Sulla giustizia nessuno sfiducerà Draghi. “Al massimo 15 contrari nel M5S”
Probabilmente non sarà la riforma della giustizia a mettere a rischio il governo. Certo, tra le fila del Movimento 5Stelle emerge un malcontento diffuso ma anche la consapevolezza che non si può tirare più di tanto la corda soprattutto quando ti trovi di fronte un personaggio come Mario Draghi che ormai viaggia stabilmente intorno al 70 per cento di popolarità nei sondaggi.
Anche la ministra delle Politiche Giovanili, Fabiana Dadone, ha aggiustato il tiro rispetto alle dichiarazioni di fuoco in cui parlava esplicitamente di dimissioni dei ministri M5s dal governo se non si fosse trovata la quadra nella maggioranza. Difficile immaginare però che una contiana di ferro e per giunta ministro del governo abbia pronunciato quelle durissime parole senza prima essersi consultata con l’ex presidente del consiglio Giuseppe Conte.
Il vero punto politico però è che l’autorizzazione a porre la fiducia sulla riforma, chiesta e ottenuta dal premier Draghi al Consiglio dei Ministri, ha ribaltato il tavolo delle trattative, mettendo in difficoltà i Cinque Stelle. Che continuano in molti casi a dirsi contrari alle nuove norme sulla prescrizione, ma sono pochissimi quelli che arriverebbero a sfiduciare davvero il governo: “10 o 15 al massimo rispetto ai 30 di ieri” spiega oggi una fonte M5s. Ma stavolta per palazzo Chigi la riforma “s’ha da fare”, costi quel che costi.
E c’è un motivo in particolare: “È l’alta finanza internazionale che preme per riformare la magistratura in Italia, per poter così iniziare ad investire cifre importanti nel belpaese” spiega una fonte solitamente molto bene informata proveniente dagli ambienti del deep state. Insomma, stavolta anche i magistrati si dovranno arrendere.
E la memoria inevitabilmente va alla nascita del governo Draghi: quando Conte è stato messo alla porta, crollato per errori tattico-strategici propri ma anche per la poca fiducia che ormai riscuoteva a livello internazionale, l’Italia d’accordo con i partner europei e gli Stati Uniti (Biden si era da poco insediato) ha dato il via ad una fase politica ed istituzionale totalmente nuova ed a gestirla è stato chiamato Mario Draghi.
I partiti, che negli ultimi anni hanno sbagliato tutto quello che potevano sbagliare per via di classi dirigenti per lo più autoreferenziali e inadeguate (come non ricordare le prodezze del “Papeete” e la disperata quanto inutile caccia ai responsabili) sono stati “gentilmente” messi alla porta per consentire all’ex presidente Bce di rilanciare il paese dal punto di vista economico e sociale oltreché geopolitico.
Per fare questo però serviranno molti quattrini (provenienti non soltanto dall’Europa ma anche da oltreoceano), soldi che arriveranno soltanto a patto di riformare la magistratura. Nessun grande investitore straniero è disponibile a investire milioni di dollari per poi ritrovarsi impelagato in vicende giudiziarie che nella migliore delle ipotesi durano anni.
Rimettere il Paese nel solco della tradizione euro-atlantica dopo le sbandate filorusse e filocinesi è stato una delle prime richieste piovute sulla scrivania di Palazzo Chigi mentre l’altra, quella di riformare la giustizia, veniva subito dopo. Ecco perché Mario Draghi non intende assolutamente rinunciare alla riforma Cartabia tanto da apporre senza alcun tentennamento il voto di fiducia.