Non solo Savona: le vere ragioni per cui non è partito il governo M5s-Lega
È stata la "leghizzazione" dell'accordo gialloverde ad alzare il livello dello scontro con Mattarella, un processo iniziato con la stesura del contratto di governo. E a Salvini, inoltre, tornare a votare non dispiaceva affatto
Sono in tanti a chiederselo in queste ore: possibile che dopo settimane di trattative, la stesura di un contratto di 58 pagine, la possibilità di dar vita al “governo del cambiamento” ormai a un passo, Di Maio e Salvini abbiano fatto saltare tutto per l’indisponibilità a trattate col Colle su un ministro (per quanto fondamentale come quello dell’Economia)?
La domanda vale anche al contrario: possibile che Mattarella, dopo aver fatto di tutto, come lui stesso ha detto, per agevolare la nascita di un governo M5s-Lega, si sia impuntato così cocciutamente sul nome di Savona tanto da considerarlo ragione sufficiente per bloccare tutto?
In fondo le posizioni del professor Savona sull’euro possono essere considerate quantomeno sfaccettate, senza contare il fatto che lo stesso Savona ha ricoperto ruoli istituzionali di primo ordine in passato, tra cui proprio quello di ministro nel governo Ciampi.
In realtà, come dice l’Andreotti interpretato da Toni Servillo a Eugenio Scalfari in una scena del film di Sorrentino Il divo, “la situazione era un po’ più complessa”.
Cominciamo dal Quirinale. La cosa più saggia sui veri motivi per cui Mattarella ha deciso di non far partire il governo Conte l’ha detta il ministro dell’Economia uscente Pier Carlo Padoan in un’intervista rilasciata al programma Mezz’ora in più, su Rai Tre.
“Il dibattito vero di queste ore non ha a che fare con il curriculum di Savona, che è fuori discussione, ma con una domanda di politica economica: qual è il risultato del combinato disposto di un programma economico nel contratto di governo che è insostenibile e di esponenti della maggioranza che non escludono il piano B, ovvero l’uscita dall’Europa”, ha detto Padoan.
In altre parole, la scelta di Savona, e l’indisponibilità a trattare sul suo nome, è arrivata al termine di un lungo processo in cui la Lega ha progressivamente spostato in senso anti-europeista l’asse dell’accordo con il Movimento Cinque Stelle.
Proviamo a vedere le fasi principali di questo riposizionamento euroscettico dell’alleanza gialloverde.
Una prima bozza del contratto di governo, circolata la sera del 15 maggio, conteneva una proposta esplosiva dal punto di vista dei rapporti con l’Europa: l’idea era quella di chiedere alla BCE la cancellazione di 250 miliardi di debito dell’Italia, ovvero i 250 miliardi di titoli di stato che l’istituto di Francoforte avrà nel suo bilancio al termine del Quantitative Easing.
Una mossa che, per essere attuata, avrebbe reso necessario convincere in un colpo solo tutte le istituzioni europee, la stessa BCE, nonché le banche centrali dei vari paesi europei che della BCE sono azioniste.
In una seconda bozza circolata qualche giorno dopo, questa proposta veniva decisamente attenuata, per non dire superata, e si parlava in maniera più generica di una “sterilizzazione” del debito con la BCE.
Nella bozza definitiva, infine, comparivano i cosiddetti “minibot”, una misura sponsorizzata da Claudio Borghi, responsabile economico della Lega e notoriamente esponente molto critico nei confronti dell’Unione europea e dell’euro, di cui ha auspicato a più riprese il superamento.
I minibot, stando a quanto contenuto nel contratto di governo, sarebbero serviti a ripagare i debiti insoluti della pubblica amministrazione verso imprese e cittadini.
I minibot sono dei titoli di stato emessi al portatore che diventano, appunto, strumenti di pagamento tra i cittadini e la pubblica amministrazione. Se entrassero in vigore, funzionerebbero come una sorta di moneta parallela, attraverso cui la pubblica amministrazione ripagherebbe i propri debiti con i cittadini.
In un articolo uscito dopo la pubblicazione della bozza definitiva del contratto di governo, il Financial Times equiparava i minibot alla moneta elettronica alternativa che, in Grecia, era stata proposta da Yanis Varoufakis, in quel caso con l’idea di traghettare il paese verso l’uscita dall’euro.
Secondo il principale giornale economico del Regno Unito, tale misura avrebbe “spaccato l’euro” e condotto inevitabilmente l’Italia, nel corso del tempo, “fuori dalla moneta unica”.
A tutto questo va aggiunto che l’insieme delle proposte contenute nel contratto di governo M5s-Lega risultava privo delle sufficienti coperture economiche. Era quindi lecito, anche da parte di Mattarella, temere un’impennata del debito pubblico con tutte le conseguenze del caso per le tasche degli italiani.
Non a caso, nel suo discorso, Mattarella ha citato a più riprese la tutela dei risparmiatori.
In questo scenario, l’indisponibilità a trattare su Savona è apparsa al Colle un ulteriore segnale di come l’alleanza tra Cinque Stelle e Lega stesse pericolosamente virando verso posizioni fortemente ostili nei confronti dell’Europa e della moneta unica. Posizioni che, a parere di Mattarella, avrebbero inevitabilmente portato l’Italia sull’orlo del baratro.
È quindi sbagliato, al di là delle valutazioni di merito, circoscrivere la posizione di Mattarella alla sola nomina di Savona: se così fosse, sarebbe incomprensibile il fatto di non far partire il governo soltanto per la presenza di un ministro che, seppur critico in passato con l’Ue, ha comunque in parte rivisto le sue posizioni dichiarando di puntare non a un’uscita dell’Italia dall’euro, ma a “rendere l’Europa più equa” attraverso il rafforzamento dell’unione politica e l’assegnazione alla BCE delle funzioni svolte dalle altre banche centrali.
A questo punto però si impone un’ulteriore domanda: cosa ha portato a questa virata anti-europea dell’alleanza M5s-Lega?
Come è noto, infatti, e come vi avevamo già spiegato in questo articolo, da tempo ormai il Movimento Cinque Stelle era pronto a una svolta europeista.
Proprio questo aspetto differenziava in maniera significativa le posizioni di partenza di M5s e Lega, e ha costretto i due partiti, come ha messo in luce uno studio dell’Istituto Cattaneo, alla faticosa ricerca di un compromesso.
A metà aprile, quando esplose nuovamente la crisi in Siria e Salvini si schierò dalla parte di Putin, Di Maio si affrettò a precisare che le posizioni del M5s sui rapporti con la Nato e l’Unione europea erano molto distanti da quelle delle Lega.
Più in generale, da almeno un anno Di Maio stava tentando di riposizionare il Movimento su posizioni più europeiste, ammiccando ripetutamente a Macron e rinunciando almeno in parte a narrazioni sovraniste.
Nel contratto con la Lega e nella scelta dei ministri, Di Maio è stato quindi tirato per la giacca da Salvini, riportato su posizioni che il M5s stava in qualche modo cercando di superare.
È Salvini che si è impuntato su Savona, fino a far diventare il nome del professore condizione irrinunciabile per la partenza del governo e convincendo Di Maio della necessità di non cedere al Colle.
Ciò ha mostrato, infine, la grande abilità tattica del leader della Lega, che forzando la mano col capo dello stato sapeva di trovarsi comunque in una situazione “win-win”: se il governo partiva, la Lega avrebbe avuto ministeri pesanti e avrebbe comunque fatto valere la sua visione dell’Europa; se non partiva, come poi accaduto, Salvini si sarebbe trovato col vento in poppa in vista di nuove elezioni.
I sondaggi, infatti, danno la Lega in grande crescita, e un nuovo voto potrebbe rafforzare notevolmente il peso politico del Carroccio.
Ecco perché, quindi, come per il Colle la questione non era circoscritta a Savona, per la Lega valeva la pensa impuntarsi comunque sul nome di Savona. Far partire il governo non era per Salvini una condizione necessaria.
Da qualunque parte la si guardi, insomma, è stata la “leghizzazione” dell’accordo gialloverde ad aver compromesso la possibilità che il governo Conte potesse partire.
Limitare la discussione al nome di Paolo Savona, in questo contesto, farebbe perdere di vista uno scenario ben più ampio, e di sicuro non permetterebbe di comprendere perché sia il Mattarella sia M5s e Lega abbiano forzato la mano fino ad arrivare ad un punto di rottura.