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Napolitano, l’ex presidente della Consulta Giovanni Maria Flick a TPI: “Nel 2011 fu costituzionalmente ineccepibile”

Immagine di copertina
Credit: AGF

"Non volle mai essere visto come un semplice notaio. La sua azione durante l'ultimo governo Berlusconi richiama l’idea di unità nazionale di fronte alla crisi"

Nel 2011 Napolitano fu accusato di aver spodestato Berlusconi e insediato un outsider come Monti. Modificò la Costituzione materiale, trasformando la figura del Presidente della Repubblica in un organo politico? 

«La Costituzione ha previsto un margine di estrema ampiezza dei poteri di rappresentanza dell’unità nazionale e di “moral suasion” del Presidente della Repubblica, che è il perno di un sistema equilibrato. La figura del capo dello Stato è definita proprio da una serie di funzioni che esprimono chiaramente il suo ruolo di vertice di garanzia costituzionale tra i vari poteri. Egli deve sempre mediare tra possibili contrasti tra organi istituzionali».

Quindi Napolitano non esondò?

«No. Le richiamo alla memoria i numerosi poteri attribuiti dall’articolo 87 della Costituzione al Presidente della Repubblica. Tutte competenze di vertice volte a consentirgli un ruolo di altissima mediazione tra le istituzioni. Mentre la Corte costituzionale ha soprattutto il compito di garantire la conformità alla Costituzione delle leggi, il Presidente è prima di tutto una figura essenziale di raccordo e di equilibrio tra i poteri, in nome dell’unità nazionale. Napolitano usò efficacemente e correttamente questi poteri e non volle mai essere visto come un notaio. La sua azione del 2011 è un richiamo concreto al concetto di unità nazionale di fronte alla crisi. La Costituzione va rispettata, ma non solo nella sua lettera. Napolitano aiutò a sbrogliare il groviglio di contraddizioni che si vivevano in quel periodo».

Fu un modo rischioso di interpretare il mandato?

«No. Napolitano non volle essere un presidente passivo. E ne ebbe tutte le ragioni. I rischi, piuttosto, li vedo ora, sul piano economico, sociale e geopolitico».

Perché?

«Il dibattito sulla riforma dell’istituto presidenziale nel senso di attribuire una serie di competenze al Presidente del Consiglio dei ministri si traduce, essenzialmente, nello svuotare di poteri la Presidenza della Repubblica e il Parlamento. Si propone l’elezione diretta del capo del governo. Però, se si elimina il voto di fiducia, il Presidente del Consiglio diventa organo di vertice, nomina e revoca i ministri e coordina la loro attività; se vi è un doppio voto di sfiducia del Parlamento, il capo dell’esecutivo si dimette e si sciolgono le Camere. Questo ribalta il rapporto Presidente della Repubblica-Parlamento-Governo. Il Presidente della Repubblica viene privato degli unici poteri di cui dispone in relazione al Governo: lo scioglimento del Parlamento e la nomina del Presidente del Consiglio e dei ministri. Non solo, questa prospettiva riduce ulteriormente anche il ruolo del Parlamento, già dimezzato, e che si vuole ancora ridurre con il disegno di legge sulla autonomia differenziata».

Lei, oltre che da Ministro con Prodi, collaborò con Napolitano anche in Europa?

«Sì. Quando fui nominato rappresentante italiano in seno alla Convenzione che elaborò la Carta dei diritti umani nell’UE.  A Bruxelles trovai Napolitano e scambiammo sensazioni e impressioni. Ebbi molto da imparare sulla sua concezione dell’Europa, che era quella di Spinelli e dei padri dell’Unione».

Su cosa vi confrontaste?

«Su quello che io chiamo il terzo risorgimento italiano. L’Italia ha avuto tre risorgimenti: il primo nel 1861, elitario, quando si coagulò l’idea unitaria. Il secondo è quello che nacque dopo la guerra, la sconfitta, la resistenza e la liberazione (collaborando con le armate alleate). E fu il momento del risorgimento costituzionale. Il terzo è proprio il risorgimento europeo dell’Italia». 

Cosa ne disse Napolitano?

«Perseguiva l’idea di un’Europa che cercasse di trovare un equilibrio tra diritti e interessi, soprattutto economici. L’Ue ha fatto parecchio, in questa direzione, anche se poi gli interessi economici hanno finito per prevalere, dandosi la mano con gli egoismi nazionali e la loro esasperazione sovranista».

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