Quel rapporto inquinato fra i giornali e gli uffici stampa dei politici: così anche i candidati alle regionali “comprano” articoli e interviste
In Italia si discute tantissimo della subordinazione di certa stampa al potere politico, ma lo si fa sempre a senso unico e cioè: i giornalisti italiani sono schiavi, pennivendoli, puttane, cani da riporto. Abbiamo un colpevole, e quindi il caso è chiuso. Ma la politica? Difficilmente si parla del modo in cui la politica vada a caccia di cronisti per accreditarsi, imbonirli oppure assorbirli nel proprio organo di propaganda, soprattutto nei periodi in cui ci si avvicina ad una tornata elettorale.
Ad esempio, c’è un giornalista che non scrive per nessuna testata ma lavora come consulente della comunicazione per enti e associazioni che ci racconta di essere stato contattato molto di recente da un aspirante sindaco: “A me hanno chiesto di fare l’ufficio stampa perché ho buoni rapporti professionali con una cronista politica di Repubblica. Loro lo sanno quindi si dicono ‘ah questo ha delle entrature, vieni qua che ti facciamo fare l’ufficio stampa’. Ma il motivo, non sono così scemo da non averlo capito, è che ho in tasca delle relazioni con i media che rappresentano il loro vero interesse, capisci? Infatti la prima frase che mi è stata detta quando ho incontrato il candidato per discutere di un mio eventuale incarico è stata: ‘Mi fai incontrare la Cuzzocrea?’ (la quale è completamente estranea alla vicenda e viene citata in maniera maldestra da un politico locale che ambisce a finire sulle pagine nazionali di uno dei principali quotidiani italiani, ndr)”.
Dunque gli elettori devono credere che i politici detestino “i giornaloni” ma in realtà, nelle segrete stanze, si arrovellano per finire in prima pagina. Gli elettori devono credere che i giornalisti siano tutti dei venduti, ciò che non viene detto è che la politica non vede l’ora di incontrare la disponibilità di un giornalista di parte: “Serve che stringiate rapporti, quasi di parentela, con i giornalisti”, si sente in una conversazione registrata durante una riunione dello staff comunicazione di un politico in corsa in una grande città italiana. “Che li invitiate a cena, a colazione, portateli dove vi pare. Dobbiamo trovare un giornalista che firmi ciò che gli scriviamo”.
Ma facciamo un piccolo passo indietro. In questi anni di profonda crisi del settore editoriale, la politica è diventata il più grande ufficio di collocamento per un esercito di giornalisti precari e disoccupati. La questione è cruciale perché, mentre si aboliva progressivamente il finanziamento pubblico alla stampa, partiti e politici iniziavano a investire cifre da capogiro nella comunicazione di parte. Mentre il giornalismo italiano affrontava il peggiore terremoto di sempre, la propaganda prendeva il sopravvento sull’informazione.
E il sorpasso è avvenuto anche perché, mentre molti quotidiani pagano 7 euro a pezzo, calpestando diritti e tutele, nell’indifferenza o con la complicità dei legislatori, i politici ti offrono due spicci in più ma soprattutto una prospettiva – almeno a parole – molto più solida (“fatti questa campagna elettorale ché poi da qualche parte ti infiliamo”; “se vinciamo le elezioni, per i prossimi cinque anni sei a posto”; “l’unico problema è che se vuoi ambire ad entrare a far parte dell’ufficio stampa di un consigliere, prima devi farti a gratis almeno una campagna elettorale”).
Nell’epoca in cui la comunicazione è diventata la chiave di volta di qualsiasi competizione politica, i rapporti con la stampa continuano ad essere considerati imprescindibili, al pari di una buona copertura social. Altro che disintermediazione.
Le testimonianze, a volerle raccogliere, si sprecano. Da una parte, spiega una fonte, “c’è un’ansia e una dipendenza da insight pazzesca, è come se si diventasse tossici di like, anche se sanno che è solo fuffa non riescono a non scrivere post petalosi perché è con quelli che fai quei numeri”. Dall’altra c’è la corsa ad accaparrarsi uno spazio sui giornali di carta, oppure giornalisti compiacenti – “uno al quale poter dettare il pezzo”, o addirittura pagati direttamente dal candidato di turno “perché scriva ciò che vogliamo quando ci serve”.
Ad esempio, “compare un collega, pagato dal candidato per occuparsi di relazioni con i media e tessere le trame della comunicazione elettorale, che in contemporanea pubblica un articolo su un settimanale, che sembra uscito dalla penna di quello che potrebbe essere il futuro sindaco, riguardante uno di quelli che saranno i cavalli di battaglia della sua campagna”.
In seguito verranno individuati anche altri giornalisti, ad esempio di una rivista a tiratura nazionale, che per quanto estranei al disegno politico si faranno suggerire i temi e addirittura le persone da intervistare. Secondo uno schema diamentralmente opposto a quello che dovrebbe essere la normalità: dovrebbero essere i giornalisti a scovare disinteressatamente notizie e fonti, e non gli amici degli amici del candidato a fornirli ai giornali per un preciso scopo elettorale. Altrimenti, se mancano la ricerca e il filtro giornalistico, finisce che i giornali si trasformano in semplici uffici stampa che rilanciano comunicati già scritti.
Il punto è che, in questo modo, solo i politici con le giuste entrature finiscono sui giornali e che così facendo il sistema si autoalimenta perché anche chi non può contare su un aggancio farà di tutto per trovarne uno, “perché capisci che è così che funziona”. Ma il punto è anche che le due carriere, quella di giornalista e quella di addetto alla propaganda, dovrebbero essere – sono? – inconciliabili. Delle due, l’una. Soprattutto se al giornale per il quale scrivi proponi un articolo che riguarda il tuo candidato.
Eppure non è così, anzi: “Poter pubblicare un pezzo su un quotidiano mentre si lavora in contemporanea come ghostwriter per un personaggio politico è diventato uno dei più potenti lasciapassare per fare carriera, sia in un ambito che nell’altro”, dice una fonte. Essere in grado di pubblicare articoli ad orologeria su un giornale nazionale marca sempre di più la differenza tra l’essere scartati e l’essere ingaggiati da uno dei famosi team di comunicazione politica. Mentre, d’altro canto, è vero anche il contrario: lavorare per un politico può aprirti strade insperate nel mondo del giornalismo.
Ad esempio: “Gli ho chiesto di raccomandarmi ad un direttore di testata che deve incontrare a giorni per un’intervista, dice che ci proverà”, oppure, in un altro caso, “una volta mi è stato chiesto di scrivere un articolo per una rivista. Avrei dovuto scrivere un pezzo in quanto giornalista per un giornale regolarmente registrato, senza passare per un caporedattore. In pratica l’articolo mi era stato commissionato dal team, che in buona sostanza avrebbe pagato il mio articolo al posto dell’editore nel senso che non si è mai parlato di un compenso per quel pezzo, si valutava che quel tipo di lavoro fosse compreso nella paga che percepivo regolarmente come social media manager”.
La fotografia che emerge è quella di un rapporto con il mondo dell’informazione completamente inquinato. Innanzitutto occorre dire che l’inquinamento, prima che materiale, è culturale. Più che per esperienza diretta, anche alla prima corsa elettorale, si pensa di dover disporre della stampa a proprio piacimento perché “fanno tutti così” e allora adeguarsi, anche goffamente, sembra l’unica strada possibile per non fare la figura dei fessi. Perché ognuno sa che gli avversari faranno lo stesso, o lo hanno già fatto.
Per questo motivo, tra gli altri, la diffidenza nei confronti dei media è altissima: “Ognuno ha i suoi giornalisti di riferimento, è chiaro. E poi ci sono dei giornalisti che remano chiaramente contro, c’è spesso il timore che dovendo far uscire una notizia quelli ne facciano una lettura totalmente controproducente: una volta, prima di ufficializzare la candidatura, si parlava si rilasciare un’intervista ma erano preoccupati che la stampa poi titolasse ‘è sceso in campo’ prima del tempo, per questo occorreva trovare uno che non impostasse l’intervista in quel modo e facesse solo le domande alle quali volevamo rispondere”.
In questo quadro è inutile pensare che quelli descritti siano i metodi utilizzati da un politico in particolare: questa dinamica si è fatta sistema, tanto che per una grande maggioranza di addetti ai lavori rappresenta un segreto che non è più tale. Indicare i nomi dei protagonisti di queste storie è ininfluente proprio per questo motivo: “Gli stessi lettori ormai sono in grado di riconoscere un’intervista sdraiata, dai. La leggi ed è come leggere il programma elettorale, come il tema libero a scuola”.
In questo articolo si parla di un sommerso che fatica ad emergere perché è molto complicato trovare fonti che accettino di parlare apertamente di queste dinamiche esponendosi in prima persona. Le persone coinvolte, i testimoni e le fonti sono tutte coperte da anonimato perché questo è l’unico modo di iniziare ad affrontare il problema, che altrimenti rimane semplicemente inespresso. Le persone citate vengono citate perché non partecipano in alcun modo al sistema e proprio per questo rappresentano un obiettivo pressoché irraggiungibile per i politici che vorrebbero avvicinarle.
Leggi anche: Il linguaggio di certi giornali sul caso di Caivano rivela l’arretratezza italiana sull’omotransfobia (di G. Cavalli)