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Home » Politica

Laura Boldrini a TPI: “Gaza è una gabbia di morte. Meloni vada a vedere cosa succede a Rafah”

Immagine di copertina
Credit: AGF

La deputata del Pd ha visitato il valico con l’Egitto con una delegazione di parlamentari dell’opposizione, giornalisti, ong e accademici: “Ho lavorato per 25 anni nelle agenzie dell’Onu ma quello che sta accadendo nella Striscia non ha precedenti”

L’ex presidente della Camera Laura Boldrini è appena tornata dal valico di Rafah, dove si è recata con la “Carovana della Solidarietà”, una delegazione tutta italiana composta da una cinquantina tra parlamentari dell’opposizione, attivisti e cooperanti di ong nostrane, giornalisti, accademici ed esperti di diritto internazionale, la più folta che finora abbia raggiunto il confine tra l’Egitto e la Striscia di Gaza. Un luogo dove Boldrini consiglia di andare anche a Giorgia Meloni e ai parlamentari della maggioranza per rendersi conto davvero del perché sia necessario un cessate il fuoco immediato e permanente.

Presidente, nella sua carriera ne ha viste tante, qual è la situazione sul campo?
«Gaza è una gabbia di morte. In tanti anni di lavoro nelle agenzie delle Nazioni Unite, nelle crisi umanitarie e conflitti, non l’ho mai visto, nessuno di noi l’ha mai visto. Dopo 25 anni di esperienza in questo ambito, non mi meraviglio facilmente delle situazioni difficili però quello che sta accadendo a Gaza non ha precedenti: bombardamenti indiscriminati su obiettivi civili, come abitazioni, ospedali e scuole, attacchi contro il personale medico e delle Nazioni Unite e una popolazione bloccata e senza possibilità di mettersi in salvo».

Cosa avete visto al valico di Rafah?
«Qualcosa di paradossale e scandaloso: dal lato egiziano del confine ci sono almeno 1.500 camion carichi di aiuti, bloccati da settimane. Abbiamo parlato con alcuni autisti che sono fermi lì nel deserto da un mese, qualcuno da 40 giorni, dormono sui mezzi e non hanno né la possibilità di lavarsi né di mangiare un pasto caldo».

Perché?
«Perché le autorità israeliane rifiutano di far passare gli aiuti: conducono controlli estenuanti che possono durare anche 30 giorni e decidono in modo del tutto arbitrario se e cosa far entrare a Gaza».

Non esiste un elenco di prodotti vietati?
«No, secondo quanto ci ha riferito la Mezzaluna Rossa egiziana. Un giorno decidono di non far passare un’incubatrice per neonati prematuri, un altro le tende perché la stoffa con cui sono prodotte non va bene e fermano persino i dissalatori per l’acqua. È tutto arbitrario».

Se un prodotto viene rifiutato che succede?
«L’intero camion e tutto il suo carico vengono fermati e non possono entrare».

Ma si tratta di aiuti umanitari.
«Certo, sono articoli di prima necessità. Abbiamo visto un grande deposito della Mezzaluna Rossa egiziana pieno di stampelle, sedie per persone disabili, bombole per l’ossigeno, generatori, incubatrici, materiale medico sanitario, tutto bloccato».

Com’è possibile?
«È una strategia: da un lato bombardare e dall’altro affamare la popolazione palestinese di Gaza. Ma il fatto più scandaloso è che nessuno riesce a fermare Netanyahu».

Israele ha effettuato e poi consentito ad altri Paesi una serie di lanci aviotrasportati per consegnare aiuti umanitari alla popolazione e ha anche aperto alla creazione di un corridoio umanitario via mare. Può essere una soluzione?
«Sono solo palliativi. Va benissimo farli ma ci sono anche dei rischi, come ci hanno spiegato i cooperanti che abbiamo incontrato in Egitto e al valico di Rafah».

Quali?
«Intanto, vista la quantità di bisogni e i numeri della popolazione colpita, il lancio aereo di cibo e aiuti non ha un impatto sufficiente per alleviare le sofferenze dei palestinesi a Gaza. Questi lanci poi possono essere pericolosi».

Perché?
«Come abbiamo visto dalle foto pubblicate su tutti i media internazionali, le persone accorrono disperate sulle spiagge per riuscire a prendere questi aiuti. Qualcuno non sa nuotare e rischia di annegare. Ma c’è anche un altro problema».

Quale?
«Questi voli sono costosissimi e con le cifre spese per effettuarli si potrebbero mandare via terra centinaia di camion, se solo il governo israeliano aprisse i valichi. Non solo quello di Rafah al confine con l’Egitto ma anche quello di Kerem Shalom, tra Gaza e Israele. Ma nessuno si vuole prendere la briga di costringere Netanyahu ad adempiere ai propri obblighi».

A gennaio c’è stato un iniziale pronunciamento della Corte Internazionale di Giustizia de L’Aja.
«La Corte ha stabilito che c’è un plausibile rischio di atti genocidari e ha chiesto a Israele di fare in modo che questi non avvengano. Ma sa cos’è successo dopo la pronuncia della Corte?».

Ce lo spieghi.
«Ce l’hanno spiegato alcuni osservatori incontrati in Egitto: dal giorno dopo la pronuncia della Corte, il numero di camion autorizzati ad attraversare il valico di Rafah è diminuito, in aperta sfida a quanto stabilito a L’Aja. Questo perché il premier Netanyahu non ha alcun rispetto per la legalità internazionale rappresentata dalla Corte e finché sarà al potere non ci sarà mai pace per Israele né per i palestinesi. D’altronde si è sempre detto contrario all’esistenza di uno Stato di Palestina».

Cosa si proponeva la vostra “Carovana”, oltre a testimoniare quanto sta accadendo?
«Abbiamo scritto una lettera per far sapere alla Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, cosa abbiamo visto e cosa ci hanno detto gli esperti e chi è sul campo. Tutti sono d’accordo su cosa serve: un cessate il fuoco immediato e permanente, il rilascio di tutti gli ostaggi e il passaggio di tutti gli aiuti necessari alla popolazione di Gaza».

Cosa sta facendo in questo senso il Governo italiano, anche in virtù del voto bipartisan del Parlamento per una tregua a Gaza?
«Non abbastanza. Non abbiamo notizie della partecipazione di Meloni o del governo a qualche negoziato, né ci risulta che la Presidente del Consiglio abbia chiesto al suo buon amico Netanyahu di fermarsi davanti a questa catastrofe. Perciò le chiediamo di darsi da fare perché a Gaza il tempo ormai è scaduto».

La vostra delegazione contava solo (14) deputati di Pd, M5S e Verdi-Sinistra. Perché non c’era nessuno della maggioranza?
«Credo che i colleghi e le colleghe della maggioranza abbiano davvero perso un’occasione perché avrebbero potuto rendersi conto anche loro direttamente della gravità incommensurabile della situazione e magari avrebbero potuto far tesoro di questa esperienza per formulare atti parlamentari a favore della pace, chissà anche insieme a noi dell’opposizione. Invece hanno deciso di fuggire dalla realtà, che noi invece abbiamo documentato per come ce l’hanno raccontata tutti coloro che si trovano lì».

Cosa vuole dire alla Presidente del Consiglio?
«A Meloni ma anche ai colleghi e alle colleghe della maggioranza dico di andare a vedere cosa sta succedendo a Rafah e di fare di più. Perché non fare una forte pressione su Netanyahu significa rendersi corresponsabili della strage di un popolo».

Per ora, l’unica azione concreta dell’Italia e dell’Europa è limitata allo schieramento di una missione militare navale dell’Ue per contenere gli attacchi dei ribelli yemeniti Houthi alle navi in transito nel Mar Rosso che, esclusi i deputati di Alleanza Verdi Sinistra, il Parlamento ha approvato con voto bipartisan.
«La situazione del Mar Rosso è strettamente legata a quella di Gaza e se non sblocchiamo quest’ultima non arriveremo a una soluzione».

Quale?
«Prima serve un cessate il fuoco permanente, poi un accordo per mettere da parte le armi e dare la precedenza alla politica con una conferenza internazionale. Quindi il riconoscimento dello Stato di Palestina. Altrimenti continueremo ad assistere ad altri attentati deplorevoli come quello del 7 ottobre e al terrorismo seguirà altra violenza in uno stato di guerra permanente. E in questo schema i primi ad essere coinvolti devono essere i palestinesi mentre oggi si pensa ad altro».

Cioè?
«Girano piani sul giorno dopo la fine della guerra, in cui si prospetta l’amministrazione dei territori, senza coinvolgere l’Autorità Nazionale Palestinese. Anche alla Lega araba ci hanno detto che una soluzione del genere sarebbe non solo insostenibile e impraticabile ma anche del tutto inaccettabile. Prospettare il futuro di Gaza e del resto della Palestina senza dare voce ai palestinesi è fantapolitica».

Può esserci un futuro per Gaza senza l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel vicino oriente (Unrwa), come propone Israele?
«In questi giorni abbiamo incontrato tanti interlocutori e tutti ci hanno detto che l’Unrwa è la spina dorsale di tutto il sistema di assistenza per i palestinesi, non solo a Gaza. L’Agenzia opera anche in Cisgiordania, Libano, Siria, Giordania, ovunque ci siano rifugiati palestinesi e discendenti da coloro che furono cacciati dalle proprie terre da Israele a seguito della Nakba del 1948. È stata la comunità internazionale a creare l’Unrwa e oggi depotenziarla vuol dire far collassare il principale sistema di aiuti alla popolazione, su cui si appoggiano tutti i soggetti che fanno assistenza a Gaza: le ong e le altre agenzie Onu. Qualsiasi servizio passa dall’Urnwa che con i suoi 13mila dipendenti, solo nella Striscia, gestisce ospedali, ambulatori, scuole, distribuzioni alimentari e di beni di prima necessità e anche i rapporti con le autorità di Israele».

Proprio Israele vuole chiuderla perché accusa 12 dipendenti dell’Unrwa di essere coinvolti negli attentati del 7 ottobre.
«Si tratterebbe di una punizione collettiva, prima contro l’Agenzia dell’Onu e poi contro la popolazione palestinese e per cosa? L’Unrwa ha già avviato un’indagine e licenziato le persone sospettate da Israele che, ad oggi non ha ancora fornito prove. Chiudere l’intera Agenzia per questo sarebbe assurdo: la responsabilità penale è personale, un principio alla base di tutti i sistemi giuridici democratici. È come se dopo aver scoperto un insegnante che molesta una bambina, si volesse chiudere l’intera scuola».

Anche l’Italia però ha sospeso i pagamenti all’Unrwa.
«Spero che Meloni ci ripensi. L’Unrwa è insostituibile perché la comunità internazionale, Italia compresa, ha voluto che lo fosse».

Che effetto ha avuto la sospensione delle donazioni all’Agenzia Onu sulla popolazione di Gaza?
«Al Cairo abbiamo incontrato i responsabili dell’Unrwa in Egitto e, a Rafah, il responsabile delle attività a Gaza, Thomas White, che è uscito appositamente dalla Striscia per incontrarci. Ci hanno detto che la scarsità di risorse è un problema serio e che è essenziale che arrivino fondi entro la fine di marzo affinché l’agenzia possa continuare a operare».

È praticamente dopodomani. Si sta già muovendo qualcosa?
«Paesi come la Spagna hanno aumentato i contributi, l’Unione europea ha sbloccato i fondi ma altri donatori, come l’Italia, ancora no. Il nostro ministro degli Esteri, Antonio Tajani, oggi ha incontrato i rappresentanti della Fao e del World Food Programme ma sa bene che queste agenzie operano a Gaza con l’imprescindibile sostegno dell’Unrwa e delle ong, incluse quelle italiane, che da anni fanno uno straordinario lavoro. È incomprensibile non coinvolgere chi è in grado materialmente di fare arrivare gli aiuti a chi ne ha bisogno. Oggi l’Unrwa andrebbe soltanto rafforzata».

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