Esclusivo TPI – Documenti inediti rivelano la seconda vita di Gladio: nuove ombre sui casi Alpi e Falcone
L’organizzazione militare segreta creata dalla Cia e dai Servizi italiani è stata ufficialmente smantellata nel 1990. Ma oggi un dossier inedito visionato da TPI racconta tutta un’altra storia
Ha agito per più di trent’anni nell’ombra, con la massima classifica di segretezza. Ha selezionato centinaia di combattenti, civili e militari, organizzando decine di esercitazioni militari. Sulla carta aveva un solo nemico, il blocco sovietico, il pericolo rosso che veniva dall’Est. “Stay Behind”, ovvero “restare indietro”, infiltrandosi nelle retrovie del nemico in caso di invasione, era il nome in codice del progetto Nato attivo in tutti i paesi dell’Europa occidentale.
Gran Bretagna, Germania, Grecia, Olanda, Belgio, Francia. E Italia. Da noi – nel Paese strategico proiettato verso il Mediterraneo – era conosciuta come “Operazione Gladio”. Dipendeva dai Servizi segreti militari, prima dal Sifar, poi dal Sid e infine dal Sismi ed era nata nel 1956 grazie ad un accordo con la Cia, il servizio segreto statunitense.
Nel 1980 venne creata un’apposita divisione, la settima, con il compito di coordinare quella struttura riservata. Avevano una base di addestramento in Sardegna, a capo Marrargiu, e 139 depositi clandestini di armi ed esplosivi, i “Nasco”. L’obiettivo era di creare una rete di resistenza ai sovietici in caso di invasione, a supporto delle truppe alleate regolari. Questa la versione ufficiale.
La annunciò in parlamento nell’ottobre 1990 Giulio Andreotti, all’epoca presidente del Consiglio e tra i primissimi politici italiani ad essere stato introdotto alla “dottrina” della struttura riservata, fin dagli anni Sessanta. Era un segreto noto a pochissimi componenti dei governi italiani del dopoguerra: Giulio Andreotti, Francesco Cossiga, Luigi Gui, Arnaldo Forlani, Vito Lattanzio, Attilio Ruffini e Lelio Lagorio. Nessun altro.
L’opposizione è stata sempre tenuta all’oscuro, ritenendo il Partito Comunista Italiano una sorta di nemico interno, di longa manus dei sovietici.
Quando – un anno dopo la caduta del muro di Berlino – Andreotti ne annunciò l’esistenza, dando disposizioni per sciogliere la struttura, svincolando dal segreto i civili addestrati e inquadrati, il Governo e l’apparato militare fecero di tutto per mostrare un volto in fondo rassicurante di Stay Behind. Venne divulgata una lista di 622 “gladiatori”, un elenco composto in buona parte da anziani nati all’inizio del secolo evidentemente inoffensivi.
Tutte le voci ufficiali giurarono che l’intera operazione era destinata ad attivarsi esclusivamente in caso di invasione del territorio italiano da parte del nemico e che nei quasi quarant’anni di attività al massimo si era fatto un po’ di addestramento. Nulla di più. La realtà è, però, decisamente differente ed inizia ad emergere con chiarezza tre decenni dopo.
TPI ha potuto consultare buona parte delle 190mila pagine degli archivi ufficiali di Gladio, declassificate con una direttiva del presidente del Consiglio Mario Draghi il 2 agosto 2021. Non è una data qualsiasi, ma un simbolo. Era il quarantunesimo anniversario della strage di Bologna, nella quale, nel 1980, morirono ottantacinque persone. Fu l’episodio più sanguinoso della storia dell’Italia repubblicana, inserito nella lunga scia di sangue della strategia della tensione.
I Servizi segreti, militari e civili, ebbero un ruolo da depistatori e, di fatto, di complici degli eversori neofascisti che materialmente misero l’esplosivo nella sala d’aspetto della stazione di Bologna. I familiari, molti magistrati e giornalisti hanno sempre avuto un dubbio: Gladio ha avuto un ruolo nei misteri e nelle stragi italiane? Il percorso per arrivare alla verità è ancora lungo, ma qualche luce si inizia ad intravedere.
Agenti “a perdere”
“Stay Behind” in Italia ha incrociato un sistema di intelligence spesso profondamente compromesso. L’assoluta segretezza dell’operazione Gladio ha avuto il ruolo di ombrello di protezione per altri interessi dei Servizi segreti militari, come dimostrano alcuni fascicoli ora divenuti pubblici.
Per capire cosa fosse la «nota organizzazione» – espressione spesso usata nei documenti della settima divisione Sismi – occorre partire dal 1990, l’anno del disvelamento della struttura di guerra non ortodossa Nato.
È il 13 luglio 1990. Negli uffici di Forte Braschi a Roma un direttore di divisione, il cui nome è coperto da omissis, invia un appunto al direttore del Sismi. Oggetto: «Proposta per la costituzione di una nuova struttura nell’ambito della settima divisione». Ovvero il settore del servizio di sicurezza militare a capo di Gladio.
Qualche giorno prima l’allora giudice istruttore di Venezia Felice Casson era entrato per la prima volta negli archivi del Sismi, su autorizzazione del presidente del Consiglio dei ministri Giulio Andreotti. Dal 1987 stava conducendo un’indagine sulla strage di Peteano, l’atto terroristico che il 31 maggio 1972 aveva provocato la morte di tre carabinieri in provincia di Gorizia, eseguito dai militanti di Ordine Nuovo Vincenzo Vinciguerra, Carlo Cicuttini e Ivano Boccaccio.
Per il Sismi – e per il Governo – era dunque chiaro che la «nota organizzazione» aveva i giorni contati. Pochi mesi dopo, il 24 ottobre 1990, Andreotti rivelerà alla Camera dei deputati l’esistenza di quell’operazione.
Nell’appunto – che siamo in grado di mostrare per la prima volta – l’anonimo ufficiale ricorda alcune operazioni svolte insieme ai Servizi britannici nel periodo 1988-1989: «Suscitò notevole interesse – si legge – il fatto che gli operatori erano tutti agenti ESTERNI NON RICONOSCIUTI COME APPARTENENTI AL SERVIZIO E CONSIDERATI ALL’OCCORRENZA ‘A PERDERE’ (in maiuscolo nel testo originale, NdA)». Ovvero contractor «pagati a cachet».
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Ecco quello che ci serve, è stato il ragionamento dell’alto funzionario del Sismi: «Si ritiene che una organizzazione similare consentirebbe al Servizio di avere un braccio operativo in grado di condurre TUTTE QUELLE OPERAZIONI CHE NON POSSONO ESSERE EFFETTUATE DA PERSONALE EFFETTIVO IN QUANTO COMPORTANTI, IN CASO DI SVILUPPI NEGATIVI, IL COINVOLGIMENTO DELLA NAZIONE (in maiuscolo nel testo originale, NdA)». Ovvero agenti a perdere, seguendo la tradizione della Gran Bretagna e degli Stati Uniti. Operatori da usare in azioni sporche o imbarazzanti.
Licenza di uccidere
L’alto funzionario del Sismi, sfegatato fan di James Bond, per essere ancora più chiaro cita un esempio di operazione che creò non pochi problemi ai Servizi francesi, quando si scoprì il loro coinvolgimento: «Tipici esempi dei danni derivati dalla mancanza di siffatta struttura possono essere considerati: l’attacco alla nave di Greenpeace, portato da agenti regolari, che costrinse il direttore del servizio FRA (francese, NdA) a rassegnare le dimissioni».
Il 10 luglio 1985 il Dgse, il servizio francese responsabile delle operazioni all’estero, piazzò due cariche esplosive sotto la Rainbow Warrior, la nave dell’organizzazione ecologista, ferma nel porto di Aukland, in Nuova Zelanda, affondandola. Nell’attentato morì annegato un fotografo portoghese, Fernando Pereira.
Il «danno», per i Servizi italiani, non fu la morte di un innocente e la distruzione di una nave di un’organizzazione non governativa, ma quello di non aver utilizzato «agenti esterni», nomi che sarebbe stato possibile bruciare senza ricondurre l’operazione al Servizio segreto di Parigi. In altre parole, un’operazione sporca, al di fuori delle regole, ma che andava eseguita da agenti irregolari.
Il magistrato Felice Casson, che per primo intuì l’esistenza della struttura riservata – e che ha continuato ad occuparsi di segreti italiani come senatore (Partito Democratico) e segretario del Copasir – quando legge questo documento sobbalza: «È allucinante, praticamente si chiede di avere una specie di licenza di uccidere, in senso lato, sullo stile dei Servizi segreti americani e dei peggiori Servizi mondiali. Questo viene chiesto sostanzialmente, cioè di andare contro le norme, di avere delle persone da poter “bruciare” nel caso in cui succedano fatti gravi che uno Stato non può rivendicare».
Casson conferma di non aver mai visto questo appunto del Sismi: «Che io sappia questo documento fino ad oggi non è mai uscito. Ho fatto una verifica e non c’è negli archivi delle commissioni parlamentari sulle stragi, per quello che ho potuto vedere».
La nuova struttura proposta all’interno del Sismi nel luglio 1990 prevedeva di utilizzare come agenti a perdere «il personale già aderente alla nota Organizzazione», ovvero Gladio, e «ex appartenenti alle forze speciali», come il nono battaglione Col Moschin e il Comsubin, il commando incursori della Marina militare. Due corpi che, come vedremo, erano stati utilizzati dall’organizzazione clandestina “Stay Behind” almeno dal 1980 in poi.
La nuova struttura, si legge ancora nell’appunto, doveva avere un carattere di massima segretezza: «Limiti la conoscenza e la gestione del suddetto personale al Direttore della Sezione Addestramenti Speciali ed al titolare». In altre parole, l’intera filiera di controllo democratico sui Servizi segreti – Presidenza del Consiglio dei ministri e Comitato di controllo del Parlamento – doveva essere esclusa.
«C’è un punto, la penultima e ultima riga, di questo documento del 1990 – commenta Casson – che è estremamente interessante, perché in tutta questa vicenda ribadisce un aspetto fondamentale: il limite alla conoscenza, questa cosa si deve sapere soltanto all’interno di questa struttura e non deve uscire niente. Vuol dire: noi della democrazia, delle leggi, della costituzione ce ne freghiamo, noi siamo sopra».
Una struttura, dunque, eversiva? «Direi proprio di sì – risponde l’ex magistrato e senatore – fuori dalla Costituzione e dal Codice penale. E quest’ultima proposta di massima segretezza conferma la linea di sempre. Non si voleva informare di questo il Parlamento, il Governo e tanto meno l’opinione pubblica. Credo che in una democrazia fatti di questo tipo non siano assolutamente accettabili».
Quella struttura è stata poi creata? È difficile rispondere con certezza a questa domanda. Quello che è avvenuto dopo lo scioglimento di Gladio non rientra nei perimetri della declassificazione disposta da Mario Draghi. Il vincolo del segreto copre ancora la verità sui lati più oscuri della storia recente dell’Italia. Qualche spiraglio di luce, però, trapela.
Dopo “Stay Behind”
Due episodi tragici mostrano le ombre della «nota organizzazione». Due agguati, avvenuti dopo lo scioglimento di “Stay Behind”, che hanno visto la morte del giudice Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e di tre agenti della scorta, nel 1992, e della giornalista Ilaria Alpi e dell’operatore Miran Hrovatin, nel 1994. Alcune note fino ad oggi inedite sembrano collegare la loro tragica fine con operazioni militari clandestine. È un tema sensibile, che occorre ricostruire con la massima attenzione.
Abbiamo mostrato il documento del 1990 anche all’ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, oggi senatore per il Movimento Cinque Stelle e componente del Comitato di controllo sui servizi segreti, il Copasir.
Era collega e amico di Giovanni Falcone e, leggendo la proposta di utilizzo di agenti a perdere, mostra tutta la sua preoccupazione: «Gli ultimi documenti ritrovati confermano che componenti nevralgiche dei Servizi hanno operato continuativamente nel tempo, anche dopo la fine del pericolo di un’invasione sovietica, non come istituzioni dello Stato legalitario, soggette al controllo democratico e al principio di responsabilità, ma come apparati del cosiddetto “Deep State”, ponendo in essere attività fuori controllo che, non essendo riconducibili allo Stato legale, non potevano avere la copertura del segreto di Stato. Quel che sino ad oggi è venuto alla luce è, a mio parere, solo la punta dell’iceberg di un continente sommerso».
C’è un capitolo della storia di Gladio che rimane ancora oggi oscuro: quello sulle attività clandestine in Sicilia. Falcone intuì che il conto alla rovescia per lui era iniziato il 21 giugno 1989. In quei giorni alternava l’attività nella Procura di Palermo, dove stava seguendo la delicatissima indagine sull’omicidio di Piersanti Mattarella, il politico siciliano fratello dell’attuale Presidente della Repubblica ucciso in un agguato il 6 gennaio 1980, con qualche ora di mare in una villa che aveva affittato sulla spiaggia dell’Addaura.
Nella capitale siciliana erano giunti i colleghi svizzeri Carla Dal Ponte e Claudio Lehmann, impegnati nelle indagini sul riciclaggio dei soldi di Cosa Nostra. La mattina presto gli agenti della scorta trovarono cinquantotto cartucce di esplosivo Brixia B5 sulla scogliera della casa dove dormiva Falcone, con una tuta subacquea e delle pinne abbandonate. Intervennero gli artificieri, sventando l’attentato (e, per inciso, distruggendo maldestramente il dispositivo di innesco, impedendo così di ricostruire dettagliatamente l’origine dell’ordigno).
Falcone nei giorni successivi parlò di «menti raffinatissime». Su questo punto Scarpinato aggiunge un ulteriore elemento: «A proposito dell’attentato all’Addaura del 21 giugno 1989, nel corso del processo per l’omicidio Rostagno è stato acquisito un documento segretissimo del 10 giugno 1989 destinato ad essere distrutto, ma di cui qualcuno aveva conservato significativamente una copia per sé, nel quale si davano istruzioni per una operazione riconducibile a Gladio con l’utilizzo di mezzi del Centro Scorpione che doveva svolgersi proprio nell’area ove era ubicato il villino abitato da Falcone».
Si tratta di una nota che faceva riferimento ad un’operazione “Stay Behind” chiamata “Domus Aurea”, la casa dell’imperatore, avvenuta nel tratto di mare a poche centinaia di metri dall’abitazione estiva di Falcone, emersa nel corso di un’inchiesta giornalistica realizzata nel 2012 da chi scrive insieme a Luciano Scalettari, inviato di Famiglia Cristiana.
La Corte d’Assise di Trapani svolse una approfondita istruttoria per capire se quella nota e altri documenti attribuibili ai Servizi militari fossero autentici. La risposta fornita dall’Aise e dallo Stato maggiore della Sifesa ai magistrati fu interlocutoria, ma per la Corte d’Assise quelle note erano da ritenersi molto probabilmente autentiche.
Dagli archivi declassificati di Gladio spunta oggi un’ulteriore informazione che sembrerebbe confermare ulteriormente la genuinità del messaggio sull’operazione Gladio davanti alla casa dell’Addaura di Giovanni Falcone: esattamente quel punto, Torre del Rotolo, era considerata una «zona clandestina di sbarco» da utilizzare per operazioni riservate.
Il magistrato palermitano aveva intuito subito come dietro “Stay Behind” potesse celarsi altro, soprattutto per un curioso centro creato nel 1987 a Trapani, di certo non un punto nevralgico per una eventuale invasione sovietica: «Giovanni Falcone negli ultimi anni della sua vita focalizzò la sua attenzione sul ruolo di Gladio e del Centro Scorpione di Trapani. Aveva maturato la convinzione che in alcuni delitti politici eccellenti si fosse realizzata una convergenza di interessi tra il sistema di potere mafioso ed entità esterne», spiega Scarpinato.
Che poi aggiunge: «Entità composte da “menti raffinatissime” che, non a caso, erano entrate in campo contro di lui, affiancandosi alla mafia, con gli esposti anonimi del cosiddetto “corvo” prodromici all’attentato all’Addaura, dopo che aveva imboccato la pista nera per l’omicidio Mattarella, che aveva significative proiezioni anche sulla strage di Bologna. Come risulta da brani dei suoi diari pubblicati, sulla base di ciò che io stesso vidi come diretto testimone, le sue indagini su Gladio e sui delitti politici furono ostacolate dal procuratore capo del tempo, tanto che questo fu uno dei motivi determinanti che lo indussero a lasciare la Procura di Palermo accettando la proposta di Martelli (all’epoca ministro di Giustzia, ndr) di trasferirsi al ministero della Giustizia a Roma come direttore degli Affari penali».
Poco prima di essere ucciso, Falcone puntava a riprendere i fili di quella pista investigativa: L’ultima volta che lo vidi a Roma – rivela Scarpinato – nel confidarmi che era quasi certo di essere nominato Procuratore nazionale Antimafia, mi propose di tornare a lavorare con lui dicendomi che finalmente avremmo potuto svolgere le indagini che sino ad allora ci avevano impedito».
“Rientro immediato”
È il 14 marzo 1994. Bosaso, nord della Somalia. La giornalista Ilaria Alpi e il video-operatore Miran Hrovatin arrivano nella città portuale che si affaccia sul golfo di Aden con indicazioni precise annotate sui block notes dell’inviata della Rai. Manca una settimana all’agguato del 20 marzo, dove moriranno entrambi.
C’è una nave di una compagnia italo-somala, la Shifco, sotto sequestro. Parte del personale di bordo – a cominciare dal capitano – è italiano. A 1.300 chilometri di distanza, a Balad, a nord di Mogadiscio, c’è il cuore del contingente italiano impegnato nella missione Onu Unosom. Sta per smobilitare, lasciando la Somalia al suo destino. Il reparto di punta è il nono battaglione Col Moschin, gli incursori della Folgore.
Ma a Balad c’era anche un nucleo della settima divisione Sismi, il reparto a capo di Gladio. Un cablogramma con la stessa data dell’arrivo di Alpi e Hrovatin a Bosaso e indirizzato a un ufficiale del Col Moschin a Balad – documento fornito da una fonte confidenziale e depositato nel 2013 dalla Dda di Palermo nel processo di primo grado per l’omicidio di Mauro Rostagno, insieme al messaggio sull’operazione “Domus Aurea” davanti all’Addaura – rivela un’operazione militare in corso in quelle ore: «Causa presenze anomale in zona Bos/Lasko (Bosaso Las Korey, NdA) ordinasi Jupiter rientro immediato base I Mog», si legge. «Presenze anomale», ovvero i due giornalisti. Prosegue il documento: «Ordinasi spostamento tattico Condor zona operativa Bravo possibile intervento».
Chi era Jupiter? Come emerso nel processo Rostagno, era l’alias di Giuseppe Cammisa, il braccio destro di Francesco Cardella, fondatore della comunità di recupero per tossicodipendenti Saman. Un civile, dunque, che operava insieme a unità militari.
Un dato è certo: Cammisa sicuramente quel 14 marzo 1994 si stava preparando per viaggiare da Gibuti a Bosaso, dove sarebbe arrivato due giorni dopo. Uno spostamento dimostrato da alcuni documenti interni di Saman, tra i quali un fax datato 15 marzo 1994 nel quale lo stesso Cammisa annuncia la sua partenza per Bosaso, prevista per il giorno successivo, firmandosi appunto Jupiter.
Nel corso dell’istruttoria a Trapani, a conferma dell’importanza del documento, è emerso che il maggiore del Col Moschin destinatario di quel messaggio aveva firmato nel 1984 un impegno di segretezza della struttura “Stay Behind”. Ma non era il solo.
Nella documentazione declassificata che abbiamo potuto consultare c’è anche una lunga lista di ufficiali e sottufficiali del reparto degli incursori della Folgore che hanno aderito, negli anni Ottanta, alla «nota organizzazione». E di questi almeno otto hanno prestato servizio proprio in Somalia. Tra loro c’è un nome noto: l’ex generale Marco Bertolini, che ha operato nel Paese del Corno d’Africa fino al 1993. Anche lui inquadrato Gladio, secondo la documentazione declassificata.
Bertolini – che non ha voluto rispondere a una nostra richiesta di intervista – oggi ha un ruolo attivo in Fratelli d’Italia, tanto da essere stato candidato per il partito di Giorgia Meloni alle ultime elezioni europee.
Torniamo alla Somalia. Un uomo di punta della settima divisione e dell’organizzazione Gladio era Vincenzo Li Causi. Era in servizio anche lui a Balad – non sappiamo con quali regole d’ingaggio – come agente del Sismi. Muore in circostanze misteriose il 12 novembre 1993.
Insieme a lui operava un altro membro della settima divisione e, ancora una volta, di Gladio: Giulivo Conti. Conti e Li Causi facevano parte del gruppo Ossi, agenti utilizzati per le operazioni speciali. Una struttura che assomiglia incredibilmente a quella descritta nel documento del 13 luglio 1990: un team per operazioni non sempre pulite, che l’ambasciatore Paolo Fulci nel 1993 ha indicato come collegato con la Falange Armata, sigla utilizzata dal 1990 in poi da una misteriosa organizzazione di disinformazione, di ricatto ed eversiva che iniziò ad apparire proprio quando l’indagine di Casson si avvicinava a Gladio e mentre un alto funzionario, come abbiamo raccontato, chiedeva di creare una nuova struttura con agenti a perdere.
Su questo fronte nessuna inchiesta giudiziaria o parlamentare è riuscita a fare chiarezza, anzi. Alcuni testimoni chiave del caso Alpi non sono mai stati sentiti. A capo del Sismi in Somalia c’era Gianfranco Giusti, agente in servizio a Balad dal 1993 al 1995: incredibilmente non risulta mai interrogato dalle autorità sull’agguato del 20 marzo 1994 (nel verbale della Procura di Roma si parla solo della morte di Li Causi) o su quell’operazione anomala di Bosaso, entrata formalmente nel processo di Trapani sulla morte di Rostagno.
Quale fosse l’interesse per la Somalia della settima divisione non è noto; di certo dall’archivio di Gladio emergono documenti che mostrano un interesse per quell’area, che nulla aveva a che vedere con la dottrina “Stay Behind”. Il centro Pleiadi, attivo ad Asti, il 10 luglio 1990 elabora un copioso dossier: “Somalia. Ultimi avvenimenti”, il titolo. Un curioso interesse, ben distante dal fronte ufficiale con il blocco sovietico, a migliaia di chilometri più a nord. La verità su Gladio è ancora lontana.