 1998 proprio sulla scia di questi limiti ed è nata come un’istituzione volta a garantire la legalità internazionale e a tutelare tutte quelle vittime, che non avrebbero altro appiglio».
Perché?
«La Corte segue il principio di complementarietà, cioè non ha giurisdizione primaria, che appartiene agli Stati. Se questi, però, non agiscono rispetto ai casi su cui invece la Cpi sta aprendo un’istruttoria, o perché non vogliono o perché non possono, allora subentra L’Aja. Anche su questo in Italia si è fatta molta confusione».
Si riferisce alle dichiarazioni ai media israeliani del portavoce della Cpi, Fadi el-Abdallah, che fecero gridare alcuni giornali di destra a un mezzo ripensamento dell’Aja sul mandato di arresto per Netanyahu?
«Non ci fu alcun ripensamento: il portavoce spiegò solo le regole della Corte».
Ce le ripeta.
«Se la giurisdizione israeliana si fosse impegnata a istruire procedimenti seri e circostanziati su Netanyahu e Gallant per quegli stessi crimini su cui la Corte stava indagando, L’Aja non sarebbe subentrata o comunque avrebbe fatto un passo indietro. Ma poiché questa intenzione non c’è stata la Cpi deve andare avanti, anche se Israele non è membro, ma la Palestina,dove i crimini sono stati commessi, sì. Ora però la Corte vive una forte minaccia».

Cosa si può fare?
«La parola d’ordine è salvare la Corte penale internazionale, il che vuol dire salvaguardare la sua funzione, che è di giurisdizione nei confronti dei crimini di guerra, dei crimini contro l’umanità e di atti di genocidio. Vuol dire fare in modo che chi commette questi crimini non resti impunito. Significa portare davanti alla giustizia gli individui che si sono macchiati di atrocità. L’altro obiettivo poi è salvare i procedimenti in corso, perché se la Corte chiude i battenti, saltano tutti. E sono tanti. Questo significherebbe che le vittime non avrebbero più speranza di giustizia, mentre è questo che vogliono le vittime sopra ogni cosa. E poi bisogna anche proteggere chi lavora alla Corte: giudici, procuratori, avvocati e avvocate, dipendenti e tante altre persone impiegate in diversi ambiti e che con determinazione portano avanti i casi già aperti. Specialmente i vertici che sono stati negli anni oggetto di intercettazioni e interferenze dall’esterno».
Lei si riferisce all’inchiesta pubblicata a maggio scorso dal britannico Guardian e dall’israeliano +972 Magazine/Local Call, che denunciava quasi un decennio di interferenze israeliane, sia in Cisgiordania contro funzionari della Corte e testimoni, sia con tentativi di influenzare i magistrati.
«Certo, da anni Israele ostacola in ogni modo la Cpi ma non è finita lì».
Si spieghi.
«Le indagini della Corte non sono iniziate il 7 ottobre 2023, ma vanno avanti da molti anni. La fase preliminare del caso sulla Palestina aperto presso la Cpi risale al 2014. Allo staff della Corte, però, è stato impedito di accedere alla Palestina. Al procuratore capo Karim Khan, ad esempio, è stato negato il permesso di entrare a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, al cui confine con l’Egitto, nel marzo scorso ci recammo anche noi con una delegazione di 50 persone tra parlamentari, operatrici e operatori delle ong, giornalisti e giuristi. Per la Corte è stato molto difficile raccogliere prove senza avere la possibilità di accedere al territorio».

Come hanno fatto?
«I vertici dell’Aja ci hanno spiegato come hanno utilizzato diversi sistemi di rilevazione, anche satellitari, oltre a raccogliere le testimonianze acquisite dalle ong palestinesi in Cisgiordania, in particolare al-Haq e Addameer, accusate di terrorismo nel 2021 da Benny Gantz, allora ministro della Difesa israeliano, insieme ad altre quattro organizzazioni umanitarie. Due associazioni che, da presidente del Comitato permanente sui diritti umani nel mondo della Commissione esteri della Camera, decisi di invitare in audizione in Parlamento e per cui fui pesantemente attaccata dall’ambasciatore israeliano».
Come andò?
«Queste ong raccoglievano prove dei crimini commessi dall’esercito israeliano e anche sull’operato del ministro Gantz. Così, per depotenziarne l’efficacia e la credibilità, il governo di Israele le accusò di terrorismo, senza fornire prove. Ma tutti i Paesi le richiedevano, incluso il governo italiano, in quanto beneficiarie dei fondi della cooperazione. Prove che però non sono mai arrivate. Così, quando le associazioni chiesero di essere ascoltate, l’ufficio di presidenza della Commissione Esteri decise di invitarle in audizione in Parlamento. Allora l’ambasciata israeliana si rese protagonista di un atto del tutto irrituale, attaccando la scelta di un Parlamento sovrano e me personalmente per aver portato “dei terroristi” alla Camera».
È un metodo consolidato.
«Il governo israeliano lancia la bomba: accusa le organizzazioni di terrorismo ma non fornisce prove. Intanto queste subiscono un grave danno reputazionale e si vedono drasticamente decurtate le donazioni che a volte riprendono dopo anni dato che queste presunte prove continuano a non arrivare. Intanto, però, tutto questo provoca molti problemi a chi lavorava in queste ong».
Un po’ com’è successo con l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa) dopo gli attentati del 7 ottobre 2023?
«In quel caso è ancora peggio: la Knesset ha approvato ben due leggi per bandire l’Unrwa, che dal 28 gennaio prossimo deve chiudere i battenti e andarsene da Israele e da Gerusalemme, visto il divieto di operare e considerato che ai suoi dipendenti non saranno più assicurate le tutele e le garanzie previste per i funzionari dell’Onu che rischierebbero da quel momento di essere giudicati in base alla legge anti-terrorismo israeliana. L’agenzia è stata anche attaccata con una violentissima campagna di delegittimazione, che la qualifica come un’organizzazione che promuove il terrorismo. Qualcosa di mai visto: il governo di uno Stato, per altro nato grazie a una risoluzione dell’Onu, che promuove una campagna di odio contro un’agenzia della stessa Onu. Ma è la politica di questo governo israeliano di ultradestra: spazzare via tutti gli osservatori che possono denunciare quanto sta avvenendo sia a Gaza che in Cisgiordania. Il nemico pubblico numero uno quindi è l’Unrwa, il cui mandato prevede l’assistenza ai palestinesi scacciati durante la Nakba del 1948 e a cui deve essere garantito il “diritto al ritorno” che l’estrema destra in Israele vuole cancellare. E poi c’è la Corte penale internazionale, che ha emesso mandati di arresto contro il premier Netanyahu e l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant, ma anche contro Mohammed Deif, uno dei leader di Hamas che non si sa se sia ancora vivo».

Mandati che, come ha chiarito il portavoce del Tribunale dell’Aja Fadi el-Abdallah, tutti i Paesi aderenti sono tenuti a eseguire, anche se emessi contro capi di Stato o di governo stranieri come Vladimir Putin e Benjamin Netanyahu. È chiaro anche al governo italiano?
«Sia la vicepresidenza che l’ufficio del Procuratore capo ci hanno chiarito che non esiste il tema dell’immunità. Ma come in tutta la vicenda palestinese il governo Meloni ha assunto un atteggiamento di copertura dell’alleato Netanyahu».
Cioè?
«Salvini è stato imbarazzante quando ha detto che Netanyahu è il benvenuto in Italia. Altrettanto Tajani quando ha chiesto di voler “vedere le carte”. Allo stesso tempo Meloni che in Parlamento ha criticato la Corte, sostenendo che questa abbia preso “una decisione politica emettendo un mandato d’arresto a conflitto in corso”. Un’interpretazione assolutamente errata e tutto per coprire l’alleato Netanyahu. Intanto non c’è alcuna carta da vedere perché l’emissione del mandato è una decisione prettamente giuridica. Ma poi, cosa ancora più grave, in questo ultimo anno e passa non ho sentito dal governo una sola parola di condanna verso l’uccisione di civili, le stragi dei bambini, la popolazione costretta a morire di fame perché ai convogli di aiuti non è consentito entrare nella Striscia, cosa che io e altri abbiamo visto con i nostri occhi a Rafah. L’unica volta che il governo italiano si è permesso di criticare quanto stava facendo il governo israeliano è stato in occasione dell’attacco al contingente Unifil, in Libano. Allora hanno condannato l’attacco, reagendo sempre timidamente e in modo balbettante. Per il resto, trovo oltraggioso che di fronte alla carneficina in corso a Gaza, non abbiano sentito il dovere di esprimere neanche una parola di cordoglio per le vittime. Imbarazzante per loro e, purtroppo, anche per il Paese».
In Europa però il governo italiano è in buona compagnia. Tra l’altro, il ministro degli Esteri israeliano Gideon Sa’ar ha annunciato un nuovo incontro a Bruxelles del Consiglio di associazione con l’Ue, che non si riunisce dal 2012, da fissare nei prossimi due mesi. Anche l’Unione sta cambiando politica verso Israele dopo le forti critiche mosse nell’ultimo anno dall’ex Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell?
«In più occasioni Borrell ha cercato di fare l’unica cosa giusta e sensata, cioè sospendere l’accordo di associazione tra Israele e l’Ue. Per il semplice fatto che quell’accordo si basa sul rispetto dei diritti umani. Ora, dopo che la Corte Internazionale di Giustizia (dell’Onu, ndr) ha parlato di “rischi plausibili di genocidio” e ha intimato a Israele di prendere alcuni provvedimenti per evitarlo e che non sono mai stati adottati; dopo che il Comitato delle Nazioni Unite sui diritti umani del popolo palestinese ha parlato di “metodi di guerra coerenti con le caratteristiche del genocidio”; dopo che Amnesty International, nel rapporto presentato la settimana scorsa al Comitato dei Diritti Umani della Camera che presiedo, ha pubblicato una relazione di 300 pagine dense di testimonianze e pareri di esperti in cui si parla di genocidio; dopo le denunce di Human Rights Watch e di Medici senza frontiere; possiamo quantomeno dubitare che Israele stia rispettando i diritti umani. Alla luce di tutto questo, sospendere l’accordo di associazione sarebbe stato necessario, tant’è che dicendosi “molto addolorato”, Borrell dichiarò: “La storia ci giudicherà”. Non esserci riusciti dimostra tutta la debolezza dell’Unione europea e il tradimento dei valori su cui il progetto comunitario si fonda e a cui si ispiravano i padri fondatori e le madri fondatrici. È molto grave che, l’Ue, il più grande progetto di pace della storia, che l’ha garantita per 70 anni, accetti di non vedere e arrivi ad ignorare quanto sta accadendo a Gaza. Non solo la storia, ma il mondo non ce lo perdonerà. L’evidente doppio standard utilizzato rispetto ad altri conflitti – penso ad esempio all’Ucraina – seppellirà l’Unione europea e il cosiddetto “Occidente”. Perché tutto quello che si definisce “Global South”, ma anche la società civile europea e statunitense, che assistono a questa vergogna, sono in ebollizione, con milioni di persone nelle piazze che contestano questo approccio e si schierano al fianco del popolo palestinese».

A proposito di doppio standard, la Corte non persegue solo Netanyahu ma anche il presidente russo Vladimir Putin, con cui Trump potrebbe arrivare a un accordo sull’Ucraina. I mandati d’arresto della Corte penale internazionale possono diventare oggetto di trattativa?
«Ho sempre pensato che fosse impossibile immaginare una vittoria dell’Ucraina sul campo di battaglia. Vuol dire non avere cognizione della guerra, tant’è che non ho mai votato per l’invio delle armi a Kiev, perché mi era ben chiaro fin dall’inizio che bisognava trovare una soluzione negoziale per fare in modo che l’Ucraina fosse garantita dal punto di vista della sovranità territoriale e che al contempo la Russia non si sentisse legittimata a inasprire il conflitto. Anche qui l’Unione europea non ha fatto quello che avrebbe dovuto ma, in modo colpevole e senza minimamente concepire un’alternativa, ha solo sposato l’idea di mandare armi. Quindi, dopo centinaia di migliaia di morti, decine di città distrutte, migliaia di bambini rapiti, solo ora che gli Stati Uniti stanno adottando, strumentalmente, una postura diversa, si arriverà alla stessa conclusione a cui si doveva arrivare quasi tre anni fa. La Conferenza di Pace bisognava farla subito, coinvolgendo tutti i principali attori mondiali: la Cina, l’India, la Turchia, gli Usa, i Paesi dell’America Latina e l’Unione europea, quando ancora c’era margine di trattativa. Ma non è stato fatto, anzi. Chi si permetteva di prospettare questa possibilità veniva tacciato di “putinismo”».
Le famose liste dei “putiniani”.
«Io stessa mi sono ritrovata in circostanze surreali. Io che ho sempre considerato Putin un feroce autocrate per quello che ha fatto e fa al proprio popolo con le sue leggi liberticide verso la comunità Lgbtqi+, le donne e le minoranze. Io che l’ho sempre considerato un personaggio pericoloso sono stata a volte inserita nella lista dei “putiniani”, mentre la destra di casa nostra che prima ci andava a braccetto e lo riteneva un grande amico, un grande alleato e un grande difensore dei valori cristiani, ha cambiato posizione in quattro e quattr’otto, come se nulla fosse, come se non fossero mai stati alla corte di Putin, con modalità totalmente ciniche e spregiudicate. Basti ricordare la reazione al mandato d’arresto emesso dalla Cpi nei confronti di Putin. Allora, al contrario di oggi, non si sentì una parola di obiezione, di critica, di dubbio. Persino gli Stati Uniti, che non aderiscono allo Statuto di Roma (fondativo della Cpi), offrirono ampia disponibilità a collaborare con la Corte. Ma come ci hanno detto all’Aja, non esiste il diritto à la carte e nemmeno una giurisdizione a fasi alterne. Detto questo, spero che si arrivi a una pace giusta, in cui sicuramente entrambe le parti dovranno rinunciare a qualcosa ma è l’unico modo per far finire la guerra».
Ma in tutto questo il mandato d’arresto per Putin che fine fa?
«Dipende da che fine farà la Corte, tutto è legato al suo destino. Se la Cpi non avrà più agibilità, se sarà lasciata sola e delegittimata, va da sé che anche tutti i procedimenti decadranno. Per questo dobbiamo porci tre obiettivi: salvare la Corte come istituzione, salvaguardare i procedimenti in corso e tutelare le persone che ci lavorano».

Quindi il destino della Corte penale internazionale è in mano a tre Paesi che non vi aderiscono: Usa, Israele e Russia?
«Ma questo avviene a causa della debolezza di chi vi aderisce che sembra non avere nessuna autonomia, capacità o visione politica. Nemmeno di capire che l’attacco è contro gli stessi membri della Cpi, perché chi attacca la Corte attacca l’Europa e gli Stati che l’hanno voluta. I governanti italiani dovrebbero essere in prima fila a difendere la Cpi a cui Roma diede, di fatto, i natali. Una Corte voluta fortissimamente dall’allora commissaria Emma Bonino, un progetto a cui lavorarono tanti giuristi italiani. Ma, invece, c’è indifferenza. Non solo dal lato politico».
Si riferisce ai media?
«Devo purtroppo ammettere che ci siamo trovati davanti a un muro di gomma rispetto a questi temi, su cui siamo stati completamente ignorati dai media, nonostante una delegazione di venti tra deputati, deputate ed europarlamentari e altri rappresentanti della società civile, che hanno lanciato appelli importanti in difesa della Corte. La delegazione del Partito Democratico che è andata all’Aja ha persino organizzato una conferenza stampa, ma non è uscita una riga sui giornali italiani. È un altro enorme tema: questo argomento viene oscurato. La minaccia che incombe sulla Corte dell’Aja è di una tale gravità che dovrebbe essere oggetto di attenzione quotidiana da parte dei mezzi di informazione che invece, a parte qualche rara eccezione, continuano a tacere sulla questione».

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